1913, Colette – Gitanetta

Colette, 1958. «Gitanetta». In:  L’ancora / Tra le quinte del caffè-concerto. Milano: Arnoldo Mondadori Editore, pp. 149-234.

[div class=”doc” class2=”typo-icon”]Questo è l’ultimo della serie di quadretti di L’ envers du music-hall in cui Sidonie-Gabrielle Colette (Saint-Sauveur-en-Puisaye,  1873 – Parigi, 1954) descrive la vita e i personaggi del caffè-concerto. Pubblicato in italiano per la prima volt a nel 1934 nella traduzione  di  Enrico Piceni; l’originale francese è del 1913.[/div]

 

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Gitanetta

Son le dieci. Han fumato tanto, questa sera al bar Semiramide, che la mia marmellata di mele ha come un vago sapore di Maryland… E’ sabato. Una specie di febbre della vacanza annuncia, tra i frequentatori, il riposo del giorno seguente, giorno eccezionale: ci si alza tardi, si va a passeggio, a trovare i parenti, si strappano i ragazzi al rigore dell’ “internato” per far loro respirar l’aria pura e vivace della città. Il lo­cale rigurgita e Semiramide, la proprietaria, ha messo al fuoco un lesso formidabile che servirà di base massiccia al pranzo domenicale : «Quindici chili di manzo, cara mia, e le regaglie di sei polli ! Ce ne sarà abbastanza, no? Lo servirò come piatto d’entrata a colazione, coll’insalata a pranzo, e di consom­mé, poi, ne abbiamo fin che saran stufi.» Tranquilla, fuma l’eterna sigaretta, portando da un ta­volo all’altro il suo sorriso da orco buono e il suo whisky and soda che meccanicamente centellina. Un caffè amaro e forte intiepidisce nella mia chicchera; la cagnetta, cui il fumo da noia, mi sollecita ad andar­mene.

«Non mi riconoscete?» dice una voce vicina a me. Una giovane donna in nero, semplicissima, quasi povera, m’in­terroga collo sguardo. Ha i capelli scuri che appena si di­stinguono sotto l’ampio cappello di paglia ornato di piu­me, un colletto bianco, una cravattina, guanti grigio-perla un po’ sciupati… Cipria, rosso sulle labbra, nero sulle ciglia, il maquilla­ge indispensabile, ma compiuto con mano distratta, per necessità, per abitudine. Cerco di ricordare e ad un tratto i begli occhi, le larghe pupille d’un bruno brillante come il caffè di Semiramide, mi fanno esclamare : «Ma è Gitanetta !» [fine p. 229]  Il suo nome, il suo nome assurdo da caffè-concerto, mi ritorna colla memoria del nostro incontro…

Tre o quattro anni or sono, quando recitavo la panto­mima all’ “Empyrée”, Gitanetta occupava un camerino vi­cino al mio. Gitanetta e la sua amica, che formavano una coppia di “danzatrici cosmopolite”, si vestivano colla por­ta aperta sul corridoio per avere un po’ d’aria… Gitanetta danzava in costume maschile e la sua amica – Rita, Nina, Lina? – appariva, a volta a volta, vestita da cosacca, da ciociara, avvolta in uno scialle di Marsiglia… Una grazio­sa coppietta, una graziosa coppia d’innamorati vorrei quasi dire, poiché vi sono atteggiamenti, sguardi che la dicon lunga… e poi l’autorità che Gitanetta dimostrava, la cura te­nera, quasi materna colla quale avvolgeva un grosso scialle di lana al collo dell’amica… L’amica – Rina, Lina o Nina – l’ho un po’ dimenticata… Una biondina tinta, co­gli occhi chiari, i denti candidi, qualche cosa come una giovane lavandaia viziosetta e appetitosa.

Danzavano né bene né male e la loro storia assomiglia­va a quella di infiniti altri “numeri di danza”. Ragazze giovani, snelle, disgustate di “far la vita”, raccolgono i loro quattro soldarelli per pagare – un tanto alla settimana – il maestro di ballo, che insegna un “numero”, e il sarto dei costumi… Poi, se son molto, molto fortunate, comin­ciano a “lavorare” nei caffè-concerto di Parigi, della pro­vincia, dell’estero… Gitanetta e la sua amica “lavoravano” all’ “Empyrée”, quel mese. Per trentatré sere consecutive si comportarono, nei miei riguardi, con quella premura di­screta e disinteressata, con quella riservatezza timida e cor­tese che sembra aver eletto domicilio soltanto fra le quinte del caffè-concerto.

Nel momento in cui io mi posavo, sotto la palpebra, l’ultimo tocco di rossetto, esse risalivano colle tempie ma­dide, la bocca tremante di fatica, e mi sorridevano subito senza parlare, ansanti come poneys nel maneggio. Appena rimesse, mi davano, a guisa di saluto, un’informazione breve e utile : «Pubblico d’oro!» oppure «Che carogne,  stasera!». Poi Gitanetta, prima di svestirsi, slacciava il busto del­l’amica, le gettava sulle spalle il kimono di percalle a fiori e la bestiolina viziosa e nervosa – Rita, Nina o Lina – [fine p. 230] cominciava a ridere, a bestemmiare, a ciarlare. «Fate atten­zione» mi diceva «quelli degli schèttini hanno rigato tut­to il palcoscenico colle loro rotelle… Se non prendete uno scivolone siete fortunata!» La voce di Gitanetta, più gra­ve, rispondeva : «Uno scivolone in scena porta fortuna… Vuoi dire che si ritornerà a lavorare nello stesso teatro fra tre anni… Io per esempio, a Bordeaux, inciampai nell’orlo della sottana e…»

Vivevano ad alta voce, ingenuamente, vicino a me, colla porta spalancata. Facevan un rumore d’uccelletti indaffara­ti e teneri, felici di lavorare insieme, di rifugiarsi l’una nell’altra, difese l’una dall’altra, strappate alla prostituzione desolante, all’uomo spesso cattivo… Ripenso a quel tempo, davanti a Gitanetta triste e sola, così mutata… «Sedete un momento, Gitanetta. Prendiamo il caffè in­sieme… E… la vostra amica, dov’è?» Siede, crolla il capo. «Non siamo più insieme… Non sapete la storia?» «No, non ho saputo nulla… E’ indiscreto chiedere co­me mai…» «Oh, no, niente affatto… Siete un’artista, come me… come ero anch’io, voglio dire, perché adesso non son più nemmeno una donna…»

«Una cosa tanto grave, dunque ?» «Sì, grave… può darsi… Dipende dai caratteri. Io son fatta così… mi affeziono… Mi ero affezionata a Rita, era tutto per me e non pensavo che le cose potessero cambia­re… L’anno che capitò tutto, eravamo state molto fortuna­te… Avevamo appena finito una scrittura all’ “Apollo” che Salomon, l’impresario, ci manda a dire se volevamo dan­zare nella rivista dell’ “Empyrée”, una rivista magnifica, milleduecento costumi, girls inglesi e tutto. Io non ero troppo entusiasta di lavorar così, sapete, ho sempre avuto paura delle riviste: ci son troppe donne, e si finisce sem­pre con dispute, litigi, gelosie. Dopo quindici giorni so­spiravo per il nostro piccolo “numero” di prima… E poi Rita non era più la stessa con me, faceva relazione con questa e con quella, andava a bere lo champagne nel ca­merino di Lucia Desrosiers, quella bestiona rossa che puzzava sempre d’alcool e aveva sempre i busti colle stecche [fine p. 231]  rotte… Champagne a due franchi la bottiglia, ‘mi dite un po’ che roba era… La piccina diventava insopportabile e faceva mille smorfie. Una sera non mi torna in cameri­no vantandosi che la “comare” della rivista le faceva l’oc­chietto? Carino, no? e simpatico nei miei riguardi! Io in­tristivo, e vedevo nero dappertutto. Avrei dato non so che cosa per una buona scrittura ad Amburgo o al “Wintergarten” di Berlino, per uscir fuori da quella rivista che non finiva più!»

Gitanetta volge a me i suoi begli occhi color caffè scu­ro, che sembrano aver perduto la vivacità, il frizzo d’un tempo. «Vi racconto le cose come sono, non crediate che in­venti delle storie su questa o su quell’altra, o che parli per cattiveria.» «Ma no, Gitanetta.» «Bene. Un giorno quella briccona mi dice : “Senti, Gi­tanetta, mi occorre una sottana, ma una sottana bella però, la mia mi fa vergogna”. Ero io, si capisce, che tenevo le chiavi della cassa, se no, non si sarebbe mai mangiato!… Le dico soltanto: “Una sottana di che prezzo?”. “Di che prezzo, di che prezzo!” mi risponde tutta arrabbiata. “Si direbbe che io non ho il diritto di comperarmi una sotta­na.” Brutto inizio: scenata in vista! Per evitarla, le dico semplicemente : “Ecco la chiave, prendi quel che ti occor­re, ma ricordati che domani dobbiamo pagare la camera”. Quella prende un biglietto da cinquanta e si veste in fret­ta per arrivare, dice, alle Gallerie Lafayette prima dell’ora di punta. Io resto a rimettere in ordine due costumi che tornavan dal tintore, e cucio, cucio aspettandola… A un certo momento mi accorgo che devo cambiare un intero volante in mussola di seta ad una sottanina di Rita e mi precipito giù in un negozio, perché già si faceva scuro… Ecco, mentre vi racconto queste cose, rivedo tutto come in quel momento!

Proprio mentre esco dal negozio, per poco non mi faccio prender sotto da un tassí che s’avvicina al marciapiede, si ferma… e che cosa vedo? Quella spilungona della Desrosiers che discendeva dall’auto, tutta spetti­nata e in disordine, e salutava colla mano Rita, la mia Ri­ta rimasta nella vettura!… Rimasi così stupita, colle gambe tremanti, che quando volli fare un gesto, chiamare Rita, [fine p. 232]  l’auto era già lontana e riconduceva Rita verso casa no­stra…

«Ritorno anch’io a casa, mezzo istupidita; naturalmente lei era già là, Rita, con una faccia… Bisognava conoscerla come la conoscevo io, per capire… «Basta. Come nulla fosse, le domando: “E la sottana?”. “Non l’ho comperata.” “E i cinquanta franchi?” “Li ho perduti.” Mi disse così, guardandomi in faccia con certi occhi… Non potete immaginare.» Cogli occhi bassi, Gitanetta rimuove il cucchiaino nella chicchera : «Non potete immaginare il colpo che provai a quelle parole. Fu come se avessi visto tutto: l’appuntamen­to, la camera ammobiliata di quell’altra, la passeggiata in automobile, lo champagne sul comodino, tutto, tutto…»

Ripete, sottovoce : «Tutto… tutto…» finché io non l’in­terrompo : «E allora che avete fatto?». «Nulla. Piansi come un vitello durante tutto il pranzo sullo stufatino colle patate… Poi otto giorni dopo Rita mi piantò… Per fortuna mi ammalai da morire, se no, forse, con tutto il bene che le volevo, l’avrei ammazzata…»

Parla tranquillamente di uccidere e di morire, sempre rigirando il cucchiaino nel caffè freddo. Quella figliola semplice che vive vicino alla natura sa che basta un gesto semplice, appena violento, per risolvere tutte le nostre mi­sene… Si è morti come si è vivi, tranne che la morte è uno stato che ci scegliamo, mentre non scegliamo la nostra vita… «Avevate desiderio di morire, Gitanetta?» «Sì, certo» mi risponde. «Ma ero malata, e non pote­vo… Poi mia nonna mi volle con lei e mi curò durante la convalescenza. E’ molto vecchia, sapete, e non ho il corag­gio di abbandonarla…» «E adesso siete meno triste ?» «No» dice Gitanetta, con voce più bassa. «E non vor­rei neppure esserlo. Avrei vergogna di consolarmi dopo aver tanto amato la mia amica… Mi direte come altri: “Di­straetevi un po’… Il tempo accomoda tutto…”. Non dico di no, sarà benissimo, ma secondo le persone… Io, non ho conosciuto altri che Rita, proprio così, non ho avuto aman­ti, non so che cosa sia un bambino, son rimasta orfana piccina, ma quando vedevo due innamorati felici insieme, [fine p. 233]  oppure dei genitori coi loro pupi in braccio, mi dicevo: “Anche io possiedo tutto ciò che loro hanno, perché c’è Rita…”. E’ inutile, la mia vita è finita così, e non c’è nul­la da fare… Ogni volta che torno a casa dalla nonna, en­tro nella mia camera, e rivedo i ritratti di Rita, le fotogra­fie di tutti i nostri “numeri”, la piccola toilette che serviva per tutt’e due, son daccapo, piango, grido, la chiamo… Mi fa male, eppure non posso farne a meno… E’ curioso, ma devo dire che… non saprei che fare, se non soffrissi… Il dolore mi tiene compagnia.»

[fine p. 234]

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