Arturo Colautti (Zara, 1851-Roma, 1914), 1908. «Canto V. Le triste amiche», in: Il terzo peccato. Poema degli amori in XXIII canti annotati. Seconda edizione annotata e migliorata. Milano: Ulrico Hoepli, pp. 75-92.
[div class=”doc” class2=”typo-icon”]Il “terzo peccato” capitale è la lussuria. La prima edizione non annotata di questo poema che si rifà alla Divina Commedia, è del 1902. Nell’indice, di questo capitolo se ne specificano gli argomenti, ovvero: La piova eterna – Statue di sale – Emma Lyona – Giulia minore – Le sozie lesbiache – Lamento e castigo di Saffo
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CANTO V. LE TRISTE AMICHE
(«Impetuosa ruinosa irosa
Profonda piova su profondo flutto,
Perchè ‘l foco infernal mai non riposa?»)
Parea piangesse l’universo tutto;
Ed io tremava di finir sommerso,
Ben che restassi in quel diluvio asciutto.
Non sotto il segno dell’Aquario [1] avverso
Bagnan tant’acque la padana valle [2]
A far d’Italia ‘l buon nome diverso;
Né, mentre a foce volge Arno le spalle,
Di tanta esizial scoria montana
Orto chiuso si cuopre e aperto calle. [fine p. 75]
Là giù, nel colmo dell’ira piovana,
Conversi in gorghi erano i varchi immuni,
Ed ogni rupe divenia fontana: [3]
Sprizzavan polle di tra’ massi bruni, [4]
Strascinando [5] in lor corsa repentina
E selci, e bronchi, e stecchi, [6] e rovi, e pruni;
E lo strosciar [7] dell’acqua serpentina
Voce portava paventosa e cruda,
Qual d’innumere mandra taurina.
Ouand’ecco pianeggiar campagna nuda,
Più nuda di Maremma e di Flegrea, [8]
Ove l’itala fronte indarno suda; [fine p. 76]
E quel vasto squallor si dipingea
Di tal silenzioso èmpito umano
Che grand’oste barbarica fingea.
Tal mi credetti; ma il nitor pagano
Nell’ombre immote dimostrò sculture.
Materïate per disegno arcano.
(«O palestre d’Olimpia al valor dure,
O propilei d’Atene incliti, o sacri
Fôri di Roma, o tosche sepulture, [9]
«Voi non aveste onor di simulacri,
Nell’età degli eroi fiera e pudica.
Quanto il brullo [10] giron sotto i lavacri!»)
Quale cultor della bellezza antica,
Che, visitando vaticana stanza,
Inebbria di desìo la mente amica. [fine p. 77]
E d’ogni effigie nota la prestanza,
E fruga i nomi graziosi o amari,
E questo e quello esprime in esultanza;
Tal io di contro a’ sembianti chiari
D’indico avorio o d’eritreo granito,
Che parean tolti a profanati altari.
Ogni stirpe, ogni grado ed ogni rito,
Quanto in meste sirventi [11] o in gai rondelli,
S’inalbavano al mio guardo stupito.
(«Ove son io?» m’inchiesi. [12] «O quai martelli
Vollero adorno il Regno [13] maledetto?
E come Dite [14] ottien marmi sì belli?») [fine p. 78]
Ma, procedendo nell’esame schietto,
Pari a buon duce fra diritte schiere,
Alta confusion [15] crebbemi ‘n petto ;
Che di tergo alle immagini [16] primiere,
Onde il candor dicea più fresca data,
Cent’altre e cento s’offerian men vere.
E qual di verde lebbra maculata, [17]
Qual turpemente rôsa nella faccia,
O nell’infere membra straziata;
Questa col sen mal fermo alla minaccia,
Orba quella d’un lombo o d’una costa.
Mutila un’altra d’amendue le braccia;
E di taluna, per età scomposta,
Sì come avvien ne’ ruderi latini,
Solo avanzava la compage [18] opposta: [fine p. 79]
Tanto scempio [19] de’ marmi peregrini
Facea la piena al campo flagellato,
Più che barbari insieme e Barberini. [20]
«Bada!» proruppe il sommo Coronato:
«Alme son queste, non inerti cose,
E qui l’ha fisse il subdolo peccato:
«Dico il vizio sottil, ch’in fra le rose
Disonorò le calde isole greche, [21]
Dove Amor [22] vinto l’armi sue depose.
«E, primamente, le guerriere bieche, [23] [fine p. 80]
Onde Alcide [24] fiaccò l’ultimo orgoglio,
A maschia [25] bocca furo sorde e cieche;
«Poscia le amiche in sul fiorito scoglio, [26]
Ch’udian Saffo cantar dalla marina,
Voller diletto d’ogni cura spoglio;
«Quinci nella cesarea sentina [27] [fine p. 81]
Infeconde matrone ed ebre ancelle
Rinnovellâr la frode [28] feminina:
«E quindi dalla gallica Babelle, [29]
Contra diritto natural costume,
Torna il mal vezzo a logorar pulcelle.
«Ahi! Parigi, covil d’ogni sozzume,
Balzin dell’alvo [30] e Marna, ed Esia, [31] e Senna,[32]
E ricòpranti alfin di torbe schiume;
«Però che con la lingua e con la penna
Lo mal ripeti onde fu Grecia [33] spenta,
E per te ‘l mondo tutto si dissenna!» [fine p. 82]
Come villan che sotto la tormenta,
Se più fiammeggi a Mongibello [34] il cono,
Umilia ‘l collo e le ginocchia allenta;
Così, tra’ lampi del civil Patrono,
Minor mi feci, ben che fossi corto.
Pronto per zelo a dimandar perdono.
Ei seguitò più mitemente: «Il torto
Fatto ad amor qui scontano le male
Femine schive di viril conforto:
«Ed or le miri già tradotte in sale,
Rigide sì, non insensate effigie.
Stemperarsi all’umor, che scende e sale.
«A una a una le natìe vestigie
Sceman consunte, quasi ‘n etisìa,
Sotto la lima delle linfe stigie; [fine p. 83]
«E, fin che basti agli occhi vigoria,
Segue ciascuna nel medesmo fimo,
Come in cristallo, [35] sua lenta agonia;
«E, poi che tutta s’è conversa in limo, [36]
Onde la pena non s’acqueti mai,
Si ricompone nell’aspetto primo.
«Vedi, figliuol, se veder tu ben sai,
In qual miseria s’è costà ridotta
L’anglica Frine [37] dagli ambigui rai, [fine p. 84]
«Nell’arte d’aescar [38] duo sessi dotta,
Che di reina fe’ Napoli schiava,
E all’Ammiraglio [39] mutò gloria in rotta: [40]
«Ve’ come a dramma a dramma [41] le si scava
Il viso e ‘1 collo e’ l petto e ‘l grembo e l’anca;
Chè quest’onda cancella, ma non lava. [42] [fine p. 85]
«Ecco d’Ovidio la maestra bianca, [43]
Che nell’esilio, cui l’astrinse Augusto,
Fe’ l’umiltà di sue liberte stanca:
«Or di lei non si regge altro che il fusto, [44]
Da che il capo in belletta [45] ebbe disciolto
Tre fiate già, come che fosse frusto.
«Ed ecco il coro logoro e sconvolto
Dell’eolie viragini lascive, [46]
Che contro Amor peccâro spesso e molto: [fine p. 86]
«Delle inutili mamme omai son prive,
E già le braccia all’umidor perfuse
Tremano, quasi di persone vive.»
Anco rombavan le severe accuse
Ch’io, misurando il fallo alla grand’Ira,
M’impietosî dell’alme, ahi! troppo chiuse;
E dentro dissi: («Amor passa e martira, [47]
Amor consuma. Amor campa di frodo:
Teseo [48] fugge e Arianna spira. [49]
«Queste, per tema del ferace nodo,
Sottrassero al Divin lor carne cara:
Ond’io scordo l’oltraggio, e indulgo [50] al modo. [fine p. 87]
«Troppo a vergine vien bellezza amara,
Troppo il bacio vital largo è di lutti,
E nostra signoria di gioie avara!
«Ma se Natura vuol ch’ogn’arbor butti,
E presto porga suo tributo a Morte,
Perchè moltiplicar gli acerbi frutti?»)
L’Evocator, tra le nimiche smorte
La memore pupilla roteando,
Elesse la maggior della coorte; [51] [fine p. 88]
E, tôcco il monumento [52] empio e mirando:
«Parla!» gridò tre volte con tre cenni,
Il superno Voler [53] significando.
Per non mancar, sul fianco mi sostenni
Del mio Tutor; che la petrosa immago [54]
Si riscuotea [55] da’ sogni suoi centenni.
«Misera me!» (scese un accento vago.
Che gemito parea di setticordo):
«Perchè del mio martir vuoi farti pago?
«Come tuo cor, fosse l’orecchio sordo!
Grato è ‘l silenzio a chi dilesse il canto.
Però che più del duol dolga il ricordo.
«Mentìa la Fama, e ancor mente il compianto:
Lesbo mi fe’, non mi disfece [56] l’onda: [fine p. 89]
Non io cercai di stolta morte il vanto. [57]
«Forte, serena, acerba, ilare, monda.
Negai tributo al pueril Tiranno, [58]
L’estro sacrando ad Èrato infeconda. [59]
«Scosso il giogo viril, vinto l’inganno
Che fa mancipia nostra carne infida,
Cantai, non seppi l’amoroso danno; [60] [fine p. 90]
«Ma il tuo barbaro Nume suicida [61]
Mutommi ‘n calce per mutar mio lagno,
Ben che gittassi al suo Rivai [62] disfida.
«E non per me, ma per le amiche or piagno, [63]
Eunice, Anattoria, Attide, Jole, [64] [fine p. 91]
Ahi! rimorenti [65] nell’eterno bagno.
«Oh, scenda un raggio, un raggio del mio sole
A ravvivar [66] nella consutil pietra
Il sen di gigli e il labro di viole!
«Or franto è il plettro, ed è muta la cetra:
Che cal se, ad onta del castigo indegno,
Fremono ancora i canti miei per l’etra?
«Come Amor disdegnai, così disdegno… »
(E avria soggiunto: «Cristo») ma restò ;
Chè la gran piova, del Possente a un segno,
La bocca e la bestemmia le tagliò. [fine p. 92]
***
NOTE (NB: A PIE’ PAGINA NEL TESTO ORIGINALE)
[1] (Inf. XXIV, 2).
[2] «Val di Pado» (Par. XV, 137).
[3](Par. IX, 27).
[4](Purg. Ili, 70).
[5](Inf.. XIII, 106).
[6](Inf. XIII, 6).
[7](Inf. XVII, 119).
[8] Gli antichi Campi Flegrei: regione vulcanica tra Napoli e Pozzuoli, dov’è la celebre Zolfatara e il lago d’Averno, mitica porta degl’Inferni, quella per cui nell’Eneide (VI) vi discende l’eroe virgiliano.
[9](Inf. X, 38).
[10](Purg. XIV, 191).
[11] (Vita Nuo. VI, 8).
[12] (Purg. VI, 71).
[13] (Inf. VIII, 85,90 — XXXIV, 28).
[14] Dal latino Dis: divinità infernale governante il Tartaro o Inferno basso: per estensione, Inferno. Cosi Virgilio chiama Plutone (Aen. VI) e Dante chiama Lucifero (Inf. XI, 65; XII, 39; XXXIV, 20).
[15] (Purg. XXXI, 13).
[16] (Purg. X, 98).
[17] (Inf. I, 33, XXIX, 75).
[18] (Par. XIII, 6).
[19] (Inf. X, 85; Purg. XII, 85).
[20] È il noto epigramma di Pasquino contro il cardinale Francesco Barberini, nipote di papa Urbano Vili, quando coi materiali del Colosseo eresse il fastoso palazzo (1624): Quod non fecerunt… ecc.
[21] Cioè quasi tutte le Sporadi settentrionali d’origine eolia (fra le maggiori, Lesbo, Lemno, Taso) anticamente famose per la bontà delle frutta, la gagliardia dei vini, la grazia delle donne.
[22] (Inf. V, 66, 69).
[23] Mitica figurazion delle nuvole, nemiche perpetue perpetuamente fugate dal sole, ond’era un simbolo Alcide, son forse le Amazzoni, alunne di Artemide, vergine arciera iddia, traenti il nome dall’arsione in tenera età della destra mammella (à/ua^og) per meglio trattar l’arco alla caccia e alla pugna: favoloso popolo di donne guerriere d’incerta sede lungo le rive dell’ Eusino orientale. Omero le pone nell’Asia minore, un’altra leggenda le colloca intorno al lago Tritone in Africa, e un’altra ancora fra gli Sciti: celebrate fra esse Antiope pugnante contro Teseo nell’Attica, Pentesilea sventurata avversaria d’Achille sotto le iliache mura, Ippolita vinta e spogliata da Alcide.
[24] La 9^ delle dodici fatiche di Ercole, figlio di Giove e di Alcmena, è appunto la vittoria sulle Amazzoni, già debellate da Bellerofonte, e sulla loro regina Ippolita, figliuola di Euristeo, cui il semidio rapisce il cinto famoso per recarlo in dono alla di lei sorella Admeta, sua sposa promessa.
[25] (Purg. VII, 113).
[26] L’isola di Lesbo (oggi Mitilene) prossima alla costa asiatica dell’Arcipelago, squallida e grama oramai sotto il dominio ottomano, illustre un tempo per le scuole filosofiche, le poetiche gare, le società femminili delle sue sei città, può essere chiamata cuna della poesia erotica, agevolata dal dolcissimo dialetto eolio; e basterebbero a comprovarlo i carmi di Saffo e d’Alceo. Il vizio muliebre, tema di questo V canto, ebbe da essa isola il nome.
[27] Roma imperiale, corrotta dall’arte e dalla vita ellenica.
[28] (Inf. XI, 24, 25, 52; ecc.).
[29] Anche l’Alfieri così chiama Parigi (Misogallo); il Petrarca nella canzone (X*) a Giacomo Colonna e ne’sonetti 106 e 107 addimandava Babilonia la Roma papale de’ suoi tempi, non meno, sebben diversamente, contaminata.
[30] (Purg. XXVII, 25).
[31] Nome latino del fiume Oise, pur detto anticamente Isaria.
[32] (Par. VI, 59).
[33] (Inf. XX, 108).
[34] L’Etna — da monte e da giebel, che in lingua arabica pur significa monte (Inf. XIV, 56).
[35] (Par. XXIX, 25).
[36] (Purg. XVII, 114).
[37] Inutile torna qui ricordare come Emma Harte o Lyons, detta italianamente Liona (1761-1815), avventuriera inglese bellissima, nata nel Chestershire da una cuoca e da un sir Lyons, che le abbandonava entrambe, da fantesca in una taverna londinese dove il pittore Romney la conobbe e la istruì, e da ganza del ciarlatano Graham (autore della Megalantropogenesia, sistema di super-procreazione mediante mostre di modelli viventi) che la espose trionfalmente nel suo «letto celeste» come la donna tipica, la suprema bellezza, la diva Igea, divenisse a trent’anni (1791), legittima consorte di lord William Hamilton, ambasciatore a Napoli, intima confidente di Maria Carolina e idolo della corte borbonica, da cui si fece ammirare ne’ suoi lubrici «quadri viventi», alternando gl’intrighi politici alle erotiche gesta, prima orditrice con Acton dell’alleanza fra Napoli e Inghilterra, (1798) poi consigliera di Nelson nel tradimento verso i patrioti partenopei dopo la capitolazione famosa (1799). Richiamato l’Acton (1800) e morto Nelson a Trafalgar (1805) da cui riceveva una tenue pensione, visse miseramente e oscuramente morì presso Calais, dopo che aveva indarno tentato di far riconoscere presso gli eredi la figliuola dell’ Ammiraglio, del quale per lucro pubblicava le lettere, prima di scrivere le proprie postume Memorie.
[38] (Inf. XIII, 55).
[39] (Purg. XXX, 58).
[40] Che Orazio Nelson, capitano dell’Agamennone (1793) s’invaghisse alla corte borbonica della leggiadrissima sua connazionale, è cosa assodata: men sicuro è che la perfidia della inglese sirena, indettata dalla regina, determinasse il vincitore di Abukir a ordinare l’impiccagione dell’ammiraglio Francesco Caracciolo a bordo della sua nave (1799), così perennemente macchiando la propria gloria. Il Colletta lo afferma e Southey lo nega: se non vero, tuttavia verisimile. Certo è che Nelson rassegnava il comando (1800) per seguire lady Hamilton a Londra, e dava il proprio nome alla bambina da lei avuta segretamente.
[41] (Purg. XXX, 46).
[42] (Inf. XXXI, 16).
[43] Se non la storia, la tradizione vuole che Giulia minore, figliuola della prima Giulia e nipote di Augusto, fosse la Corinna d’Ovidio, l’inspiratrice dell’Ars amandi, o per lo meno che il lubrico poema venisse a lei dedicato. Certo è che, se non per l’intima sua relazione col dolce cantor di Sulmona, venne in odio al padre per le aperte sue dissolutezze; e, come la madre sua era stata da Augusto bandita nell’isola di Pandataria (Ventotene), ella così dall’avo medesimo venne relegata alle Tremiti, dove morì nell’oblio, mentre il suo poeta partiva pur esso per irrevocabile esilio (9 d. C).
[44] (Inf. XVII, 12).
[45] (Inf. VII, 124).
[46] Nelle scuole muliebri di Lesbo s’insegnava la complicata arte di piacere, donde amabili alunne uscivano ammaestrate in ogni disciplina del corpo e dell’intelletto, e s’ intitolavano «amiche» (eterie) o compagne, e non soltanto degli uomini: molto simili in questo alle odierne guechas giapponiche. E da cotesti singolari collegi muliebri vennero poetesse insigni e cortigiane di grido.
[47](Purg. XVII, 132).
[48](Inf. XII, 17).
[49] Riferimento alla leggenda di Arianna(Ariadne) figliuola di Minosse, re di Creta, e di Pasife, e amante di Teseo, uccisor del Minotauro, da essa tratto fuor del Laberinto col filo famoso: benefizio ripagato dall’attico eroe con l’abbandono nell’isola di Nesso: donde, per corruzione, il proverbio nostrano : «restare in asso». Arianna poi, per compenso, divenne sposa di Bacco, o, giusta un’altra leggenda, fu per pietà trafitta in Nesso medesima da Artemide invocata (Odiss. XI).
[50] (Par. IX, 34; XXVII, 97).
[51] Non una sola Saffo visse e poetò, probabilmente. Facendo esulare in Sicilia la poetessa lesbia, figlia di Scamandronimo e Cleide, bandita dall’isola materna per odio civile ovvero per libertinaggio, la leggenda compose forse di due anime una sola. Sortisse ella i natali a Mitilene o in Eresso, avesse respinto, come afferma Aristotile, la mano di Alceo, o lo seguisse nell’esilio impostogli da Pittaco tiranno, fosse moglie e madre o vergine volontaria, amasse il reluttante giovinetto Paone o la intatta Erinna cara alla musa, chi potrebbe negare che l’inventrice del metro lirico recante ancora il suo nome, per l’impeto dell’estro e 1′ ardimento della espressione, sia la maggiore di quante mai donne abbian trattato il verso? Giustamente o ingiustamente, ella impersona e intitola il vizio muliebre, oggimai più diffuso che non fosse a’ suoi facili tempi (628-568? a. C). Certo si è che la moderna eroina del poemetto di Leopardi, della tragedia di Grillparzer, delle opere in musica di Pacini e Gounod non sembra la medesima Saffo dei Frammenti, ne’ quali il «femminismo» (chiamiamolo pur così) dilaga e trionfa.
[52] (Inf. IX, 131).
[53] (Par. III, 75, 84).
[54] (Inf. XX, 123).
[55] (Inf. IV, 2 ; Purg. IX, 34).
[56] (Purg. V, 134).
[57] (Inf. II, 25; XXXI, 64), Qui vien smentito il suicidio di Saffo, sembrando poco probabile che la poetessa, reduce di Sicilia, si recasse nella ionia Leucade espressamente per farvi il salto mortale dalla rupe infame, donde gettavasi a mare ogni anno qualche gran malfattore. Di un’altra Saffo per omonimia si attribuiva forse alla prima siffatta misera fine: per lo meno, si collegherebbe essa alla favola di Leucotea, (bianca dea) deità marina soccorritrice de’ naufraghi. Secondo ogni verisimiglianza, il salto famoso sarebbe anteriore alla nascita di Saffo, trattandosi piuttosto della giovinetta Calice, amante di un altro Faone e cantata da Stesicoro.
[58] Cioè a Cupido, rifiutando amore di uomini: certo si è che l’impetuosa ode ad Afrodite serbataci da Dionigi d’Alicarnasso e l’ardentissimo brano tramandatoci da Longino e imitato da Catullo, che potrebbesi intitolare Ode a una donna amata, son diretti a due femmine: Attide involatale da un’Andromeda più bramosa di lei.
[59] La musa della poesia lirica, o più propriamente amatoria (da eromai, amare).
[60] Indubbiamente, anche perché il coevo Erodoto ne tace, la storiella del bellissimo navicellaio, dietro il quale Saffo delirante sarebbe esulata in Sicilia, per indi fuggirsene disperata e reietta, è invenzione de’ poeti comici, massime di certo Platone autore di un Faone posteriore di dugent’anni a Saffo. Il leggiadro e crudissimo giovine altri non sarebbe che il mitico Faetone, figlio dell’Aurora e di Cefalo, rapito ancor fanciullo da Venere per farne il favorito custode di un proprio tempio. Saffo ne avrebbe cantato gli amori divini: donde l’equivoco e il dramma, trascurato o quasi ignorato da tutti i tragedi.
[61] Gesù Cristo è suicida, nel senso che, pur essendo Dio, e potendo non volerlo, volle immolarsi per l’umanità.
[62] Ossia ad Amore, rappresentante la sensualità pagana rimpetto al cristiano spiritualismo, e però rivale del Nazzareno.
[63] (Inf. XXV, 151, Purg. VI, 112; XV, 48).
[64] La prima era salaminia, milesia la seconda, lesbiache le due ultime: qui mancano ancora Gongila di Colofonia, Girinna di Eresse e Mnasidice di Mitilene. Ed altre amiche ed alunne a Lesbo e in Sicilia (se vero è che mai vi si recasse e v’ insegnasse a donzelle) ebbe Saffo maggiore, non ultima Erinna di Telo, sua rivale nel canto, se non nell’amore; poiché parrebbe che ad Erinna, morta vergine e illustre a soli diciannove anni e non al presunto Faone, sia diretta la più ardente superstite ode di Saffo. Ma forse, come vissero due Corinne, così furono due Erinne, fuse o confuse poi dai compilatori di antologie. La prima, coeva di Saffo, sarebbe fiorita alla metà del sesto secolo innanzi Cristo: l’altra sarebbe vissuta tre secoli appresso. A quali delle due apparterrebbe lo smarrito poemetto in 300 esametri intitolato: «Il fuso» (^EXauaxE)di cui è cenno nell’Antologia alessandrina?
[65] (Purg. XXIV, 4)
[66] (Purg. XXXIII, 129).