1912, Francesco Degni – Commento all’udienza 25.8.1911

Francesco Degni, 1912. “Commento all’udienza 25 agosto 1911, Corte d’Appello di Napoli”. Il Foro Italiano, Vol. 37, parte prima: giurisprudenza civile e commerciale, pp. 970-978.

 

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CORTE D’APPELLO DI NAPOLI.
Udienza 25 agosto 1911; Pres. LAPPONE, Est. PIERRI
COSTA c. DE ANGELIS
Matrimonio — Errore sulla persona dello sposo — Qualità morali — Aberrazione sessuale
(Cod. civ., art. 105).

L’ignoranza dei difetti fisici o dei vizi morali dello sposo (nella specie: aberrazione sessuale della sposa per vizio di tribadismo) non può dar luogo all’annullamento del matrimonio per errore sulla persona a’ sensi dell’art. 105, capov. cod. civile. (1).

La Corte, ecc. — Atteso che l’appellata sentenza è fondata sulla premessa giuridica che l’avere il marito [p.971] ignorato che la sposa era affetta dal vizio del tribadismo gli dia diritto a far annullare il matrimonio per vizio di consenso, a norma dell’art. 105 cod. civile. Il primo degli ammessi capitoli di prova testimoniale riflette gli [p. 972] inganni ed i raggiri (non si dice quali) che si sarebbero adoperati per occultare al Costa il vizio della sposa; gli altri capitoli, relativi a fatti e circostanze posteriori alle nozze, tendono a stabilire che nella De Angelis era [p.973] profondamente radicata quell’aberrazione sessuale di cui dalle prodotte sue lettere all’amasia risulta essere già affetta prima del matrimonio.Il Tribunale ha già escluso che ciò si potesse addurre [p.974] come causa d’impotenza il fatto pacifico che gli sposi hanno avuto fra di loro commercio carnale e che la De Angelis ha due volte abortito; dimostra che costei, pur preferendo forse di sfogare la sua libidine con la sua [p. 975] amasia, non era restia all’adempimento del dovere coniugale: onde non è neppure a parlarsi d’ impotenza psicologica e relativa.
La questione, quindi, si riduce a vedere se l’aver [p. 976] creduto che la sposa fosse una donzella di buona morale, mentre, invece, era maculata dal turpe vizio del tribadismo, possa esser causa di nullità del matrimonio, e la decisione non può essere che negativa, se si rifletta che [p. 977] il nostro codice civile ammette l’azione di nullità soltanto per errore sulla persona (art. 105), cioè sulla individualità fisica e sulla personalità civile della stessa, secondo [p. 978] la dottrina tradizionale a cui dal nostro legislatore non si è voluto derogare; e che tale non è quello che si riferisce alle qualità morali e fisiche. (Omissis).
Per questi motivi, ecc.

COMMENTO:
(1) Con questa sentenza la Corte d’appello ha riformato quella del Tribunale di Napoli, il quale, trovandosi di fronte ad un caso mai presentatosi prima d’ora all’esame della giurisprudenza, aveva dato all’art. 105 cod. civ. la più larga interpretazione, ritenendo che l’errore di cui esso parla non sia solo l’errore sulla identità della persona, ma anche quello sulle qualità essenziali, fra le quali sono da annoverarsi le qualità morali, reputando, in ispecie, che il vizio del tribadismo, da cui era affetta la sposa prima del matrimonio ed ignorato dallo sposo, debba ritenersi mancanza di una qualità morale di lei, che può dar luogo a nullità del matrimonio. La specie decisa, evidentemente, era molto interessante, sia per la sua novità, sia perché, anche ammessa la più larga interpretazione dell’art. 105, può costituire ragione di grave dubbio se la sanzione della nullità del matrimonio per errore nella persona possa estendersi sino al caso dell’esistenza in uno degli sposi di una qualità personale degenerativa anteriore al matrimonio, ignorata dall’altro e persistente anche dopo. Io non credo, e cercherò di dimostrarlo brevemente in seguito, che il Tribunale abbia fatto una giusta applicazione della esatta interpretazione da esso data all’art. 105 ; ma non può negarsi che quella decisione contiene una motivazione che è indice lodevolissimo di un sano metodo d’interpretazione giuridica e che, francamente, avrebbe meritato un maggior riguardo da parte del magistrato d’appello, il quale, invece, in questa meschina sentenza, si è contentato di affermare come un dogma che l’errore contemplato dall’art. 105 è soltanto l’errore sulla individualità fisica e sulla personalità civile di uno degli sposi, poggiando tutta la sua tesi sull’osservazione che essa è imposta dalla dottrina tradizionale (?) a cui il nostro legislatore non ha voluto derogare! Lungi da me il pensiero che i magistrati si perdano nelle loro sentenze in vane disquisizioni dottrinali e teoriche, che spesso non giovano ai progressi della scienza e tanto meno agli interessi delle parti; ma è mille volte più deplorevole il sistema opposto di scrivere sentenze… telegrafiche, specialmente in una materia in cui le opinioni sono cosi divergenti. E’ un comodo sistema, infatti, questo riportarsi alle opinioni altrui ed alla tradizione, che si dice seguita dal legislatore, senza darne le ragioni, ma una Corte d’appello non dovrebbe ricorrervi. Se questo sistema dovesse trovare imitatori, ci farebbe tornare alla famosa legge di citazione Teodosiana, con l’aggravante che non sempre le autorità a cui si dà valore sono pari a quelle dei cinque celebrati giureconsulti romani; ci farebbe tornare alla prevalenza della communis opinio, dalla [p. 971] quale fu dominata la giurisprudenza medioevale e che condusse alla decadenza della scienza del diritto. Ma è tanto più impressionante il laconismo dell’annotata sentenza, quando si pensi che la Corte, riferendosi ad una tradizione che dice mantenuta dal legislatore, non si è dato affatto il pensiero di dimostrare perché l’errore nella persona di cui parla l’art. 105 cod. civ. deve estendersi anche all’errore sulla sua personalità civile, e non al solo errore sulla individualità fisica, unicamente al quale, se mai, la tradizione si riferirebbe.

È noto che nell’interpretazione dell’art. 105 del nostro cod. civile, corrispondente all’art. 180 cod. francese, si sono formate tre diverse opinioni. Per la prima, l’errore contemplato dal legislatore è esclusivamente l’errore sull’ identità fisica della persona (1), limitandosi, però, talora, il rigore di questa dottrina a sostenere che se l’errore sulle qualità essenziali della persona non può essere causa di nullità come errore, può diventarlo quando sia stato l’effetto di un raggiro fraudolento dell’altro contraente e costituisca dolo ai sensi degli art. 1108, 1115 cod. civ., ritenendo, contro la comune e diffusa opinione, che anche il dolo possa esser causa di nullità del matrimonio. (2)
Altri, invece, hanno allargato il significato dell’espressione errore nella persona, nel senso che è causa di nullità del matrimonio anche l’errore che cade sulla persona civile dello sposo, quando, cioè, la persona con la quale si è contratto il matrimonio, pur essendo, fisicamente, quella con la quale si è inteso di contrarlo, nei rapporti dello stato civile, invece, è diversa (3), o, al più, l’errore sulle qualità giuridiche della persona, ossia su quegli attributi di cui gode una persona nell’ordinamento giuridico in cui vive, tali che possederli o no importa cambiamento della personalità giuridica. (4)
Finalmente, una terza opinione ammette che l’errore nella persona di cui parla il codice si debba riferire all’errore su tutte quelle qualità che di fronte alla natura essenzialmente personale del vincolo matrimoniale devono reputarsi essenziali, tali, cioè, da far supporre che, ove l’altro coniuge ne avesse conosciuto la mancanza, non avrebbe contratto il matrimonio (5). E tali furono ritenute la nazionalità, quando la vera nazionalità dello sposo importi uno stato personale del tutto diverso da quello supposto: per esempio, uno sposo appartenente a Stato nel quale è ammessa la poligamia (turco), ritenuto erroneamente italiano dalla sposa (Cass. Torino 31 luglio 1883, Foro it., 1883, I, 1168); lo stato ecclesiastico ignorato dalla sposa (App. Catania 16 dicembre 1881, id., 1882, I, 423, e Cass. Palermo 4 luglio 1883, id., 1883, I, 1215); la relazione o la condi-zione sociale quando la vera sia troppo diversa o inferiore alla supposta (App. Torino 5 giugno 1900, id., 1900, I, 1098; il vincolo del precedente matrimonio religioso con altra persona [p. 972] (Trib. Napoli 21 settembre 1910, Giurispr. ital., 1911, II, 277) ; la mancanza di verginità nella sposa all’atto del matrimonio (Trib. Roma 1903, Foro it., 1904, I, 876; App. Venezia 23 marzo 1909, id., 1909, I, 682; Trib. Milano 5 aprile 1905, id., Rep. 1905, voce Matrimonio, n. 19); una malattia contagiosa, e particolarmente la sifilide, da cui sia affetto lo sposo (Trib. Venezia 23 aprile 1908, id., 1908, I, 853, con nota), o in genere una malattia infettiva gravissima e inguaribile (Trib. Tolmezzo 2 marzo 1899, id., Rep. 1899, voce Matrimonio, nn. 17, 18), l’insanità di mente di uno dei coniugi (Trib. Palermo 12 giugno 1905, id., Rep. 1905, voce cit., n. 20), se non conosciuta dall’altro prima del matrimonio (App. Torino 30 giugno 1896, id., Rep. 1896, voce cit., n. 11), e, nella sentenza ora riformata, il vizio del tribadismo, anteriore al matrimonio, da cui è affetta la sposa (Trib. Napoli 9 gennaio 1911, id.. Rep. 1911, voce cit., nn. 37-39).

A me pare, come dimostrai ora è un decennio (6), che questa terza opinione sia la più giusta, e le obbiezioni che ad essa sono state fatte, talora da giuristi autorevolissimi, fra i quali mi piace ricordare il FAGGELLA, estensore della sentenza della Corte d’appello di Napoli 15 novembre 1907, non valgono a far mutare il mio convincimento. È utile riassumere qui gli argomenti dei quali allora mi giovai per dimostrare che anche un errore sulle qualità essenziali di uno degli sposi sia capace a produrre l’annullamento del matrimonio, con qualche nuova osservazione che mi è suggerita dalle recenti obbiezioni mosse a questa dottrina, precisando, del pari, i limiti nei quali è necessario che essa sia contenuta, ai quali io stesso, in quello scritto giovanile, non detti l’importanza che meritano.

Che la prima opinione non possa accettarsi a me pare evidente. A sostegno di tale opinione si suole, spesso, citare l’art. 180 cod. Napoleone, da cui il nostro art. 105 trae origine, e l’opinione prevalente nella dottrina francese, la quale limita l’applicazione di quell’articolo al solo caso di errore sull’ identità fisica, limitazione definitivamente sanzionata dalla Corte Suprema di Parigi a camere riunite (24 aprile 1862) sotto la presidenza di TROPLONG e su conclusioni conformi di DUPIN (7). Ma tale interpretazione non può aver per noi alcuna autorità, giacché, come col solito acume osservò il GABBA (8), nel diritto francese la questione ha un aspetto assai diverso da quello che assume pel nostro codice. Infatti, l’art. 180 cod. Napoleone è stato desunto dall’insegnamento di POTHIER, il quale categoricamente affermava che il solo errore sulla persona può annullare il matrimonio, un errore, cioè, che abbia per effetto una vera sostituzione di persona, ben diverso da quello che può cadere sulle qualità della persona stessa (9). Le dichiarazioni del legislatore francese manifestano chiaramente l’accettazione incondizionata della teoria di POTHIER. Infatti, nell’elaborazione di quel codice, il LOCRÉ, segretario del Consiglio di Stato, diceva : «Giammai l’errore sulle qualità nobiliari, sui vantaggi della fortuna, nè sulle qualità morali è stato considerato come capace di viziare il consenso» (10); il MALEVILLE affermava: «Si è sempre creduto che il matrimonio non può annullarsi quando si fosse sposata una donna del popolo credendola nobile, o una donna povera credendola ricca»; il console CAMBACERÉS soggiungeva : «o quando si fosse sposata una meretrice che si credeva virtuosa, o anche una vedova che si reputava nubile» . (11), e finalmente il PORTALIS nell’Exposé des motifs disse: «L’errore in materia di matrimonio non s’intende semplicemente errore sulle qualità, sulla fortuna o sulla condizione della persona colla quale il matrimonio si vuol contrarre». A tali idee si oppose vivacemente NAPOLEONE, ma la sua opinione non ebbe la prevalenza ed egli stesso, poi, negò che l’errore sulle qualità potesse esser causa di annullamento del matrimonio. Sicché non può dubitarsi che la più esatta interpretazione dell’art. 180 cod. francese deve essere necessariamente quella che come unica causa di nullità [p. 973] del matrimonio per errore nella persona ritiene esser l’errore che riflette l’identità fisica, giacché essa è imposta molto chiaramente dalla intenzione legislativa, per quanto fondata su di una dottrina che è contraria non solo ai fini ed all’essenza del matrimonio, ma anche alla realtà, essendo pressoché impossibile un errore sull’ identità fisica. Queste ragioni, però, che, indubbiamente, militano a favore dell’opinione più rigorosa nel sistema del diritto francese, mancano assolutamente per noi. Infatti, basta far ricorso ai lavori preparatori del nostro codice per convincersi che, sebbene l’art. 180 cod. franc. corrisponda letteralmente al nostro art. 105, l’interpretazione ne dev’essere diversa. Sin dai progetti ministeriali Cassinis (1860), Miglietti (1862) e Pisanelli (1863), si parlò di errore essenziale nella persona, mentre nei progetti precedenti si era parlato solo di errore «sulla persona» o «sull’ identità della persona». Sicché, evidentemente, i progetti ministeriali allargarono la nozione dell’errore come causa di annullamento del matrimonio anche all’errore sulle qualità di uno dei coniugi, dal momento che non seguirono le dizioni usate dai progetti precedenti, né quelle delle legislazioni preesistenti, come quella adoperata dal legislatore napoletano all’art. 154 (12). Al concetto di limitare l’errore come causa di annullamento del matrimonio solamente a quello che cade sull’identità fisica della persona tornò, invece, la Commissione senatoria, la quale soppresse l’aggettivo essenziale, affermando che «solo l’errore che cade sull’identità della persona di uno dei contraenti può dar luogo all’annullamento del matrimonio; l’errore sovra ogni altra qualità, o fisica o morale o sociale, della persona non dovrebbe mai costituire un motivo di nullità del matrimonio» (13). Ma la Commissione coordinatrice non accettò il concetto della Relazione senatoria ed affermò, invece, che, pur consentendo nella soppressione della parola essenziale, la disposizione della legge non doveva limitarsi alla sola identità della persona, escludendo qualunque errore, quantunque possa viziare il consenso; il che sarebbe contrario al vero concetto dell’articolo ed alla giurisprudenza (14). Questo significato dell’art.. 105 fu definitivamente accettato, giacché il Guardasigilli non lo respinse, come fece di parecchie fra le modificazioni proposte dalla Commissione, ed esso, quindi deve avere necessariamente la prevalenza.

Senonché contro questo argomento varie obbiezioni sono state mosse. Si è detto, cioè, che il significato dato all’art. 105 dalla Commissione senatoria dovrebbe prevalere perché la Commissione coordinatrice, con tale innovazione, esorbitò dalla facoltà concessale dal regio decreto 2 aprile 1865 (15). Ma non si è badato che se è vero che la Commissione di coordinamento apportò qui una sostanziale modificazione al progetto della Commissione senatoria, essa, tuttavia, non esorbitò dal proprio mandato, giacché aveva la facoltà «di proporre le modificazioni necessarie per coordinare sì nella sostanza, che nella forma, le particolari disposizioni dei codici ecc.» (art. 2 regio decreto), ed il ministro Vacca nell’insediare la Commissione ne determinò il compito dicendo : «Riesaminare i codici e coordinarne le varie parti, insinuandovi eziandio le opportune mutazioni non tanto nella forma estrinseca che nel sostanziale portato delle disposizioni medesime, serbando intatti i principî dirigenti, egli è questo il duplice scopo che c’incombe. Chi ben lo intenda avrà a premunirsi, a veder mio, da due opposte tendenze ugualmente pericolose: il far troppo o il troppo poco. Ed invero, se si entrasse nella lubrica via dalle radicali innovazioni, noi saremmo condotti inconsapevoli a travalicare i limiti del nostro mandato, sostituendo l’arbitrio nostro alla suprema e intrasmessibile autorità legislativa del Parlamento. Questo ci è vietato recisamente dal mentovato art. 2 della legge, né accadrà che il monito del Parlamento rimanga per noi con poca riverenza osservato. Ma d’altro canto converrà pure che non si esageri di troppo lo scrupolo e la temenza del fare, dell’emendare e del rimutare». Né si può dire che con la innovazione adottata dalla Commissione coordinatrice nel significato dell’art. 105 siansi [p. 974] mutati i principî direttivi adottati dal Parlamento, chè, se ciò fosse avvenuto, il Guardasigilli, il quale, ponendo la sua firma accanto a quella del Re, assumeva la responsabilità del codice di fronte al Paese, non avrebbe esitato a rigettarla.
Più recentemente il FAGGELLA ha osservato che «le dichiarazioni opposte della Commissione senatoria e della Commissione di coordinamento sul significato dell’art. 105 non possono avere altro valore e autorità che di opinioni personali sul contenuto obbiettivo della norma che passava nel codice, ma non importano né una restrizione né un’estensione legislativa di questo contenuto, giacché tutta l’indagine dell’interprete deve essere rivolta a scovrire ed a riconoscere il vero e reale contenuto obbiettivo del precetto di legge» . I lavori preparatorî, egli dice, «non solo non hanno efficacia d’interpretazione autentica, ma non hanno nemmeno efficacia decisiva per l’applicazione del concetto racchiuso nella norma: essi non valgono a farla interpretare né contro la sua lettera né contro la logica del sistema legislativo; possono però riuscire come mezzi sussidiari, anche autorevoli, d’interpretazione, poiché attestano i rapporti, i bisogni e le condizioni sociali, cui il legislatore si propone di provvedere, e la loro importanza aumenta quando si trovano in armonia con la lettera e con lo spirito della legge». Tutto ciò è esattissimo, ed è anche molto giusta l’altra affermazione del FAGGELLA che la scienza moderna, bandendo il concetto del soggettivismo storico, per cui la legge consideravasi come il prodotto delle volontà individuali, ritiene, invece, che essa, una volta emessa, è staccata dal soggettivismo dei suoi autori, e vive e impera obbiettivamente nella sfera dei rapporti da essa regolati qual’è nel suo reale contenuto obbiettivo. Ma a me pare che queste osservazioni non possano affatto giovare per la più rigorosa interpretazione dell’art. 105.

Infatti, qui, da un canto, noi siamo di fronte ad un significato dato dai lavori preparatorî all’art. 105 che non può essere considerato come un’opinione personale dei compilatori, ma, piuttosto, come espressione del contenuto reale ed obbiettivo che, definitivamente, si volle dare alla norma, la quale, perciò, nella sua equivoca espressione letterale, dev’essere integrata dal concetto che, nella sua elaborazione, riuscì prevalente. D’altro canto, se è vero che la norma di legge non può essere perpetuamente legata al pensiero da cui fu inspirata al tempo della sua formazione, poiché essa è un’entità autonoma e indipendente, che, per quanto immutata nell’espressione letterale, deve risentire tutte le influenze modificatrici dell’intero sistema legislativo rivelate da nuove e reali esigenze pratiche, in guisa che un’acuta sua interpretazione possa dimostrare che il contenuto che ebbe in origine non rimane che una reminiscenza storica, poiché esso sarebbe in contraddizione coll’armonia del sistema giuridico positivo vigente quale risulta dall’indirizzo di tutta la nuova produzione legislativa nella materia a cui quella norma si riferisce, — se è vero, in altri termini, che l’elemento più efficace della interpretazione logica non è il pensiero del legislatore che è immanente ed assoluto, inteso come quel gruppo di uomini che contribuì alla formazione della norma, ma il pensiero della legge che è mutevole e contingente, che si trasforma e si risolve, coerentemente, del resto, alla essenza ed alla funzione del diritto positivo, che è produzione spontanea della vita sociale, — niente può autorizzare a ritenere che il pensiero da cui fu animato l’art. 105 del cod. civ. nella sua definitiva elaborazione abbia potuto essere modificato. Ed è quindi perfettamente logico che, a sostegno di una tesi che è conforme alle esigenze attuali della vita del diritto, si aggiunga l’autorità dei lavori preparatorî, i quali valgono a sussidiare un’interpretazione che risponde alla coscienza giuridica contemporanea e che non altera, anzi corrobora gli scopi del matrimonio come unione completa dei due esseri che si legano indissolubilmente per tutta la vita. Si può anche consentire col DUSI nel ritenere che anche il dolo possa essere causa di nullità del matrimonio, giacché, se la esclusione di esso è giustificabile nel sistema della legislazione canonica in cui il matrimonio, come, sacramento, è, in sé e per sé, un bene assoluto, e quindi il dolo, esercitato da uno degli sposi a danno dell’altro, non può condurre al suo annullamento perché non può riguardarsi come ingannato colui che, pur suo malgrado, è stato indotto a procurarsi un beneficio [p. 375] spirituale, quando, invece, si è costituito il matrimonio civile, separato ed indipendente dal religioso, l’esclusione del dolo come vizio della volontà non ha più ragion d’essere, essendo venuto meno il fondamento sul quale poggiava. Tutto ciò, però, non può autorizzare a ritenere che debba mantenersi in vita un matrimonio nel quale il consenso di uno degli sposi sia stato egualmente viziato da un errore, quando questo non sia stato l’effetto del dolo dell’altra parte, ma siasi spontaneamente prodotto.

Se però si ammette che l’errore di cui parla l’art. 105 cod. civ. non debba limitarsi all’errore sull’identità fisica, non mi pare che possa accettarsi l’altra opinione, seguita anche dalla Corte d’appello di Napoli nella sentenza annotata, pur senza darne altra motivazione all’infuori del richiamo alla famosa tradizione. Tale dottrina, infatti, sebbene consenta in una più larga interpretazione dell’art. 105, esclude l’errore sulle qualità essenziali della persona, fermandosi solo all’errore che cade sulla personalità civile di questa. Eppure vi sono qualità che, senza tenere allo stato civile di una persona, sono essenziali, dal punto di vista del matrimonio, ed hanno un’importanza maggiore di quelle che costituiscono la personalità civile. Ed allora, perché ammettere nel primo caso l’annullamento del matrimonio e negarlo nel secondo? Quale principio razionale può giustificare la differenza? Chi può dire che, agli effetti del matrimonio e pei fini che la società coniugale si propone, sia più importante il fatto di aver sposato un contadino che si era fatto credere principe ed erede di un trono, o chi è cittadino di uno Stato diverso da quello a cui si credeva appartenesse, anziché quello di aver sposato chi era vincolato già da un matrimonio religioso, mentre si aveva ragione di credere che egli fosse libero, così di fronte alla società civile, come alla società religiosa?
Se, dunque, si ammette che l’errore nella persona non è soltanto l’errore sull’identità fisica, bisogna riconoscere che in esso vanno compresi tutti i casi nei quali si tratta di qualità essenziali della persona, a cui la dichiarazione di volontà era intimamente legata.

Né questa più larga interpretazione dell’art. 105 può, a mio avviso, essere scossa dalle obbiezioni mosse dal FAGGELLA, il quale osserva: «La considerazione delle qualità essenziali che si crede esistessero in una persona può anche costituire l’unico motivo o l’unica causa psicologicamente determinante la volontà a consentire, ma è sempre un motivo o una causa interna, subbiettiva, che non è la causa immediata, la causa giuridica contrattuale, la cui mancanza o la cui falsità produce la nullità. La causa è sempre qualche cosa di obbiettivo, che nei contratti a titolo oneroso è la stessa prestazione considerata in rapporto alla volontà delle parti: anche nei contratti a titolo gratuito, in cui la causa è la liberalità del donante, questa si rivela e si estrinseca nell’atto di donazione. Tutta l’essenza giuridica ed etica del matrimonio è riconcentrata nelle persone che si sposano: colla solenne reciproca dichiarazione di volontà, fatta nelle forme di legge, esso è perfetto fra i dichiaranti. Il contratto sta da sé, fra i due sposi che hanno reso la formale e solenne dichiarazione, quali si presentavano nella loro identità fisica in quel momento, indipendente da tutti i motivi interni anteriori del volere. A prescindere dalle altre cause d’impugnabilità espresse dal legislatore, tutte le qualità personali, la posizione sociale ed economica, il casato, l’origine familiare, gli uffici e le dignità civili, i costumi di ciascuno dei contraenti, non hanno che un’importanza psicologica anteriore al consenso matrimoniale, ma si esauriscono e cessano di valere appena che questo si obbiettivizza nella dichiarazione solenne di volontà: hanno un’influenza meramente psichica. Il diritto positivo prende in considerazione soltanto il consenso matrimoniale, il quale si dirige alla persona di ciascun contraente quale essa si presenta nella sua identità fisica, e non le cause e i motivi che lo determinarono».

A me pare che il FAGGELLA confonda il motivo interno, psicologico, che deve sempre rimanere indifferente ed estraneo al contenuto del rapporto giuridico, con quelle circostanze di fatto in vista delle quali la dichiarazione di volontà si è determinata, o che ne formano non già il motivo occasionale, ma il presupposto essenziale, e rientrano, perciò, nel contenuto del rapporto giu- [p.976] ridico, in guisa che, venendo meno quel presupposto, non può mantenersi in vita il rapporto che su di esso fondavasi.

Non è qui il caso di esaminare tutte le sottili ed acute indagini che nella dottrina giuridica italiana e straniera sono state fatte intorno alla figura della presupposizione, ma non pare dubbio che sebbene al nostro codice civile sia finanche ignota questa parola, l’idea sostanziale del concetto che essa esprime non è estranea al nostro ordinamento giuridico positivo, intesa, cioè, come un elemento di fatto, non personale, ma obbiettivo, a cui direttamente ed immediatamente si collega la dichiarazione di volontà e che, perciò, è inseparabile da essa. I risultati delle ricerche alle quali ha dato luogo la teorica della presupposizione sono abbastanza netti e precisi per distinguerli cosi dalla causa, che è elemento essenziale di ogni negozio giuridico fissato dalla legge e indipendente dalla volontà delle parti, come dal motivo, che è elemento interno, psicologico, diversissimo, dipendente esclusivamente da vedute pratiche di una delle parti, ignorato dall’altra. Ed appunto per questo carattere essenzialmente e tipicamente personale del motivo la legge non gli ha dato, di regola, alcuna influenza sulla sorte dei negozî giuridici, poiché, altrimenti, la certezza e la stabilità dei rapporti sarebbe stata scossa, la buona fede defraudata. E ciò è tanto vero, che niente vieta che il motivo sia elevato al grado di condizione nei negozi che ammettono l’inclusione di elementi accidentali al loro normale contenuto, ed allora il motivo stesso diventa contenuto della dichiarazione di volontà, poiché nella forma di condizione esso ha cessato di essere un elemento interno, puramente personale, ed ha avuto, invece, una consistenza obbiettiva, essendo stato portato a conoscenza dell’altra parte come un elemento a cui la dichiarazione di volontà era stata subordinata. Ma per la presupposizione la cosa è diversa. Qui si tratta di una circostanza di fatto che, per l’intima e normale connessione che ha col negozio giuridico a cui si riferisce, forma parte integrale, per quanto implicita, della dichiarazione di volontà, in quanto, pur non essendo la causa del negozio, non ne è nemmeno il motivo, per la ragione che colui che dichiara la volontà ha ben ragione di ritenere esistenti le circostanze di fatto a cui, normalmente, secondo l’id quod plerumque fit, si ricollega il negozio giuridico che egli pone in essere, anche di fronte alla parte a cui la dichiarazione di volontà è rivolta. Ora, se tutto ciò è vero per ogni negozio giuridico, non è men vero pel matrimonio. Che se questo, per la sua indole, non tollera l’inclusione di elementi accidentali che modifichino la struttura che ha avuto dalla legge, ciò non toglie che la dichiarazione di volontà sia, in esso, come in ogni altro negozio giuridico, intimamente collegata a determinate circostanze di fatto, non aventi carattere personale, ma obbiettivo, nel senso, cioè, che devono ritenersi a conoscenza dell’altra parte; epperò l’esistenza di quelle circostanze al momento della dichiarazione forma il presupposto essenziale di questa, sicché, provato l’errore intorno ad esse, la stessa dichiarazione di volontà è infirmata.

Piuttosto è vero che l’indole del matrimonio e le norme speciali alle quali il legislatore lo ha subordinato, specialmente per quanto riflette la sua stabilità, assai più rigorose che non quelle proprie di tutti gli altri contratti, impongono un severo apprezzamento del magistrato, per evitare il pericolo che da una più larga interpretazione dell’art. 105 derivi l’inconveniente gravissimo e socialmente dannoso di diffondere l’opinione che possa facilmente impugnarsi la validità del matrimonio. La larga espressione dell’art. 105, la sua interpretazione logica consentono di far ritenere come causa di annullamento anche un errore sulle qualità essenziali dell’altro sposo, ma è necessario che si tratti della mancanza di una qualità che, per il suo carattere generale e comune, si debba presumere implicitamente tenuta presente nella prestazione del consenso, presunzione la quale si deve reputare anche a conoscenza dell’altra parte.

Entrano indubbiamente in questa categoria l’errore sulla nazionalità o sullo stato civile, anche quando quest’ultimo non si risolva addirittura in un errore sulla persona fisica, come potrebbe essere il caso dell’errore sul nome; l’errore sulla preesistenza di un vincolo d’ordine religioso, ovvero sulla religione professata; l’errore sulla verginità della sposa; l’errore sulla [p. 977] condizione giuridica penale, quando, cioè, siasi ignorata l’esistenza di un delitto o di una condanna che importino una delle pene che legittimano la domanda di separazione personale (art. 151 cod. civ., 20 disp. trans. cod. pen.). È vero che, per questo caso, potrebbe obbiettarsi che se la legge ha considerato come causa di separazione personale la preesistenza al matrimonio di una condanna a pena criminale, ignorata dall’altro coniuge, lo stesso fatto non può considerarsi come causa di nullità del matrimonio; ma io penso che, per quanto l’obbiezione possa esser grave, non è insormontabile, non solo perché si tratta di due istituti diversi, ma benanche perché, essendo l’azione di nullità ristretta ad un breve termine di decadenza, non può lasciarsi privo di ogni tutela chi abbia avuto la sventura di contrarre matrimonio con una persona colpita da grave pena; e, d’altro canto, non può dubitarsi che la condanna ad una delle pene di cui all’art. 20 disp. trans. cod. pen. è un fatto così grave che modifica sostanzialmente lo stato personale, quale si reputava esistere al momento in cui si è prestato il consenso al matrimonio, i cui fini materiali ed etici, perciò, verrebbero o interamente meno, come in un delitto che importi la pena dell’ergastolo, o sostanzialmente negli altri casi. L’ordine e la stabilità delle famiglie possono impedire lo scioglimento del matrimonio quando il delitto e la condanna siano posteriori al matrimonio, ma lo stesso rigoroso principio dell’indissolubilità matrimoniale esige che il matrimonio sia annullato quando si provi l’errore dell’altro sposo intorno a questa grave circostanza preesistente alla dichiarazione di volontà.

Non possono, invece, considerarsi qualità essenziali della persona, relativamente al matrimonio, in guisa che l’errore su di esse possa legittimarne l’annullamento, l’appartenenza ad una classe sociale più che ad un’altra, la condotta immorale tenuta da uno degli sposi anteriormente al matrimonio ed ignorata dall’altro. Epperò a me pare che, appunto, abbia esagerato nell’interpretazione dell’art. 105 il Tribunale di Napoli quando ha ritenuto annullabile il matrimonio per il vizio del tribadismo, anteriore al matrimonio, da cui era affetta la sposa. Ognun vede come, postisi su questa china, le impugnative del matrimonio potrebbero spaventosamente aumentare. Se ciò fosse esatto, invero, ogni forma degenerativa della condotta umana, ignorata dall’altro sposo, dovrebbe dar luogo a nullità del matrimonio. La tendenza a bevande alcooliche, la passione alla crapula od al giuoco, la preesistenza di una famiglia naturale, qualunque forma di pervertimento sessuale, un temperamento eccessivamente nevropatico o psicopatico giustificherebbero una domanda di nullità del matrimonio. lo so che ciascuno di questi vizi può far venir meno uno degli elementi essenziali del matrimonio, cioè quello che consiste nella mutua stima e fiducia dei coniugi, nel loro reciproco affetto, in guisa che essi siano, secondo la bella espressione evangelica, duo in carne una; ma so pure che, per motivi d’ordine sociale, la legge ha regolato questa materia con norme rigorose, dirette ad assicurare la stabilità del matrimonio, e l’interprete ha lo stretto dovere di secondare il sistema legislativo.
Certo, in una revisione del nostro codice civile sarebbe opportuno e conveniente che, trattandosi di materia così delicata ed importante, di fronte alle disparate e contrarie interpretazioni dell’art. 105, per le quali si verifica una insopportabile sperequazione nel regolamento giuridico di uno dei rapporti più fondamentali della società civile, l’errore sulle qualità essenziali di uno degli sposi fosse esplicitamente ammesso come causa di nullità nel matrimonio; ma io penso che tanto nel sistema attuale, quanto in una revisione dell’art. 105, il criterio direttivo, non essendo lecito né possibile qui l’enunciazione di principi generali ed assoluti, dai quali dev’essere guidato l’interprete ed il legislatore, sia questo: che, cioè, l’errore sulle qualità essenziali che può condurre all’annullamento del matrimonio sia soltanto quello che riflette una qualità personale che non sia esclusivamente d’ordine morale o sociale, ma che si riferisca ad una data condizione di fatto in cui la persona stessa si trova, o individualmente considerata, o in rapporto ad un vincolo di fatto o di diritto che, normalmente, si aveva ragione di credere inesistente; presunzione d’ inesistenza che, appunto per la sua generalità, si deve supporre a conoscenza dell’altra parte, e sempre, beninteso, tenendo conto delle condizioni, delle idee, [p. 978] delle circostanze particolari nelle quali il matrimonio si è conchiuso; apprezzamenti, questi, che in ogni legislazione, per quanto perfetta, devono essere lasciati al prudente e savio criterio del magistrato, il quale nell’applicazione del diritto ai singoli casi attua quella suprema legge di eguaglianza che è presupposta e contenuta nella legge, ma che solo nella ricca determinazione dei casi della vita può trovare la sua concreta affermazione.

Prof. Francesco Degni

NOTE AL COMMENTO
(1) RICCI, Corso teor. pr. di dir. civ., I, n. 136, 158; BORSARI, Comm., I, par 283 ; PALLOTTI, L’errore nella persona come impedimento al matrimonio, in Archivio giurid., V, 1870, p. 219; F. S. MIRAGLIA, in Filangieri, 1884, p. 503 ; DE FILIPPIS, Corso di cod. civ. ital., IX, 86, 90 ; DUSI, Delle nullità di matrimonio per cagione di dolo e di errore, in Rivista ital. per le sc. giurid., 34, 1902, p. 3 e segg. ; ATZERI, Dell’errore nelle qualità della persona nel contratto di matrimonio, negli Studi giuridici in cuore di Carlo Fadda, vol. IV, 1906, 175 e segg. ; FAGGELLA G., L’error virginitatis e la nullità del matrimonio, in Palazzo di giust., 1904, p. 126 ; App. Torino 20 giugno 1896 (Foro it., Rep. 1896, voce Matrimonio. n. 11); App. Napoli 15 novembre 1907 (id., 1908, I, 317, con nota di richiami; App. Venezia 11 marzo 1909 (id., 1909, I, 678, con altra nota).
(2) BORSARI, Op. cit., I, § 278; DUSI, op. loc. cit.; SORRENTINO, Della nullità del matrimonio per errore nella persona, in Foro it., 1904, I, 877); App. Venezia 11 marzo 1909 (loc. cit.); Trib. Milano 5 aprile 1905 (Foro it., Rep. 1905, voce Matrimonio, n. 19).
(3) CASTELLINI, L’errore nella persona come impedimento al matrimonio. in Arch. giurid., V, 18701; PACIFICI-MAZZONI, Ist. di dir. civ. ital., p. 107; App. Venezia 2 ottobre 1889 (Foro it., 1889, I, 1127, con nota del cons. est. BERTOLINI). –
(4) SORRENTINO, op. loc. (it.
(5) MANCINI, Quest. di dir., II, SAREDO, Tratt. di dir. civ. ital.; BIANCHI, Corso di cod. civ., V, I, 2, 71, 73; GIANTURCO, Sistema (Diritto di famiglia); LOMONACO, Ist. di dir. civ. ital., I, n. 19, III, 6 ; DI GIUSEPPE, L’error virginitatis, nel Filangieri, 1900, p. 161 e segg. ; TOESCA, La dottrina dell’errore in dir. civ., in Legge, 1903, II, 1098 ; GABBA, Sull’errore di persona nel matrimonio, in Foro it., 1900, I, 1098, e Nuove questioni di dir. civ., 1903, I, p. 1. [p. 972]
(6) DEGNI, L’error virginitatis come causa di nullità di matrimonio, in Filangieri, 1903, p. 140 e segg.
(7) Journal du Palais, vol. XIII.
(8) GABBA, op. loc. cit.
(9) POTHIER, Contr. de mariage, III, n. 308, 311
(10) LOCRE’, Esprit du Code.
(11) Procès verbal du 24 firmair a. X. [p. 973]
(12) «Non vi è consenso in colui che erra sulla persona del futuro sposo: l’errore sulle qualità e condizioni della persona non distrugge il consenso».
(13) Relaz. Vigliani al Senato § 5.
(14) Proc. verb., n. VIII, 1 3.
(15) PALLOTTI, op. loc. cit. [p.974]

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