Liana [Borghi], 1983. “L’eterosessualità obbligatoria. Nel bosco di notte”, in: Il nostro mondo comune/Sotto sopra. Roma: Felina, pp. 23-27.
Firmato col solo nome proprio
L’ETEROSESSUALITA’ OBBLIGATORIA. NEL BOSCO DI NOTTE
Ma adesso ci manca il modo di tradurre in realtà sociale l’esperienza, il sapere e il valore di essere donne. Nei rapporti sociali siamo in difficoltà, come in un mondo dove il meglio di noi non ha corso. Oggi questa cosa ci pesa più che in passato quando eravamo incerte circa quello che poteva essere un nostro desiderio, una nostra volontà.
S/S, p. 1
Sono una donna che vive soprattutto con donne e che con donne ha rapporti di importanza primaria — intellettuale, affettiva, erotica. E poiché non posso separare da ciò il sapere e il valore della mia esistenza, mi riconosco una identità esistenziale e politica lesbica.
Anch’io ho grande difficoltà a tradurre me stessa nei rapporti sociali. Dev’essere perché nel mondo cosiddetto degli uomini non c’è spazio per questo corpo che vi parla — un corpo di donna che non si pone come uno soltanto ma come due almeno. Due corpi di donna che si esprimono le buone cose dell’amore e che nel comprendersi e comporsi tracciano figure femminili di cui si è perso il calco nelle leggende, e nelle sabbie della storia.
Leggendo le compagne del Gruppo 4, mi è sembrato a volte di intravedere orme e impronte simili alle mie; ma in nessun luogo, se non fra le righe e nel non detto, ho trovato traccia dei miei due corpi innamorati. Né ho trovato il mio corpo intero di donna, intero [p.23] con il suo doppio disagio di non appartenenza e il suo scempio [nota n1: dalla Toscana] agio d’amore.
Perché non c’è dubbio che nel sociale il mio disagio è almeno doppio: il maschile mi nega perché non c’è posto nella sua rappresentazione per me donna, e a me donna non è data la possibilità di “costellare autonomamente la mia identità” [nota n2: Grazie Lidia].
Ma anche le donne mi negano. Mi negano accesso al mio corpo e a quello delle altre donne tramite l’immaginario eterosessuale che prescrive come requisito di identità l’interazione con il maschile.
Così il mio agio d’amore ha corso solo tra le compagne lesbiche, con le quali condivido la proiezione di un immaginario erotico e politico che dà coerenza, coesione e dimensione al nostro mondo comune di donne che vogliono appartenere a se stesse.
Il mio disagio di fronte al discorso delle compagne del Gruppo 4 deriva dal fatto che il loro silenzio testuale su tutto quello che concerne la sessualità non è neutrale. Quel silenzio dà invece per scontato che esista un terreno d’intesa comune a chi scrive e a chi legge — l’essere donna. Essere donna nell’altrui sociale significa essere in relazione di eterosessualità con tutti gli esseri e non esseri umani.
Ma fintanto che da questa relazione di eterosessualità io prendo le distanze — nei mille modi della resistenza e del separatismo — mi è possibile tessere una rete di rapporti che mi sostiene nell’intenzionale diversità rispetto alla normalità; che è per me norma rispetto all’imposizione eterosessuale. Ma chi condona e perdona la norma eterosessuale, anche attraverso il silenzio, trasmette in codice l’ottica vincente dell’eterocrazia, l’ottica che impedisce a me di tradurre in realtà sociale l’esperienza, il sapere e il valore di essere donna lesbica.
Nelle tappe dello sviluppo della coscienza ci sono anche le pause di raccoglimento lungo la strada, sul ciglio erboso nascosto tra gli alberi: il luogo senza prospettiva. Ma solo perché sono invisibili non è lecito negare che esistono e siano esistiti altri luoghi. Se le compagne del Gruppo 4 non mi vedono, separata come sono dalle foglie e dai rami, dovrebbero ugualmente sapere che esisto, parte di quel continuum latente che è il mondo comune delle donne. E invece [p.24] negano anche, questa volta esplicitamente, che già esista un mondo comune delle donne. Che cos’è allora quella rete di resistenza e di solidarietà, “quella trama di rapporti e di riferimenti alle loro simili” di cui le donne continuano a costruire e ricostruire la storia e la presenza? In cui mi riconosco e che mi riconoscono? Mi sembra questo un non voler vedere imputabile all’ottica eterosessista. E di nuovo sento il bisogno di prenderne le distanze.
Un tempo si diceva, lo sapete, che la sessualità si sceglie: “si va a letto con chi ci pare. E’ inutile parlarne se siamo veramente liberate”. A pensarci bene, invece, la sessualità non la scegliamo. Siamo orientate in senso eterosessuale fin dalla nascita e condizionate ad un’esistenza eterosessuale. L’eterosessualità ci viene data come un assoluto biologico e quindi esistenziale. E poiché così ci è imposto di viverla, così io mi trovo a combatterla nel quotidiano, con vicissitudini varie e molteplici scacchi. L’imperativo eterosessuale è la mia casa degli specchi. E’ il mio ipercubo, il mio ovunque dove non è possibile vivere.
Non so bene fino a che punto l’assunzione di una identità lesbica mi abbia separato dalle altre donne, né fino a che punto vedere le cose attraverso il filtro di questa analisi politica abbia radicalizzato la mia separazione:
– vedere che esiste una istituzione politica che permette agli uomini di continuare ad opprimere e sfruttare le donne; che definisce la donna come un essere sessualmente accessibile al potere dell’uomo; che la donna stessa avalla, nutre e riproduce questo potere;
– sapere che questo potere ha ramificazioni a tutti i livelli sociali e costituisce la fonte principale di oppressione delle donne, fino al punto che le donne stesse ne introiettano i valori e se li attribuiscono [nota n3: da “Réflexions sur l’atélier des lesbiennes radicales” in “Amazones d’hier – Lesbiennes ‘haujourd’hui”. Vol. I, nn. 2-3 (dic. 1982, pag. 106)].
– vedere che la maggiore scissura fra le donne è dovuta alla fedeltà all’Idea Eterosessuale. L’Idea contempla una sola sessualità legata alla riproduzione della specie, ci condiziona ad accettarla [p.25] e poi nega che sia stata resa obbligatoria tramite un sistema meritocratico così antico da figurare nel nostro inconscio.
Fino a che punto cambia la nostra vita quando si vedono queste cose? Quando vediamo che anche il capitalismo, il razzismo, l’imperialismo (quei fenomeni da cui cerca distanza il nostro dover essere) passano tutti attraverso l’imperativo eterosessuale?
“il nostro potere viene dalla medesima fonte delle nostre ferite”
(sovvertendo Adrienne)
Alla separazione devo attribuire il mio più acuto disagio. Non è agevole essere emarginata dalla comunità perché sono fuori della norma, né è agevole vedere come la nostra diversità viene addirittura espropriata e ridotta a dissenso fertile di assenso eterosessuale, come avviene quando il lesbismo è considerato devianza.
Ma questa separazione è allo stesso tempo anche motivo di grande forza per me: se e quando esprime controllo da parte mia; se e quando è praticata come sottrazione dei servizi di appoggio (fisico, psicologico, emotivo) che la donna “deve” all’uomo; se e quando rappresenta un rifiuto del mio corpo e delle mie capacità [nota n4: Sulle forme di “separazione” femminile, v. Marilyn Frye, “Some Reflections on Separatism and Power”, Sinister Wisdom no. 6, Summer 1978, pp. 30-39]. Allora il mio disagio si configura come resistenza. E attraverso la consapevolezza della resistenza passa il mio accesso a quel continuum che è il mondo comune delle donne.
Non basta però riconoscerci parte della tradizione di resistenza che percorre la storia delle donne. E’ necessario rendersi conto di come anche questa tradizione è permeata di eterosessualità. Se da una parte esiste un sodalizio vincente fra donne a favore delle donne che accetta la dialettica con il potere maschile, c’è dall’altra una tradizione di devianza rispetto alla norma del femminile. Streghe e prostitute considerate strane, puttane, amorali, decadenti o pazze; zingare, pastorelle, operaie, riformatrici e scienziate, levatrici, guaritrici, vagabonde e schiave sono state le vittime di due culture: quella egemone degli uomini e quella subalterna delle donne. [p.26]
Ma non perché subalterna quest’ultima è stata meno oppressiva. Anzi, introiettata come normativa di rettitudine, coerenza e fedeltà, ci combatte con le armi crudelissime del nostro proprio condizionamento etico, con le parole della madre. Quanto c’è voluto a capire che concetti irrefutabili come l’amore per il marito, la solidarietà con i compagni, la dedizione agli interessi e l’onore della famiglia non sono mai messi in questione per la loro destinazione esclusivamente patriarcale, e sono anteposti a tutto in quanto fattori di coesione e di consenso eterosociale?
Anche questa cultura appartiene al nostro continuum. La conosco nella mia vita: forma le pareti del mio ipercubo, le cornici dei miei specchi, è il bordo scuro della mia coscienza. La recupero nel mio presente attraverso il ricordo degli innumerevoli atti di tutte noi, sempre — i gesti che sono scivolati via nell’insignificazione quotidiana senza lasciare degna memoria (la zia della nonna che mi legge il libro dei miti; la prozia che fa il tombolo; la nonna che alza gli occhiali; la nonna che sguscia i piselli; la mamma che nel laboratorio guarda la provetta contro luce; io che faccio il bagno a mia figlia). Conosco: ognuno di questi gesti si ricollega a una tradizione di emarginazione e di lotta. Se il nostro potere viene dalla medesima fonte delle nostre ferite, la radice storica della mia oppressione convalida la mia identità di donna lesbica. La resistenza delle donne prima di me e con me rafforza la mia resistenza.
Ma come vorrei una tradizione di donne vincenti senza dover fare ricorso alle Amazzoni e al matriarcato! Vorrei una tradizione di donne che si appartengono con la coscienza di appartenersi e che lavorano insieme, e insieme costruiscono un mondo fatto per le donne opponendosi a tutte le forme di controllo maschile sulle donne e sui bambini. Vorrei un chiaro continuum lesbico all’interno della storia del mondo comune delle donne. Vorrei finalmente vedere come quello che stiamo facendo insieme noi ora — questo rendere visibile ciò che è, questo nostro costruire una comunità che ci esprima — è stato fatto altrove da donne diverse. Vorrei conoscere i loro nomi.
Liana