Liana Borghi, 2004. “Ereditiere”. Towanda! Rivista lesbica, anno IX, n. 14, (giugno-agosto 2004), pp. 28-30. Testo successivamente presentato a Raccontar(si) n. 4. Laboratorio di mediazione interculturale, tema “Genere, diversità, culture”. Prato, Villa Fiorelli, 28 agosto-4 settembre 2004.
Articolo n. 8 della rubrica “In teoria”, spazio condiviso con Simonetta Spinelli. Sul sito di Raccontarsi è preceduto da una presentazione e seguito da un inedito di Donna Haraway che facciamo seguire al testo pubblicato su Towanda!
In Teoria 8.
Ereditiere
di Liana Borghi
Stone butch, drag butch, baby butch
vi tengo strette dentro di me
voci di ammonimento nei tempi che cambiano
la vergogna è la prima a tradire. (77)
Le donne butch-femme hanno reso terribilmente visibili le lesbiche in un periodo storico in cui non c’era un Movimento a proteggerle. […] La voce delle donne degli anni Cinquanta è tra noi un silenzio che continuerà finché alcune non sono pronte a sentirlo. Se ascoltiamo, forse inizieremo a capire come un popolo di lesbiche sia sopravvissuto per creare la nostra eredità di erotismo. (108)
– Joan Nestle, A Restricted Country (New York: Firebrand Books, 1987)
Nell’alchimia della modernità, la carne si fa parola. (13)
– Jay Prosser, Second Skin. The Body Narratives of Transexuality (New York: Columbia UP, 1998)
Quella volta che Adrienne Rich parlò a Utrecht, credo nell’83, sulla politica del posizionamento, destinata a segnare un punto di non ritorno per il postmoderno lesbico, anche Joan Nestle, invitata dalle organizzatrici, leggeva dai suoi saggi in un teatro. Ricordo la dissonanza tra il pubblico in uniforme lesbofemminista e Joan vestita con una sottoveste di raso, mi sembra celeste, con le calze nere e i tacchi alti, i riccioli neri, le unghie laccate, tutta truccata – una vera femme.
Joan resisteva con il suo solito coraggio alla distruzione della tradizione butch e femme da parte del lesbofemminismo. Era una battaglia già persa. Molte femme, come Teresa nel romanzo Stonebutch Blues di Leslie Feinberg, si erano convertite al femminismo. “Il femminismo è la teoria, il lesbismo è la pratica”, scriveva Ti Grace Atkinson dal privilegio della Columbia University, a pochi isolati di distanza dall’appartamento di Joan e del/la sua partner Deb che ne avevano fatto il primo archivio lesbico, subito meta di pellegrinaggi da ogni dove. Ma la loro era una battaglia persa, perché negli Stati Uniti l’avvento del femminismo affermatosi già prima di Stonewall aveva già fatto scomparire i luoghi classici di aggregazione della cultura lesbica dei decenni precedenti – i bar rigorosamente divisi tra l’ipermaschile e l’iperfemminile di adozione, con le ambigue e infide kiki di orientamento incerto, con le sue zuffe e risse, con le immancabili e cruente retate della polizia – l’unica casa e famiglia che molte frequentatrici, come Jess Goldberg del romanzo, conoscessero. Ricordo The Saints a Boston, The Duchess a New York, mitici sostituti di locali ancora più mitici ricordati dalla nuova clientela come luoghi pericolosi.
Capisco bene, in retrospettiva, perché Jess Goldberg, protagonista del romanzo autobiografico di Feinberg, mess* in (ulteriore) crisi di identità dalla sua compagna Teresa che non sta più al gioco delle parti del loro ghetto (“non sei un uomo finto e nemmeno una vera butch, sei una donna”) abbia deciso di andare oltre sulla strada del passing, cominciare a prendere gli ormoni, farsi operare il seno. Stonebutch Blues si muove sulle tracce di un dibattito tra comunità lesbiche, talvolta cruento, sulla (presunta) naturalità del femminile, dove essere nata donna costituisce l’invalicabile frontiera dell’appartenenza di genere. Mentre comprendo l’inquietudine, e persino la paura, che può suscitare un* trans rispetto alla convinzione di stampo irigariano del radicamento di una donna nella propria differenza sessuale, resto convinta dell’illusione della verità che comporta l’inscrizione (e descrizione) del sesso biologico, e considero il genere una tecnologia rispetto alla quale l’autodeterminazione trans rappresenta un cosciente gesto di riappropriazione autoriale.
Ho letto da qualche parte che il primo spettacolo di dragking (donne in performance maschile) è stato a New York nel 1995. Capire il rapporto tra il travestitismo di Marlene Diedrich e quello della performer lesbica Maxine Feldman che intratteneva le folle ai rally femministi fine anni Settanta – ambedue in frac e cilindro — di per sé significa ripercorrere gran parte della storia lesbica del Novecento, ma il tassello mancante che segna la svolta verso le identità mutanti del nostro postmoderno sta nell’incrocio tra i discorsi della politica, dell’identità e della medicina, sodalizio già evidente nel secolo precedente che assume nuove figurazioni e nuovi corpi attraverso l’incrocio della chirurgia estetica, l’endocrinologia, e il concetto di genere nel secondo dopoguerra.
Per molte di noi capire il passaggio non è stato facile, e tanto meno accettarlo. La lettura del saggio di Joan Nestle [p. 29] sulla bulla e la femmina, tradotto in italiano nel “DWF nero”, non aveva chiarito quello che sembra ovvio nel dopo-Preciado, cioè che la butch funziona da paradosso irrisolto, da punto cieco dell’eterosessualità di cui imita e deforma il maschile; che rappresenta una pratica contra-sessuale di risignificazione del corpo perché rivela il sistema sesso-genere come un sistema di scrittura, una tecnologia di inscrizione dei corpi e delle istituzioni sui corpi (130, 32).
Quella volta, inizio anni novanta, che Della Grace dava spettacolo a Prato, facendosi mettere in pubblico harness e dildo dalla sua amica, ricordo che avevamo accolto con scettica ironia le connotazioni erotiche, ma non avevamo colto l’importanza decostruttiva del dragking show. Judith Butler, con le sue teorie su performance e mimica, ancora non aveva toccato le rive dell’Arno, nonostante alcune di noi già l’avessero incrociata. Molto più accattivante ci apparve il discorso di Helena Velena (ma per me prima venivano Donna Haraway, Sandy Stone e un’altra transgender lesbica, Kate Bornstein), che interfacciava sessualità, identità e virtualità nel suo libro su nuove tecnologie e le politiche di liberazione anche sessuale. Comunque sia, imparammo che il cyborg abbatte tre confini cruciali in un mondo postgender: umano/animale; organismo/macchina; fisico/non fisico, e fu una lezione cruciale anche per noi. Sì, certo, eravamo tutt* cyborg (Haraway), tutti transessuali (Halberstam).
Ora è possibile guardare agli anni novanta come a un carnevale queer di ibridità senza fine. Helena, Sandy e Kate avevano per alcune il difetto non trascurabile di essere nat* uomini, ma a Milano, con le testimonianze al convegno del 2000 sulla sessualità (dove io parlai in drag donna-donna), il passaggio, della specie donna-uomo, diventò per molte di noi un transito reale, da mettere nel computo delle cose che stavano cambiando nelle nostre comunità e probabilmente nella nostra vita. E poi arrivò Beatriz Preciado, con il suo contratto contra-sessuale, i dildo sui tacchi a spillo, gli/le intersex, e i dragking. Non era più possibile dubitare: il genderqueer era di moda.
C’era naturalmente chi ricordava che “passare” sul web era più facile per gli uomini, oppure che usare un’identità maschile dava vantaggi immediati, e chi avvertiva che era tanto più fattibile allentare le maglie del maschile e del femminile che sovvertire il sistema dei generi. Tra quell* che non si lasciavano trasportare dall’euforia del genderbender, del camp e del drag, c’erano gli/le stess* trans – chi, cioè, scriveva una transizione indelebile sul proprio corpo; e tra quest* c’era chi sottolineava la costruzione, e chi invece l’approssimazione a un errore avvenuto in natura ancor prima della nascita, poi finalmente corretto. Ma anche questi “chi” manipolati dalle nuove tecnologie del sesso erano cyborg, e non solo trans. Vero, alcune di noi erano più cyborg e più trans di altre già prima della cesura delle due torri, e non per tutte era un gioco abitare corpi instabili.
Quel gioco poi non ha retto, a ridosso delle immagini september eleven, icone per la guerra globale, che hanno smorzato l’euforia della rete, delle identità mutanti, del cybersex e quant’altro ci esilarava un tempo – il tempo prima della realizzazione che la sessualità alternativa era un altro gadget, il lesbismo un prodotto di consumo, la libera espressione delle identità sessuali un luogo comune di incontro da barattare con la perdita di altre libertà, i corpi in transito un movimento che si bloccava davanti alle cecene imbottite di esplosivo, le identità nomadiche una metafora per la realtà delle carrette del mare, delle bidonville che non fanno più notizia, dei traffici di organi, dei corpi nei container, delle maquilladoras scomparse nella sabbia, dei sans papier e tutte le notizie scritte con inchiostro simpatico sull’ultima pagina dei giornali. Anche il fertile anonimato del cybersex e degli eroi hacker sempre più si incupiva nel senza volto della violenza incappucciata che ci dilaga intorno e ci invade, duttile, insidiosa, mutante come i virus di rete. Con ciò non voglio sminuire o cancellare la conquista e la pratica di flessibilità identitarie dirette verso forme di liberazione sociale, ma piuttosto sottolineare che non bastano a esaurire il nostro debito di responsabilità nei confronti del resto del [p. 30] mondo. Comprendere meglio le tecnologie di inscrizione e soggiogazione dei corpi, dei nostri corpi, deve avere per noi una ricaduta politica forte con plausibili narrative di resistenza.
Forse per questo Stonebutch Blues, il romanzo autobiografico di Leslie Feinberg, leader politica della cultura americana trans e non-op trans, romanzo cult del movimento transessuale, torna ad essere una lettura necessaria oggi, a restituire materialità e storia alla poetica del transgender. I brevi capitoli del libro — scansione episodica di passaggi cruciali, pause e mutazioni – si compongono in reportage tristi di frontiere identitarie faticosamente e pericolosamente negoziate. Mestizajes complicati se non inestricabili, storie di ripudio, discriminazione, alienazione, ingiustizia, prostituzione, sfruttamento e povertà giungono accoppiati a resoconti crudeli di ricette sottobanco, di inconvenienti causati dall’assunzione di ormoni, dall’arroganza rapace dei medici, i tormenti psicologici, le operazioni e il prestato o mancato supporto di amici, amanti, parenti. Ma anche storie tenere di affetto e lealtà, di femmes tenere che “toccano” con le unghie scarlatte emozioni pietrificate dal processo di iniziazione eroica della butch — per la quale la pietra si fa metafora sintomatica della desensitizzazione necessaria a sopravvivere al disprezzo, a stupri e torture.
L’incipit narrativo del romanzo sono il sospetto della propria diversità e la vergogna che nutre Jess bambina per il suo corpo considerato inadeguato dagli adulti, divenuto ben presto un corpo a cui gli abiti del padre (indossati nella scena dello specchio dove ha luogo la prima auto-agnizione) forniscono una promessa di metamorfosi. La costruzione della lesbica mascolina segue il modello narrativo dell’identificazione fantastica: Jess denudato e stuprato nel campo; Jess trafitto dall’apparizione di Rocco nel bar – la grande butch la cui eroica presenza zittisce il branco ed erotizza le femmine; Jess catturato e torturato dai poliziotti; Jess che si sente sempre dentro e fuori; Jess che indossa fasce pettorali e dildo; che esplicita il rimedio per l’angoscia della sua alienazione prendendo in mano la siringa di ormoni; che “passa” da maschio persino a letto con la cameriera (ma solo per una volta, conscio di non poter sostenere l’illusione del dildo/calzino); Jess che di nuovo si piace quando il suo corpo cambia, ma decide di rinunciare alla copertura di un velo sessuato. Preferisce rimanere com’è, un lui/lei posizionato in quel terzo spazio “tra”, mostrando apertamente la cerniera tra identità per facilitare la compresenza di storie e mondi, di libertà.
Il modello narrativo di Stone Butch Blues non è coesivamente teleologico, come sono di solito le auto/biografie transessuali, ma poggia su una struttura discorsiva conforme all’apertura della sperimentazione somatica, che si riconosce episodica, afasica e performativa. Quello che trovo particolarmente consono al nostro presente neoliberista, in questo libro (che ci dice insistentemente la precarietà del lavoro, le lotte sindacali, la solidarietà tra etnie, la fatica del vivere quotidiano) è il suo evidente radicamento nel romanzo “proletario” americano (non a caso Feinberg milita da anni nel partito del Workers’ World) mentre si affida alla tradizione sentimentale del romanzo popolare per suscitare in chi legge quel rapporto empatico che meglio dell’intellettualità suscita affetti e aderenze comunicative. Modello eccentrico di performatività emozionale, scrittura corporea di un allargamento di prospettiva identitaria e sessuale, Stone Butch Blues ci offre di sperimentare come si vive nella dimensione metamorfica di un lui/lei che sta, incontrovertibile, anche dentro di noi, come una nostalgia latente nutrita dalla nostra incompletezza immaginaria.
Ma questo romanzo sollecita anche una riflessione su come vengono materializzati i corpi; come vengono risignificate le nostre esperienze e le nostre differenze al punto che un corpo diventa abietto se contraddice il dualismo sessuale; come possiamo separare la scelta dell’oggetto sessuale dall’incrocio di genere, e infine su come possiamo imparare a conoscere meglio le possibilità del corpo eretico che la tradizione lesbica ci ha as/segnato.
http://www.leswiki.it/repository/testi/2004borghi-ereditiere.pdf
Presentazione
Sono una delle socie fondatrici della Società Italiana delle Letterate, e ricercatrice di Letteratura Nord-Americana all’Università di Firenze dove però insegno letteratura (di lingua) inglese. La mia pratica interculturale non è nata solo da questa contaminazione accademica, ma piuttosto, direi, da un femminismo (come esperienza vissuta, politica, teoria e metodo di indagine) che mi richiede un approccio multiculturale, neostoricista e comparativo ai testi, e investe nelle complessità identitarie (etniche, razziali, sessuali, nazionali) e nei processi di decolonizzazione, contestazione, resistenza. Mi interessano molto gli oggetti teorici che costruiamo in base alla molteplicità delle differenze, alla diversità. Di solito mi occupo di scritti delle donne, da fine Settecento al presente. Ho curato S/Oggetti Immaginari. Letterature comparate al femminile (QuattroVenti 1996) con Rita Svandrlik, e un secondo volume intitolato Passaggi: Letterature comparate al femminile (QuattroVenti 2002); con Clotilde Barbarulli Visioni in/sostenibili. Genere e intercultura (CUEC 2003) e Figure della complessità. Genere e intercultura (CUEC 2004) – due raccolte degli interventi di varie partecipanti al nostro Laboratorio.
Il mio intervento sulla “diversità” si ricollega a quelli di Clare Hemmings, Mary Nicotra e Roberta Rebori. Quest’anno, oltre a insegnare due moduli sulla letteratura e l’impero, ho diretto l’organizzazione del Polispazio Queer a Firenze, in occasione del quale è venuta in Italia la scrittrice americana transgender Leslie Feinberg della quale era stato tradotto per l’occasione il suo romanzo autobiografico, Stonebutch Blues (Il dito e la luna 2004). Come potete immaginare, in quell’occasione ci siamo occupate/i molto di genere, diversità, transiti identitari, omofobia, resistenza, e ci siamo ripetutamente chieste/i cosa implicasse questo desiderio di diventare uomo da parte di alcune donne – tutte cose di cui credo discuteremo insieme e di cui troverete traccia nel mio articolo che allego qui di seguito, intitolato “Ereditiere”. Ma, come sapete, le esperienze forti (come è stato il Polispazio per me) spesso esauriscono le vene aurifere di un particolare spazio immaginario.
In queste ultime settimane villa Fiorelli, passata e presente, ha poco per volta riempito il mio orizzonte di pensiero. Mentre curavo la nuova raccolta di testi sulle figure della complessità e organizzavo Raccontar/si4 in quotidiano scambio con Clotilde Barbarulli, mi chiedevo le solite cose: perché abbiamo pensato questa scuola, come la volevamo e cosa sta diventando, come deve cambiare, quali rapporti intessiamo tra noi, dove stanno le mancanze e i desideri, quali sono gli errori, qual è il nostro grado di obsolescenza, chi siamo in questa congiuntura storica, cosa significa sentire anche la responsabilità di altre vite e altri mondi, come non essere cieche ai loro e nostri problemi, che peso può avere il nostro raccontarsi in un mondo minato da guerre e violenza.
Stranamente ma forse prevedibilmente, ho trovato che un romanzo autobiografico appena tradotto in italiano, Leggere Lolita a Teheran (Adelfi 2004), della scrittrice Azar Nafisi, iraniana emigrata in USA, parla nella direzione di queste domande. Prima perché racconta, con digressioni e meandri associativi, la storia dell’intimità condivisa da un gruppo di donne che si riuniscono il giovedì clandestinamente, dal 1995 a 1997, a casa di Nafisi a Teheran — lei autrice/protagonista, professoressa di letteratura americana epurata dall’università, loro/personaggi/protagoniste, sette brave studentesse appassionate di libri — per interrogare il rapporto che lega letteratura e mondo (non solo l’esperienza quotidiana di brutalità e umiliazioni sotto il regime degli ayatollah, ma anche quello “strappo nel nostro mondo che conduce a un altro mondo di tenerezza, luce, bellezza”), estetica e ideologia (la ricerca del bello, della libertà contro la fabbrica del consenso, l’illegalità dei sogni, il potere dei censori). Poi perché l’imperio del regime islamico sulla separazione tra i due sessi, su una incontrovertibile diversità riconducibile all’IO/altra, è tanto così distante dal concetto di diversità che praticano i soggetti dell’intercultura che conosciamo. Il nostro Soggetto (contaminato, lo chiama Elena Pulcini) è costituito da stratificazioni di differenze, frutto di infinite negoziazioni (coalescenze, coagulazioni, fusioni, precipitati, li chiama Elena Bougleux) che significano una griglia differenziale di eterogeneità, una ricca disomogenea complessità, e la disponibilità a spostamenti posizionali e paradigmatici. Questi nostri valori postmoderni sono animati dall’etica della responsabilità e hanno come correlativo oggettivo l’immigrazione, l’esilio, le diaspore, ibridazioni e diversità di cui studiamo testi e contesti. Sì, ma è anche vero che questa apertura identitaria, spesso più ideologica che praticata, frequentemente si raggiunge, se si raggiunge, attraverso percorsi difficili e accidentati. Così, almeno, ci dimostra Stonebutch Blues.
Mi interrompo. Continuerò il discorso nella nostra giornata sulla “Diversità manifesta”, collegando il romanzo autobiografico di Leslie Feinberg (che spero qualcuna di voi abbia letto) ad alcuni degli interrogativi sollevati dal romanzo autobiografico di Azar Nafisi.
Oltre a raccomandare la lettura di questi due romanzi (e del mio articolo), vi lascio un altro piccolo contributo sul tema della DIVERSITA’: un testo relativamente inedito di Donna Haraway sui polli, “Chicken for Shock and Awe: War on Words” (Pollo per shock e meraviglia: guerra alle parole), che si mi sembra collegabile al non-umano di Monica Farnetti e al saggio compagno di Donna Haraway sui cani, ora tradotto in italiano, consigliato da Giovanna Covi.
Cosa c’entra il pollo con la diversità? Haraway spiega che “il pollo sa molte cose sulla Biodiversità e la Diversità Culturale, sia che pensiamo alla stupefacente varietà di pollame in commercio domestico con gli umani per 5000 anni, sia che consideriamo ‘le specie migliorate’ che accompagnano le formazioni della classe capitalista dal novecento ad oggi”. Forse non vi hanno informate che, a fine millennio, nel 2000, sono stati uccisi solo negli USA 10 miliardi di polli, nonostante questi animali abbiano una vita sociale bene organizzata che non si basa su ottuse strategie di sottomissione e dominio, come invece ci hanno raccontato gli scienziati per decenni. Conoscere meglio la loro storia e il loro rapporto con gli umani, sostiene Haraway, può aiutare a pensare una “politica vivibile” per loro e noi. E osservare un uovo può rinnovare in noi quella sensazione di meraviglia verso un mondo dove le galline conoscono molto meglio le alleanze necessarie a sopravvivere e prosperare in associazioni di specie, culture e ordinamenti multipli, di quanto le conoscano i Bush della Florida e di Washington.
Da leggere:
Leslie Feinberg, Stonebutch Blues, Il dito e la luna, Milano 2004. Su Feinberg, vedi “Ereditiere”, pubblicato sulla rivista Towanda! (giugno 2004).
Azar Nafisi, Leggere Lolita a Teheran, Adelfi, Milano 2004. Su Nafisi vedi:
http://dialogueproject.sais-jhu.edu/aboutDP.php
http://www.radioradicale.it/primopiano.php?mostra=920
http://www.provincia.venezia.it/medea/gab/nafisi/nafisi_1.htm
http://www.repubblica.it/2004/f/sezioni/spettacoli_e_cultura/libri36/lolita/lolita.html
Daniele Giglioli, “Allah salvi Nabokov”, il manifesto, 19-6-2004, Alias-La talpa libri, p. 17
Donna J. Haraway, “Chicken for Shock and Awe: War on Words”. Scritto da lei inviato via e-mail.
Chicken for Shock and Awe: War on Words
by Donna Haraway
Part I. Chicken
Chicken is no coward. Indeed, this warrior bird has plied his trade as a fighting cock around the world since the earliest days such fowl consented to work for people, somewhere in south and southeast Asia.
Anxious if brave, Chicken Little has long worried that the sky is falling. He has a good vantage point from which to assess this matter; for Chicken, right along with his over-reaching companion, Homo sapiens, has been witness and participant in all the big events of Civilization. Chicken labored on the Egyptian pyramids, when barley-pinching Pharaohs got the world’s first mass egg industry going to feed the avians’ co-conscripted human workers. Much later—a bit after the Egyptians replaced their barley exchange system with proper coins, thus acting like the progressive capitalists their exchange partners always seem to want in that part of the world—Julius Caesar brought the Pax Romana, along with the “ancient English” chicken breed, the Dorking, to Britain. Chicken Little knows all about the shock and awe of History, and he is a master at tracking the routes of Globalizations, old and new. Technoscience is no stranger either. Add to that, Chicken knows a lot about Biodiversity and Cultural Diversity, whether one thinks about the startling variety of chicken-kind for the 5000 years of their domestic arrangements with humanity, or considers the “improved breeds” accompanying capitalist class formations from the nineteenth century to now. No county fair is complete without its gorgeous “purebred” chickens, who know a lot about the history of eugenics. It is hard to sort out shock from awe in chicken-land. Whether the firmament takes a calamitous tumble or not, Chicken holds up a good half of the sky.
In 2004 C.E., Chicken Little donned his spurs once more and enter the war on words thrust on him by Current Events. Ever a gender bender, Chicken joined the GLBT Brigade and outdid himself as a postcolonial, transnational, pissed-off spent hen and mad feminist. Chicken admitted that s/he was inspired by the all (human) girl underground fight clubs that s/he found out about on www.extremechickfights.com. Ignoring the sexism of “chick”—extreme or not—and the porn industry and pedophilic scene that vilifies the name of chicken, our Bird raptured those fighting girls right out of History and into his trannie sf world, fit to confront the Eagles of War and the Captains of Industry. S/he felt this rapturous power because s/he recalled not just the exploits of Cousin Phoenix, but also the years when s/he was a figure of Jesus Resurrected, promising the faithful that they would rise from the ashes of History’s barbecues.
Barbecue. An unkind reminder of where Chicken Little had best concentrate her attention. For, at the end of a millennium, in 2000, 10 billion chickens were slaughtered in the U.S. alone. Worldwide, 5 billion hens—75% in cramped, multi-occupancy quarters called battery cages—were laying eggs, with Chinese flocks leading the way, followed by those in the United States and Europe. Thai chicken exports topped $1.5 billion in value in an industry supplying Japanese and EU markets and employing hundreds of thousands of Thai citizens. World chicken production was 65.6 million tons, and the whole operation was growing at 4% per year. Captains of Industry, indeed. Chicken could conclude that her/his major vocation seems to be breakfast and dinner while the world burns.
Contrary to the views of her pesky friends in the transnational animal rights movement, our Opportunistic Bird is not against surrendering a pound of flesh in exchange for pecking rights in the naturalcultural contractual arrangements that domesticated both bipedal hominids and winged gallinaceous avians. But there’s something seriously foul in current versions of multi-species global contract theory.
One way to tell the trouble—one detail among myriads—is that a 3-year study in Tulsa, Oklahoma—a center of factory chicken production—showed that half the water supply was dangerously polluted by poultry waste. Go ahead, microwave sponges in your kitchens as often as the clean food cops advise; inventive bacteria will outwit you with their fowl alliances.
Well, one more detail. Manipulated genetically since the 1950s to rapidly grow mega breasts, chickens given a choice choose food laced with pain killers. “Unsustainable growth rates” are supposed to be about dot-com fantasies and inflationary stock markets. In Chicken’s world, however, that term designates the daily immolation of forced maturation and disproportionate tissue development that produces tasty (enough) young birds unable to walk, flap their wings, or even stand up. Muscles linked in evolutionary history and religious symbolism to flight, sexual display, and transcendence instead pump iron for transnational growth industries. Not satisfied, some agribusiness scientists look to post genomics research for even more buffed white meat.
The first farm animals to be permanently confined indoors and made to labor in automated systems based on Technoscience’s finest genetic technologies, feed-conversion efficiency research, and miracle drugs (not pain killers, but antibiotics and hormones), Chicken might be excused for being unimpressed by the McDonald Corporation’s grudging agreement in 2000 to require that its suppliers give 50% more space per bird destined to be Chicken McNuggets and Eggs McMuffin. Still, McDonald’s was the first corporation in the world to admit that pain and suffering are concepts familiar to under-rated bird brains. Chicken’s ingratitude is no wonder, when no humane slaughter law in the U.S. or Canada to this day applies to chickens.
In 1999 the E.U. did manage to ban battery cages—beginning in 2012. That should allow for a smooth transition. Perhaps more sensitized to ever-ready holocaust analogies, the Germans will make those cages illegal in 2007. In the market-besotted U.S., Chicken’s hope seems to be in designer eggs for the omega-3 fatty acid-conscious and free-range certified organic chickens for the conscience-stricken and pure of diet. The up-to-the-minute ethically fastidious might procure their chicken fix like the citizens in Margaret Atwood’s sf novel, Oryx and Crake (2003). There, chicken knobs—tasty organs without organisms, especially without annoying heads that register pain and perhaps have ideas about what constitutes a proper domestic bird’s life—are on the menu. Genetically engineered muscles-without-animals illustrate exactly what Sarah Franklin means by designer ethics, which aim to bypass cultural struggle with just-in-time, “high technology” breakthroughs.iii Design away the controversy, and all those free-range anarchists will have to go home. But remember, Chicken squawks even when his head has been cut off.
The law cannot be counted on. After all, even human laborers in the chicken industry are super-exploited. Thinking of battery cages for laying hens reminds Chicken Little how many illegal immigrants, ununionized women and men, people of color, and former prisoners process chickens in Georgia, Arkansas, and Ohio. It’s no wonder that at least one U.S. soldier who tortured Iraqi prisoners was a chicken processor in her civilian life.
Part II. Sick
It’s enough to make a sensitive Bird sick, as much from the virus of transnational politics as from the other kind. An avian flu outbreak in seven Asian nations shocked the world in the winter of 2004. Luckily, only a few humans died, unlike the tens of millions who succumbed in 1918-19. But before the 2004 fears abated, about 20 million chickens were prophylactically slaughtered in Thailand alone. Global TV news showed unprotected human workers stuffing innumerable birds into sacks, tossing them undead into mass graves, and sprinkling on lime. In Thailand, 99% of chicken operations are, in Global Speak, “small” (fewer than 1000 birds, since it takes more than 80,000 to be “large”) and could not afford biosecurity—for people or birds. Newscasters waxed eloquent about a threatened transnational industry, but spoke nary a word about farmers’ and chickens’ lives. Meanwhile, Indonesian government spokespeople in 2003 denied any avian flu in those salubrious quarters, even while Indonesian veterinary associations argued that millions of birds showed signs of avian flu as early as October.
Perhaps the Bangkok Post on 27 January 2004 got the war of worlds, words, and images right with a cartoon showing migratory birds from the north dropping bombs—bird shit full of avian flu strain H5N1—on the geobody of the Thai nation.
This postcolonial joke on trans-border bioterrorism is a nice reversal of U.S. and European fears of immigrants of all species from the global south, After all, prototypes for technoscientific, export-oriented, epidemic friendly chicken industries were big on the Peace Corps agenda (a theme picked up later by GATT), right along with artificial milk for infants. Proud progenitor of such meaty progress, the U.S. had high hopes for winning the Cold War in Asia with standardized broilers and layers carrying democratic values. In Eugene Burdick and William J. Lederer’s 1958 novel, The Ugly American, set in a fictional southeast Asian nation called Sarkan, Iowa chicken farmer and agricultural teacher Tom Knox was about the only decent U.S. guy. Neither Knox nor subsequent Development Experts seem to have cared much for the varied chicken-human livelihoods thriving for a long time throughout Asia.
Chicken Little is, of course, no virgin to debates about political orders. The darling of savants’ disputes about the nature of mind and instincts, the “philosopher’s chick” was a staple of nineteenth-century learned idioms. Famous experiments in comparative psychology gave the world the term “pecking order” in the 1920s. Chicken Little remembers that this research by the Norwegian Thorleif Schjelderup-Ebbe, a serious lover and student of chickens, described complex social arrangements worthy of fowl, not the wooden dominance hierarchies in biopolitics that gained such a hold on cultural imaginations. Behavioral sciences of both human and non-human varieties continue to find anything but dominance and subordination hard to think about. Chicken knows that getting better accounts of animal doings, with each other and with humans, can play an important role in reclaiming livable politics.
Laying hens and fertile eggs dominate Chicken Little’s closing thoughts. Perversely, s/he finds there the stuff of freedom projects and renewed awe. The British animation film Chicken Run (2000) stars 1950s Yorkshire hens facing a life of forced toil. The appearance of Rocky, the Rhode Island Red, catalyzes a liberation drama that gives no comfort either to “deep animal rights” imaginations of a time before co-species domestication nor to millennial free traders in chicken flesh. Pecking hens have other biopolitical tricks tucked under their wings.
Chicken Little returns in the end to the egg—fertile eggs in school biology labs that once gave millions of young hominids the privilege to see the shocking beauty of the developing chick embryo, with its dynamic architectural intricacies. These cracked-open eggs did not offer an innocent beauty, but they also gave no warrant to colonial or postcolonial arrogances about Development. They can renew the meaning of awe in a world in which laying hens know more about the alliances it will take to survive and flourish in multi-species, multi-cultural, multi-ordered associations than do all the secondary Bushes in Florida and Washington. Follow the chicken and find the world.
The sky has not fallen, not yet.
[testo ricevuto il 7/7/2004]
i Figures are from United Poultry Concerns, online.
ii Myostatin regulates muscle development, and its gene is under intense scrutiny. Commercial interest relates to the world’s #1 genetic disease (muscular dystrophies), wasting disorders (including aging and AIDS-related muscle loss), space flight-induced muscle atrophy, sports (watch out, steroid purveyors!), and bigger chicken muscles.
iii Sarah Franklin, “Stem Cells R Us,” in A. Ong and S. Collier, eds., Global Assemblages (London: Blackwell, 2004), pp. 59-78.