2004, Liana Borghi – J come jeune-fille

Liana Borghi, 2004. “J come jeune-fille. Figurazioni del soggetto lesbico”. Towanda! Rivista lesbica, anno IX, n. 12, (dicembre 2003/febbraio 2004), pp. 26-27

Articolo n.6 della rubrica “In teoria” condivisa con Simonetta Spinelli

In teoria 6.
J come jeune-fille. Figurazioni del soggetto lesbico
di Liana Borghi

La Jeune-Fille è buona soltanto a consumare; tempo libero o lavoro, che importa.

Mi porta a riflettere un piccolo libro uscito in primavera, Elementi per una teoria della jeune-fille. È la traduzione di una raccolta di aforismi del gruppo parigino Tikkun, dove il gioco tra identità, alterità, estraneità mette in scena la collusione di silenzi e bugie nella costruzione & assunzione dell’identità. Il gruppo è formato da giovani donne sotto i trent’anni che discutono tra loro di filosofìa e politica. Tikkun in ebraico vuol dire curare, riparare, trasformare; forse per questo il testo è sia descrittivo che prescrittivo. La jeune-fille di cui si parla è un soggetto instabile in processo di definizione in rapporto alle idee dominanti di femminilità e all’assetto economico neoliberista; è una figura costruita attraverso i discorsi pubblici, culturali, teorici di cui è l’oggetto. Ma oltre a questo è uno spazio di plasticità consumistica che tutti possono occupare – maschi, femmine, lesbiche, gay e trans. Qui come altrove, la collocazione di genere viene surclassata da altre nicchie (redditizie) di gratificazione. Non solo siamo tutte/i interpellate/i a diventare jeune-filles, ma (secondo il concetto di interpellazione di Althusser) siamo disposte/i a e desideriamo diventarlo, per partecipare al sistema che ci sollecita. In fondo, come dice il testo, la jeune-fille ci porge l’autentico enigma della servitù felice.

Ma perché la jeune fille ci riguarda? Innanzitutto perché il suo è anche il nostro spazio dove si consuma una “servitù felice” al sistema. Trovo diffìcile separare l’articolo sul lesbo-chic/lesbo-clic pubblicato recentemente da D di Repubblica da certe citazioni di Tikkun, come: “L”io’ della jeune-fille ha lo spessore di una rivista”; “si sa, in generale, quello che la jeune-fille pensa della cura”; “la jeune-fille non ama, si ama mentre ama” – una lesbica dalle relazioni modellate sui contratti, revocabili a ogni istante secondo gli interessi delle contraenti – “perché io valgo!”, eccetera. Mi sembrano illustrazioni di posizioni riconoscibili che noi stesse possiamo non aver schivato, in un sociale dove il lesbo-chic è una merce-faro che serve a commercializzare l’intera categoria, rendendola (più) appetibile anche per noi stesse.

Recentemente ripensavo inoltre alla differenza tra questa figurazione lesbo-chic contemporanea e il saffo-chic della Parigi di inizio Novecento. Rileggevo Una donna mi apparve, della poeta Renée Vivien, ricca espatriata angloamericana che racconta la sua storia d’amore con l’ereditiera americana Natalie Barney, anch’essa scrittrice. Vedevo, di qua, le coppie postmoderne che vendono macchine, alcoolici e cioccolatini dalle riviste patinate e la TV; di là, l’androgino e l’amazzone in continuo scivolamento tra il comparire-dire-apparire di una possibile identificazione lesbica della “donna nuova”. Da architetture prestabilite di ordine e differenza imperiale fondate sull’addomesticazione del femminile, vedevo emergere le fibrillazioni di un nuovo soggetto che dal guscio della perversità decadente si affermava nell’alterità della ginandra, esprimendo simultaneamente esperienze sessuali e desideri di emancipazione.

L’associazione tra lesbica e donna nuova di un secolo fa identifica un personaggio che reclama il suo posto nel mercato del lavoro come sull’orizzonte sociale, non diversa-mente da quello che fanno le jeune-filles del neoliberismo.

“Come tutti gli schiavi, la Jeune-Fille si crede molto più sorvegliata di quanto non lo sia in realtà” [p. 27]
 “La Jeune-Fille chiama invariabilmente “felicità” tutto ciò a cui la si incatena”
A fine Ottocento è la piccola borghesia che più visibilmente produce le “donne nuove” (le operaie e contadine già hanno il loro posto dentro e fuori del tessuto economico). Le ragazze borghesi, mentre cercano di aprirsi un varco nell’ordine sociale contestando nel farlo la distribuzione del potere, di questo potere contestano anche la struttura sessuale. Del resto, una donna in grado di mantenersi può scegliere di non dipendere più da un uomo, e trovare una nuova nicchia sociale. In reazione a tali forme di auto-determinazione femminile, la sessuologia affermatasi nell’ultima parte dell’Ottocento diventa una tecnologia utile a rafforzare il potere dello status quo attraverso nuove e più rigide definizioni della devianza sessuale e una conseguente risessualizzazione del linguaggio. Per contrasto, la prosa languida di Renée Vivien, intrisa di amore e passione, sofferenza, angoscia e desiderio può essere letta come una rivendicazione agita attraverso un vocabolario sessuale, attraverso un linguaggio multifocale che parla simultaneamente di esclusione sociale, privilegio economico, e utopia politica. Il sesso intermedio, la ginandra di Vivien e Barney, sta simultaneamente tra le due categorie del genere e fuori dell’ordine sociale, pur avendo il suo posto, in quanto androgino, nell’ordine simbolico di una cultura che l’ha collocato nello spazio platonico dell’immaginario, e non del reale. Ma né Vivien né Barney si scusano mai per la loro omosessualità. La considerano una mutazione “semplice” che le sottrae al comune destino riproduttivo e alla socializzazione a questo connessa, e le autorizza ad attaccare le istituzioni eteropatriarcali in quanto perverse e omologanti nei confronti di chi, come loro, si sente e si riconosce abnorme, altra, diversa, e non per questo meno degna di qualsiasi eterosessuale.

Mi rendo conto, forse è superfluo dirlo, del divario che possiamo scavare tra gli aforismi di Tikkun e le effusioni autobiografiche o gli éparpillements di personaggi “mitologici” come queste due protagoniste dell’Accademia delle Donne di Parigi. Ma continua a intrigarmi la loro figurazione di un protolesbismo reso visibile dall’apparizione dell’amata – dove “io/je” dico, e con ciò esisto, appaio, mi faccio e mi vesto lesbica – una forma di nominazione in proprio, e di identificazione, che mi serve paragonare alla riflessione postmoderna e anti-neoliberista, ma anche postfemminista e post queer, del gruppo Tikkun dove – in modo diverso che su Repubblica – l’apparenza, il look, si fanno minacciosamente sostanza.

Il testo di Tikkun risponde agli interrogativi che molte di noi vanno ponendosi sul rapporto tra organizzazione sessuale e pratiche socio-economiche nel nuovo assetto mondiale globalizzato e neocolonizzato in senso neoliberista, con le sue categorie di inclusione ed esclusione riproposte in ogni campo. Molte di noi, ma certo non tutte, hanno accesso a figurazioni plausibili in un sistema postfordista che premia flessibilità ed eterogeneità. Anche noi lesbiche (come gay, trans e queer) siamo state identificate come nicchie di mercato (insieme a certi spazi sociali, minoranze, comunità). Veniamo interpellate da un’economia interessata a identificare target come il nostro, nella loro diversità e peculiarità. Nel nuovo assetto dei consumi, anche per noi lesbiche le possibilità di posizionamento si moltiplicano: ci sono nuovi lavori per lesbiche emergenti, trasformazioni culturali, nuovi linguaggi affettivi. Ma abbiamo anche capito che questa operazione ci omologa e costringe in quanto consumatrici.

Come resistere? Lo chiedo a chi legge.

Dal punto di vista teorico-politico, abbiamo capito, penso, che il soggetto sessuale sta all’interno di flussi culturali, desideranti, lavorativi, economici transnazionali, da ridefinire anche in contesti non bianchi e non eurocentrici. Possiamo quindi definirci nuovi soggetti in transito pronti a nuove alleanze e a reinvenzioni politiche. Nuove forme di resistenza, disobbedienza e progetti antagonisti vanno emergendo dalle analisi di vari individui e gruppi, interessati non soltanto a nodi teorici identitari ma a questioni prettamente economiche e sociali collegate alle narrazioni del capitale, ai mondo del lavoro, alla legittimazione o neutralizzazione di forme sociali. E noi?

Io vorrei proprio non sentire il doppio clic della lesbica schiava radiosa colta dall’obbiettivo.
“L'”Io” della Jeune-Fille ha lo spessore di una rivista”

1 I testi citati: TIKKUN I, Premiers materiaux pour une théorie de la jeune-Fille (1999); tr. it. Elementi per una teoria della jeune-Fille (Torino: Bollati Boringhieri 2003). Altri argomenti di rifessione sull’argomento si trovano su due riviste uscite quasi in duplicato questa primavera, Multitudes in Francia e Posse in Italia. Vedi inoltre “Scandaloso clic: perché il mondo della moda fotografa ragazze che si amano tra loro?” D di Repubblica, 73/9/2003. Di Renée Vivien, vedi Une femme m’apparut (Paris 7904; ris. Desforges 7977).


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