1985, Liana Borghi – Una donna impari

Liana [Borghi], 1985. “Una donna impari”. Relazione presentata al convegno La ricerca lesbica: realtà, etica, politica dei rapporti tra donne, 1-3 novembre 1985, Roma; in: Gruppo del Giovedì [Armida, Cristina, Delia, Giovanna, Pia, Simonetta] (a cura di) Atti del convegno: La ricerca lesbica: realtà, etica, politica dei rapporti tra donne, 1-3 novembre 1985, Roma, s. e.: Roma, 1986, pp. 145-149.

Qui come testo e anche in formato PDF. Altri brevi interventi di Liana Borghi alle pp. 139 (annuncia l’esistenza del gruppo del mercoledì e delle cene del 15 di ogni mese) e 172 (sull’insegnamento di Joanna Russ relativo al sadomasochismo, che qualsiasi gruppo di discussione sia organizzato da donne che sanno quello che dicono).


LIANA

Una donna impari.

Comincio col chiarire che questo mio discorso è in parte un dialogo con Franca di Bologna e con le altre donne che hanno insistito su alcuni punti. Per spiegare quello che voglio dire riassumo brevemente quello che ho capito del loro discorso. Ho sentito parlare di darci valore, di vivere con agio – da signore -, di costruire un linguaggio comune: tutte cose che già conosco in parte perché le ho lette, e in parte perché sono entrate, spesso polemicamente, a circolare fra di noi dualmente o nei [p. 146] gruppi. Ho anche sentito che per fare queste cose non solo bisogna accettare le differenze fra di noi, ma anche riconoscere le disparità, e affidarci a chi dimostra di avere/essere di più. Mi sembra che questo più sia stato anche identificato con la figura della lesbica che meglio riesce a fare emergere nel suo discorso un corpo lesbico (Sandra, mi scuso se riduco a formula la sua elaborazione): chi, cioè, ha fatto un percorso di autocoscienza che le permette di contestare, rileggere, decostruire la società patriarcale e di proporre modelli diversi secondo modalità lesbiche.

Il modello privilegiato in questo discorso, mi sembra, è quello incentrato su un materno che io chiamerei “buono”. Cioè non un modello di madre “cattiva” che si fa portatrice della cultura eterosessuale basata sul potere, la violenza, le sopraffazioni; ma la madre “buona”, la nutrice che più sa, più dà, più vede (il che non significa che non si sappia negare: tutte le madri si sanno negare, parlo per esperienze personale); e che sa, dà, fa in modo diverso, conoscendo e ri-conoscendo attraverso il proprio corpo sessuato al femminile; e che si riconosce come parte di un continuum, una tradizione ininterrotta di donne che in questo senso hanno operato attraverso i secoli. Questa figura forte di donna, mi sembra di capire, è dis-pari in quanto, in certe situazioni, è in grado di offrire un’immagine (un modello) di rottura rispetto a schemi che abbiamo introiettati. Nella dinamica dei gruppi e della comunità allargata, questa donna facilita la circolazione di una visione diversa, più congrua, più autentica, e in un certo senso normativa, che può servire a chi vede meno o meno bene per andare oltre il proprio punto di arrivo attuale. La sua presenza costituisce dunque un guadagno per chi ha meno – perché questa donna usa il proprio “potere” (il proprio “potenziale”) a vantaggio suo e delle altre.

Fin qui la cosa mi sembra chiara, ma non è che non mi crei problemi. Ho sempre visto le differenze fra me e le compagne a cui sono e sono stata più vicina come differenze e non come disparità. Le disparità le ho sempre riferite al sociale, e non [ne?] ho tenuto debito conto nelle mie attività politiche. All’opposizione binaria di più e meno, che mi costringe a una serie di contrapposizioni dialettiche con un ordinamento socio-politico fondato sul [p. 147] possesso, ho cercato di sostituire, nel rapporto con le compagne, un’ottica di diversificazione e di valutazione delle qualità più che della quantità. Il valore per me non è dato dal più o dal meno, ma dal come una persona sa viversi la propria vita, nelle proprie competenze più o meno specifiche, dal come si muove, come si sente, come si pone, come cerca di capire. A me non interesse molto avere la madre come modello simbolico, forse perché nella mia infanzia ho avuto molte madri e non una sola. E tengo a precisare, a scanso di equivoci, che ho amato moltissimo mia madre, ma non per questo posso negare l’amore che ho portato alle altre donne che mi hanno cresciuta.

Per un senso di onestà rispetto alle mie memoria, dunque, se modello (e solo parziale) devo scegliere, scelgo la nutrice: che si riconosce una funzione molto limitata nel tempo e nelle finalità, una funzione transitoria che passa attraverso il corpo per ragioni di affidamento (madri-nutrici-figlie), quasi la nutrice fosse un agente mediante, un tramite, un anello di congiunzione nel processo di crescita – una crescita che va favorite e assecondata ma non controllata. Se devo proprio riconoscermi un ruolo, dunque, (e mi sembra comunque una forzatura connessa con il potere che non mi interessa al di fuori del mio lavoro) mi vedo come nutrice e/o come figlia di latte, in un rapporto transitorio e non coercitivo. Tornando alle disparità, è forse perché io non mi riconosco un io forte se non nella volontà di cambiare in modo da acquistare un io forte, e anche perché non riconosco il mio discorso come un discorso duro, già cristallizzato in modello, forse per questo io non mi ritrovo nel discorso sulle disparità.

Non mi sento dis-pari nel senso di essere in vantaggio oppure di costituire un guadagno in assoluto. Mi sento, a dire il vero, impari, ma non rispetto alle altre donne quanto rispetto al mio percorso: una persona che fa un’enorme fatica non solo a conciliare il suo dover-essere con l’immagine che ha di sé, ma una donna che quotidianamente si rompe per l’incapacità di avvicinare il suo poter-essere anche ai più piccoli gesti, che sono il segno della sua presenza nel mondo. Aggiungo che questo è volutamente un discorso sulla mia fragilità; potrei parlare di cose positive, perché anche per me, come per Raffaella, in quella grande fessura fra bisogni e etica sta il luogo del mio piacere, ma preferisco parlare invece di queste altre cose perché è più difficile farlo positivamente.

Essere lesbica per me ha significato [p. 148] finora rimettere in questione persino il rapporto di percezione che mi lega alle cose; non solo il rapporto con le altre persone. Mi sento impari al mio percorso. Questo mi spinge a cercare dappertutto e in ogni donna indizi e strategie. Quando li trovo (continuamente, se riesco a saper vedere) sento una grande, egoistica soddisfazione per l’aiuto che ne ricavo nel saper vivere. Nel vantaggio altrui sta il mio guadagno, sempre purché quel vantaggio mi serva. Non mi è facile affidarmi, altro che per cose molto specifiche, o per cose che io non so, non voglio, non posso fare. In questi casi, certo, mi affido, come ho sempre fatto. E non mi gratifica che ci si affidi a me senza reale necessità. L’eccesso di responsabilità è un peso che porto con mala grazia.

Il discorso sulle disparità non è nuovo per me né per nessuna. Fa parte della struttura del pensiero patriarcale; chi può esserne immune? Ma è una delle tentazioni che mi censuro non per ideologia ma per necessità mia. Anch’io ho un “io imperiale” che non riesco a tenere a bada, che vuole tutto, subito, a modo mio. Però, la mia etica lesbica fondata sul riconoscimento del valore delle differenze non mi permette di dargli altro che uno spazio illimitato alla volizione. Il mio io imperiale, con la sua volontà di potere, deve servirmi a crescere in sintonia con la continua re-visione del mio rapporto con l’esterno (sì, riconoscete pure Adrienne Rich qui: c’è). Deve servirmi a volere questa re-visione, perché soltanto vedendo diversamente io cambio e cresco. Il mio agio, il mio benessere dipendono dal successo di questa operazione, dall’affermazione di me lungo il mio percorso. Ma non dipendono dalla sopraffazione e dalla distorsione del discorso altrui. Solo nel rispetto del diverso linguaggio delle altre sta il mio guadagno. Per rispetto, insisto, non intendo l’accettazione di uno stato di alterità, ma l’analisi del moto di presenza (e coscienza) di chi mi è vicina e compagna di percorso.

Ma non c’è solo questo. Io vedo una grossa differenza fra Morale e Etica. La morale appartiene alla sfera del comportamento sociale prescritto; l’etica alla sfera del divenire secondo coscienza e consapevolezza. Mi sembra che il riconoscimento delle disparità appartenga alla sfera della morale; il riconoscimento delle differenze alla sfera dell’etica. Non ho bisogno di [p. 149] dire che in quanto lesbica la mia etica non mi permette di amare le donne e di essere loro amica secondo le modalità dell’avere (del di più); devo scegliere le modalità dell’essere (del meglio). Chiudo con un’ultima frase retorica: cerco molto di riuscire a perdonarmi quando non riesco a mettere in pratica le mie convinzioni. Spero anche voi riuscirete a perdonarmi se resterò impigliata in quella grande fessura che nella mia vita separa i bisogni dall’etica.


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