Michèle Causse e Maryvonne Lapouge, 1977. «Prefazione», in: Ecrits, voix d’Italie, Paris: Éditions des femmes, pp. 7-19.
Michèle Causse |
Traduzione di “McQueen” per LesWiki. Ecrits, voix d’Italie – Indice e note |
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Michèle Causse
«Mi avete insegnato il linguaggio, e il profitto che ne ho tratto è l’avere imparato a maledire». Ogni donna, nel momento in cui scrive, è questo Calibano che, conquistata con una lotta eccelsa «una stanza tutta per sè», scopre il potere detonante delle parole (micce che accende una dopo l’altra).
Ogni giorno in misura maggiore rispetto al precedente, l’urgenza l’attanaglia, la donna scrive per denunciare. Non tutte le donne che scrivono sono però scrittrici. Questa contro-ovvietà diventa sempre più lapalissiana. In veste di cattiva coscienza dei tempi, la donna pro-crea una riflessione, un’accusa sulla sorte che la società le assegna (sorte alla quale essa, reticente, non si conforma).
Ogni donna non ha che un dire, quello della propria ferita. E ogni ferita è singolare. La traccia di questa ferita in ognuna è indelebile, unica. E ciascuna nella sua unicità la scrive, la dice. Essendo questa grande singolarità delle donne (delle forme del dire femminile) forse il risultato di un isolamento lungo, secolare, saremmo di fronte ad una irriducibilità che la collettività tenta invano di soffocare, di livellare.
Se la ferita non è dissociabile dalla donna e costituisce parte della sua persona (è divenuta organica?), il prodotto (fisiologico?) che ne deriva – e non è così recente come vorrebbero [fine p. 7] farci credere – è la lotta. E anche il fatto che la lotta si trasmetta attraverso la scrittura, rientra nella tradizione. A partire dalla «Difesa dei diritti delle donne» di Mary, diversi scritti suggeriscono le finalità della lotta, se non addirittura le modalità. Rientra nella tradizione il fatto che il destino delle donne non subisca modifiche (quasi al punto che, pure più inserita rispetto a prima nel mondo degli uomini, si è ancora di più allontanata da se stessa e dalla propria identità). Attraverso il tramite della scrittura, la donna comunica l’unica scienza che possiede, quella del suo vissuto. Non dice nulla che il suo corpo non le detti. La scrittura diventa così questo lasciapassare, garanzia di un «ergo sum» tangibile e immediato che niente all’esterno conferma, un’isoletta di identità e di protesta.
Raccogliendo testi e dichiarazioni di donne italiane, abbiamo voluto riparare un’ingiustizia, rendere visibili (cioè leggibili e ascoltabili) donne che la loro lingua circonda, come la seppia, con una nuvola d’inchiostro.
Abbiamo dovuto operare una selezione fra le numerose donne che scrivono. Ce ne dispiace. E’ evidente il fatto che una scelta sia sempre estremamente soggettiva e parziale, frutto di una serie di variabili. L’oggettività è morta. Non ne portiamo il lutto: ci era sempre parsa sospetta e inaccessibile. Ma rimane il fatto che un’antologia presenta sempre un aspetto profondamente «lesivo» e ributtante. Una compilatrice si comporta come il tagliaboschi che, arbitrariamente (in apparenza), decide l’abbattimento o la salvezza di un albero.
Il caso e la necessità ci hanno condotte. E immediatamente si sono imposte due categorie di donne :
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Le scrittrici: quelle per le quali la scrittura è un lavoro/una vocazione ;
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Le scriventi: quelle che ricorrono alla scrittura per [fine p. 8] esplicitare i rispettivi campi di interesse ed indagine (antropologia, politica, giornalismo/cinema, canzone, femminismo, pedagogia, pittura, disegno).
Conosciute o sconosciute, queste donne, condizionate dal periodo nel quale vivono, cercano a loro volta di condizionarlo (o, per essere più precisa, di de-condizionarlo). In Italia, come del resto altrove, le donne non ricevono un ascolto degno di questo nome (chi si è mai dato la pena di ascoltare una donna che parli di altre donne?) ma le loro parole testimoniano di loro stesse,del tempo e del luogo all’interno del quale esse si inscrivono oppure non si iscrivono, cosa che tutte lamentano.
Qualcuno obietterà che buona parte delle scrittrici qui riunite hanno ottenuto almeno un premio nel loro paese. Premi assegnati da giurie maschili. Questi giocherelli testimonierebbero «l’uguaglianza» che regna nel mondo della letteratura. A ciascuna ciò che merita. Ma sarebbe preferibile non rallegrarsi troppo in fretta. E’sufficiente aprire un’antologia di scrittori o poeti italiani per vedere la donna sparire immediatamente dalla dotta assemblea. La si fa sparire, la si nega, la si occulta. [1]
Come ha detto Claire Démar prima che la portassero a suicidarsi: «Soltanto le donne possono comprendere ciò di cui le donne hanno bisogno.» Ed è per rispondere alla sua affermazione: «Sento che l’isolamento ci uccide, che abbiamo bisogno di [fine p. 9] unirci, di comunicarci le nostre idee», che è nata l’idea di mettere insieme le donne italiane che scrivono.
Non c’è nessun progetto didattico in questa circostanza se non quello di rivelare organizzazioni, bisogni, volontà di vario tipo senza cercare di rinchiuderli in una origine comune o in identiche intenzioni perché siamo ancora troppo ignoranti, noi donne, della nostra natura, per non lasciare che anzitutto essa si esprima.
Può darsi che, in mezzo a loro, si riesca a trovare quella «parola supremamente rivoltante», altrimenti detta supremamente strana, inaudita, che aprirà brecce e costringerà all’ascolto. Dal momento che la parola (il testo) di una donna è sempre la trascrizione di una pratica, sono queste pratiche che importano, in primo luogo a noi, le fameliche, che ne abbiamo conosciuto solo una, conformarsi, obbedire, aggiustarsi alle necessità dell’Altro.
Se c’è una pratica, qui, che viene fatta scomparire, è quella del matrimonio. Le donne raccolte in questa antologia si situano tutte al di fuori dei legami istituzionali. [2]. Non c’è nessuna intenzionalità da parte nostra: in molti casi ignoriamo tutto delle nostre autrici. Ma si è tentate di stabilire una relazione di causa-effetto fra la creatività delle donne e la loro indipendenza: così tentate che, per essere sincere, non resistiamo alla tentazione (una volta sola non è abitudine). Non dimentichiamo che era italiana la femminista di inizio secolo (Angelica Balabanof) che diceva: «Le donne dovranno ingaggiare una battaglia feroce per accedere alla libertà di spirito e alla convinzione che per loro la libertà sia più preziosa degli uomini.» Parrebbe che, almeno in questo [fine p. 10] caso specifico, la lotta sia stata vinta. Come se ogni donna avesse meditato e fatto proprie le riflessioni di Alexandra Kollontai: «Bisogna insegnare alle donne a non sacrificare cuore e anima all’amore di un uomo, ma a rivolgersi alle cose essenziali, vale a dire alle attività creative. Quando rivolgo lo sguardo alle mie opere, mi accorgo che questo è il pensiero che ha ispirato la maggior parte dei miei testi sulla questione sessuale. L’amore non deve schiacciare l’individualità della donna, tarparne le ali. Quando l’amore minaccia di soggiogarla, deve rompere le catene, buttarsi alle spalle le tragedie dell’amore e seguire la propria strada.»
Le venti donne qui riunite hanno fatto la loro scelta. Si sono scelte. Hanno scelto il loro «operare», come si dice nella loro lingua.
Sono quindi tentativi di una nuova vita quelli che accompagnano queste scelte. Larvati, esitanti, a tentoni, balbuzienti. In ogni caso, qui «l’avvenire ha già disperso la famiglia». Con cosa si rimpiazza l’insostituibile famiglia? Con l’essere soli, l’atomo, la coppia riveduta e corretta, il gruppo. Si potrebbe obiettare che il gruppo sostituisca la famiglia, che offre sicurezza e pratiche comunitarie, perfino le inevitabili tensioni libidinali. Quanto meno, è il prodotto di un volere esclusivamente femminile, desideroso di evitare la gerarchia e di instaurare un simbolico, ‘di gruppo’ esattamente, ricco di insegnamenti. Nel gruppo le donne, «libere di affrontare il disprezzo, il dileggio» possono finalmente, come aveva predetto Carpenter nel 1880, arrogarsi «il diritto di parlare, vestirsi, pensare, agire e soprattutto utilizzare il proprio sesso come meglio credono». [fine p. 11]
Vedremo qui, dunque, donne che fanno della scrittura un fine (scrittura come arte) e donne che ne fanno un mezzo (scrittura come veicolo di un pensiero, di una ideologia) [3]. Ognuna ha donato un testo (spesso inedito) e, nella maggioranza dei casi, ha acconsentito ad accompagnare il testo con una intervista, registrata con il magnetofono. L’autrice affronta gli argomenti che le stanno a cuore e parla a ruota libera, appena “provocata” da domande che non hanno mai lo scopo di violentare, di forzare, di aggredire, di mettere a disagio. Un approccio così poco “pilotato” corre ovviamente il rischio di incontrare delle lacune. Ma il non detto, il ‘tu’, ciò che passa sotto silenzio ci sembra interessante quanto ciò che invece viene esplicitato nel corso di un’intervista. Il che, in effetti, non è mai accidentale, corrisponde in genere all’economia interna della persona. Ciascuna traccia così il proprio ritratto. E il disegno non è mai identico. Le italiane parleranno molto, scattando, vivaci, calorose, indignate o offese. Nutrendo poi grandi perplessità rispetto ai loro contributi. Non esprimeranno mai dubbi su una possibile manipolazione delle loro dichiarazioni. La diffidenza veniva riversata interamente su di sè, sulla propria eccessiva spontaneità. Diffidenza anche di donne, delle une verso le altre. Alcune giudicano impossibile e inopportuno avvicinare sorelle nemiche. O considerate tali. Ma la diffidenza lì si ferma.
Il quadro che emerge da accostamenti talvolta insoliti è assai rappresentativo della realtà italiana. Le [fine p. 12] contraddizioni stesse che ci sono fra una donna e l’altra, e nella stessa donna da una dichiarazione all’altra, sono le prove della vitalità del pensiero femminile attuale.
Ciononostante, ci sembra di riconoscere tre linee direttrici. Tre grandi linee che partono da un tronco comune. Ogni donna in effetti si definisce (ma non necessariamente) femminista. La parola femminismo ha in loro una tale varietà di significati e di accezioni che finirebbe per non significare più nulla se non, nel migliore dei casi (e questo è il senso che le daremo qui) : «presa di coscienza di una specificità femminile e necessità di farla riconoscere». Su questo tronco, molto generico, si innestano tre rami che rispondono alle modalità e alle finalità della presa di coscienza, alle azioni destinate a mettere in opera questa specificità.
C’è anzitutto il ramo individualista. Estremamente isolata, diffidente, originale e inventiva, questa categoria non crede che a soluzioni individuali, a casi particolari.
Viene poi il ramo politico. Qui si è capita l’importanza del numero per ottenere determinati obiettivi e, attraverso una dura competizione con l’uomo, si cerca di batterlo sul suo terreno, con i suoi strumenti, mirando al l’affermazione individuale e al benessere di tutte.
L’ultimo è il ramo delle separatiste o utopiste: anche loro suddivise in una moltitudine di ramoscelli. Questa categoria ha compreso che la soluzione non può più essere individuale, ciò nonostante, per arrivare al cambiamento rifiuta i canali esistenti e, obbedendo alle proprie istanze, preferisce creare organi “alternativi” suoi propri. [fine p. 13]
E’ quindi lo sguardo sulla realtà (il condizionamento o la novità di tale sguardo) che determina l’appartenenza a un gruppo piuttosto che ad un altro. L’età di questo sguardo non è senza importanza, ma non è sempre determinante. Le radicali sono più spesso giovani. Alcune donne che saltellano su un ramo son già pronte a volare su un altro. Altre esitano. Altre ancora hanno un piede in bilico.
Se volessimo caratterizzare le varie categorie in modo più preciso, potremmo aggiungere che il primo ramo, quello individualista :
– non opera una rimessa in discussione della società (con la scrittrice che si apre il cammino come le consorelle del passato, in un mondo ostile, attraverso una ricerca solitaria nella quale però la realtà donna viene percepita con acume, soprattutto nei suoi disagi). Il secondo ramo, quello politico :
– opera una rimessa in discussione della società all’interno dell’assoluto patriarcale e raccomanda un’appropriazione delle strutture e dei mezzi esistenti (partiti, sindacati, mass-media). Per quanto rivoluzionarie possano talvolta essere le politiche, non demoliscono mai ciò che esiste, si integrano in un già-concepito dall’uomo. Pensano in genere che sia sufficiente mettere delle donne al posto degli uomini perché la realtà cambi. Non gli sfuggono alcuni pericoli legati a questa posizione (recupero), ma sono incapaci di resistere alla “efficacia” delle strutture esistenti. Sono donne che utilizzano parole come “potere” (presa di) , “dirigere” [fine p. 14], “organizzazione”, “massa”, “rivoluzione”. Parole nate da una coscienza “pre” (che non è la loro) ma che gli sembrano adeguate ai loro scopi. D’altronde lodevoli. La lotta non è fondamentalmente una lotta dei sessi ma una lotta di classe. Partono dal principio che per raggiungere gli obiettivi femminili (restano sul vago in merito a questi obiettivi, ispirati in genere ad un riformismo di buona lega) convenga usare i mezzi esistenti, nell’insieme non sono delle creatrici ma delle strateghe. Occorrerebbe insomma alimentarle con delle idee… che addomesticherebbero rendendole “funzionali”. Sono profondamente segnate dalla realtà (nel migliore dei casi socialista, intrisa della lezione di Trotsky: «invece di dire con chiarezza che, in mancanza dei mezzi e delle conoscenze per instaurare relazioni socialiste fra esseri umani, ci vediamo obbligati ad affidare la realizzazione di questo obiettivo ai nostri figli ed ai nostri nipoti, i governi spingono il popolo a rimettere insieme i pezzi della famiglia disaggregata: di più, li costringono, con la minaccia di severe sanzioni, a considerare la famiglia come il nucleo del socialismo trionfante. E’ difficile misurare oggi quali saranno le conseguenze di un tale ritorno indietro.») Le donne, che ne fanno le spese, le misurano queste conseguenze. Sul piano della vita privata, le politiche hanno dunque numerose rivendicazioni da fare ma aspettano sempre uomini che vogliano pensare a loro (per loro?), legiferare in loro favore. Come le loro sorelle del 1789, esclamano: «Avete distrutto tutti i vecchi pregiudizi, ma avete lasciato sopravvivere il più antico e i più generale che esclude dai posti di comando, dalla dignità, dagli onori e soprattutto dal diritto di sedersi in mezzo a voi, la metà degli abitanti del reame.» [fine p. 15]
Adesso, all’interno di questa metà ce n’è una parte importante, quella separatista che:
– non volendo condividere in nulla il fallimento degli uomini, opera una rimessa in discussione della società nella sua totalità e raccomanda cambiamenti radicali (i modi sono sfumati, capillari, “rivoluzionari ” in una accezione del termine che non è quella del secondo gruppo). Qui non ci si occupa tanto di ciò che esiste (del resto giudicato alienante e letale per la donna), bensì del far esistere ciò che ancora non esiste. E’ una creazione hic et nunc che tiene conto solamente delle aspirazioni e dei bisogni della donna. Si inventa, ci si evolve su di un altro pianeta. Le italiane di questo gruppo sono particolarmente convinte e convincenti.
Ma impauriscono le donne a causa del loro separatismo (parola che a certe orecchie suona pericolosa quanto la parola onanismo in altri tempi). Ci si dimentica (o non si vede?) che l’uomo pratica il separatismo dall’alba dei tempi, rinchiudendosi in luoghi (camere di consiglio, parlamenti, banche, chiese), in rituali (Cavalleria), giochi (non li citeremo), professioni (riservate), ecc. Cosa sottolineata in modo ammirevole dal libro di Lionel Tiger, Men in groups.
Che le donne giudichino oggi indispensabile appropriarsi di questa dimensione a loro sconosciuta è perfettamente legittimo. A numerose riprese, nel corso della Storia, hanno intuito la necessità di pratiche comunitarie strettamente femminili. Ed è preoccupante pensare che nel 1848 esistevano già numerosi club femminili. Le Vesuviane ad esempio «non erano solamente le facenti parte di un club [fine p. 16] ma, non essendoci nessuno che provvedesse ai loro bisogni, si erano organizzate in comunità. Il regolamento era molto severo: tutti i beni erano condivisi, il vitto e l’alloggio assicurati ad ogni donna che riceveva inoltre dieci franchi al mese», ci dice Sheila Rowbotham. Nulla ci viene detto, invece, delle pratiche sessuali delle Vesuviane che, con più di un secolo di anticipo, avevano scoperto l’autonomia.
Questi club o circoli femminili, che già esercitavano “l’auto-educazione” (una specie di auto-coscienza ante litteram), chiaramente disturbavano molto gli uomini. Inizialmente ammessi in qualità di spettatori, furono ben presto cacciati, con Eugénie Niboyet che dichiarava: «Non intendiamo fare da giocattoli o essere uno spettacolo per nessuno. Da dietro i vostri urli di riprovazione fa capolino il dispotismo; sapete bene che noi non vogliamo farvi scendere, siete voi che avete paura di vederci salire.»
E’ così vero che l’uomo non concepisce la possibilità di avere vita senza uccidere, parola senza far tacere.
Ancora oggi, 1976, la libreria-teatro della Maddalena a Roma, luogo di incontro tra donne, subisce regolarmente attentati con bombe al plastico.
In queste condizioni, va da sé che la scrittura delle donne sia un must che non si può aggirare. Ma quale scrittura? Quale linguaggio? E’ nella poeta che troviamo la maggiore interrogazione del linguaggio. Che non bisogna però confondere con una messa in discussione. Soltanto le donne del terzo gruppo mostrano una diffidenza assoluta nei confronti delle parole. Il secondo gruppo infatti nutre tutt’al più l’ambizione di dare un [fine p. 17] femminile a parole che finora non contemplano che il maschile. In ognuna regna comunque un malessere (che una Jeanne Hyvrard, in Francia, ha saputo portare fino al punto di incandescenza).
Tutte vedono nel linguaggio il veicolo del fallocentrismo, tutte sanno di essere in trappola, prigioniere, colonizzate, ma lo stesso nessuna reagisce davanti a questa convenzione istituzionale. Nel peggiore dei casi la donna ci si adatta, nel migliore si augura un terremoto il cui epicentro sia il proprio corpo. Il linguaggio cessa di tradire per, finalmente, tradurre. Un adeguamento che si opera fra la realtà-corpo e la realtà-parola.
La donna inizia a poco a poco a sospettare – la lingua cinese, che è considerata femminile, supporta i suoi sospetti grazie all’infinita possibilità di combinazioni che offre, all’estrema semplicità della grammatica, alla complessità ridondante del suo vocabolario, alla grazia degli ideogrammi-immagine – che un linguaggio nato dalla nostra comprensione della realtà, di una realtà modellata da noi, non sarebbe per nulla aderente a quello che usiamo. Perché il linguaggio allora sarebbe prodotto da noi… mentre adesso ne siamo i prodotti.
Fourier l’aveva capito così bene che nel paese dell’armonia per prima cosa si augurava avvenisse una revisione completa delle parole.
E’ a questo rimaneggiamento del linguaggio che le donne si aggrappano, si aggrapperanno. Compito difficile in una lingua come quella italiana che, ritenuta facile e conosciuta da tutti, è in realtà estranea al resto del mondo quanto quella ouolof o bambara. Al di fuori dell’Italia nessuno applaude le donne che scrivono in italiano (e se per questo, in Italia chi lo fa?). E questo è ancora più deplorevole perché le latine – lo vedremo – non sono da meno [fine p. 18] delle anglosassoni in materia di invenzione, di coraggio, di originalità. Lo sappiamo che le italiane furono all’avanguardia del movimento femminista internazionale? L’Italia è l’unico paese al mondo che conta una tale varietà di gruppi femministi nelle più piccole località della penisola. Indubbiamente una sorta di legge fisica vuole che un movimento di liberazione sia più forte quanto più violento è stato l’asservimento. L’Italiana dimostra una determinazione, una volontà, che l’asservimento non ha cancellato ma solamente temprato. Conosce l’importanza del numero, della mobilitazione, dell’impegno. E in un paese in movimento, nel senso non metaforico del termine, è lei la più in movimento. Sta a lei ‘orientare’ questo movimento in un senso che – per l’insieme delle donne del bacino mediterraneo – possa diventare un esempio. [fine p. 19]
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NOTE ALLA PREFAZIONE [nell’originale, a piè di pagina]
[1] Leggere la recente antologia sui poeti americani di Serge Fauchereau per convincersene. A Sylvia Plath viene dedicata una sola pagina per lamentare il fatto che i suoi interessi, troppo circoscritti, si limitino alle ‘lune “…
[2] Vedove, divorziate o zitelle che siano.
[3] L’una non esclude l’altra.
http://www.leswiki.it/repository/testi/voix/1977causse-prefazione.doc