1919, Sibilla Aleramo – Il passaggio: La favola

Sibilla Aleramo  [pseudonimo di Rina Faccio], 1919. «La favola» e «Gli occhi eroici», ne: Il passaggio.

  • L’indicazione dei relativi numeri di pagina qui riportati è relativa alla seconda edizione: Sibilla Aleramo, 1921. “La favola” e “Gli occhi eroici”, in: Il passaggio. Romanzo. Firenze: Bemporad, 1921, pp.125-136 e 137-146] pubblicata da webarchive allo https://archive.org/details/ilpassaggioroman00aler
  • Il pdf del webarchive è scaricabile anche da http://www.leswiki.it/repository/testi/1919aleramo-il-passaggio.pdf; l’immagine della copertina di una diversa edizione cortesia Archivio Locati Luciani
  • Online anche tre lettere di Sibilla a Lina pubblicate come materiale per il “Seminario Libera e gagliarda. Omaggio a Sibilla Aleramo”, Ravenna 28 gennaio 2011 allo http://www.gentesdeyilania.org/IT/Downloads/downloads.html

 

Nel 1908 durante il Congresso delle donne Sibilla Aleramo (Alessandria, 1876 – Roma, 1960] incontra Cordula (Lina) Poletti. Le due ebbero una relazione che durò circa due anni; nella sua seconda opera, Il passaggio, a lei Sibilla dedicherà il capitolo «La favola», pp. 125-136 parlandone anche nel successivo – «Gli occhi eroici» – come la “fanciulla maschia”, pp. 137 e “la donna di cui non dico il nome”, p. 144.

 

LA FAVOLA

Ho io timore ? Non l’ebbi allora.
Invoco, che mi serbino il loro bene, le donne dolci e pure che ho sulla terra: il volto roseo accorato della mia sorella, nata ultima di mia madre e di mio padre, che ha bimbe ora uguali a quella ch’ell’era, a quella che ancora in certi sonni buoni riveggo e vezzeggio, cara tenerezza: il volto d’un’amica giovinetta, il quale fa quando m’appare che armonia ritorni, anche nell’ore più aspre, tanto è immagine ed essenza di musa, tanto io credo ch’ella intenda e sollevi la vita: [fine p. 125] ed altri, altri volti ancora, attenti e fedeli: donne, misteri che non tento di sciorre le più sante come le più maliarde….
Cominciò puerilmente come cominciava la primavera: voci d’alati sul poggio mi destavano all’alba, vibravano nuove; mai le mutazioni nel cielo di marzo m’avevan tanto commossa; ingenua e indocile una forza nell’aria pareva ad ogni ora pregarmi e nascondersi.
La favola era bionda. Un color caldo si moveva su tutte le cose. Qualcuno giungendo ogni giorno mi riempiva di fiori il grembo, diceva: «vieni», mi conduceva correndo all’argine vivo e silenzioso del fiume. Cantava. Due punti d’oro negli occhi, una piega violenta e luminosa nei capelli.
Innamoramento, voce dal lento volo! [fine p. 126]
Lungo raggiare di sguardi, e senza che una sola sua ciocca mi toccasse la fronte, s’io chiudevo gli occhi mi permaneva sulle ciglia una festa splendente.
Baci sulle mie mani, lunghi. E le sue dita immerse nelle mie trecce, profonde come vento nelle radici.
Più vicino! Più vicino !
Trasfigurato è il mondo. Regnano le silfidi. Mi preme così la bocca con la bocca, in questo brivido vasto d’innocenza, oh luci d’oro, una che è donna come me, e fanciulla.
Una.
Iddio non mi mise in petto timore.
Iddio ha sempre voluto nel suo terribile cuore chiamarmi leale.
Iddio, che unico sopporta i miei pianti, i miei gridi laceranti, la miseria e la devastazione che sul mio viso talora [fine p. 127] balenano come su una landa battuta dalla sua notturna ira, unico anche sa s’io sono stata, s’io sono degna d’aver accettato per l’eternità il suo patto.
La mia voce non vale – che non posso accordarla su cembali risonanti su cembali squillanti né su arpa o cetra – ad attestare che per ogni mio ardimento ebbi tanta gloria di felicità quant’ebbi di pena. Vale invece questo stesso viso, quand’è asciutto di lagrime, il mio aspetto, ch’io conobbi il sole e ne fui penetrata e seppi le grandi contentezze, vale questo liscio di rosa sotto l’ala d’argento dei densi capelli. Un piacere forte, d’alta prateria, prova chi mi vede. Gli anni lontani e ieri ancora, tacitamente, m’ hanno smaltata. Per questo che su me riluce, potere mattutino, come su una qualunque genzianella pulviscolata di ghiaccio, [fine p. 128] io mi amo, per questo, potere mattutino, illimitato, fra tutte le fantasie del creato la più magica. Amo la mia natura feminea, gagliarda in riconoscenza. Ma fortunata la sorte virile! Portando sotto il cielo la sua maschera sprezzante l’uomo m’incontra, m’abbatte, gode di me riversa, di me, nobiltà dolce di forme, bontà dolce di petali. Ore di tripudio, fra messi mature e api liete di miele. Chi dei due più s’avvicina all’infinito? La donna nella stretta, resupina, non ha quasi più sguardo; e s’anche l’abbia aperto in attesa profonda (la morte, la morte può venire, ci trovi intenti e belli e non fuggiremo) meglio fortunato sempre l’uomo, che la contempla fatta a simiglianza di soave nube per lui inserta in terra. Gioia dagli occhi gli ride. Fra messi mature o tra quercie e pietre e acque, brillando l’aurora, una [fine p. 129] spalla di ninfa bianca secreta è parola imperitura.
«Tu non puoi sapere» diceva la creatura dagli occhi d’oro.
Ella supponeva a sé stessa un maschio cuore; e foggiata s’era veramente a strana ambiguità, sul nativo indizio forse del timbro di voce, forse della tagliente sagoma. S’era foggiata ed agiva. Con volontà d’uomo o d’angelo ribelle, con forza quasi di dannato — ma io, nessuno potrà mai giudicare se più demente o più veggente, ero toccata invece da ciò che in lei permaneva d’identico alla mia sostanza. Tentavo persuaderla dal mio canto: «Tu non sai». «Non sai quanto il tuo amore sia diverso, per quanto tu faccia, dall’amore che gli uomini possono darmi. Com’è leggera la tua carezza! Non mi penetri ma mi accosti — come [p. 130] niuno mai. Ti cedo con franco tremore, hai un piccolo nome che suona come il mio d’una volta, e un tenero rossore su la guancia se ti raccogli ai miei piedi. Balzi, cosa viva, e le labbra non ti s’aggelano come a colui che mi desidera. Sei tessuta di calore, e sei anche simile a una colonna d’acqua trasparente attirante. Non sai quanto nostra sia questa allegrezza e quanto nostra questa malinconia, così assoluta, che reggiamo perchè abbiamo ali…»
Ci movevamo in una immensa campana di vetro abbagliante, la vicendevole iniziazione ci dava chiari occhi eroici.
Imparai, amore, che il tuo mistero non è nella legge che perpetua le speci.
Più alto, indifferente, estatico.
Io bacio una creatura perchè ho gioia di saperla bella sotto il cielo, perchè mi [p. 131] ferma un momento nel mio andare nel mio pensare, e per un momento tutto ciò ch’io sono glielo dono baciandola.
E quella era il simbolo della fanciullezza e della corsa e della rapitrice eco.
Come una in fasce può far ch’ io l’adori per le sue aperte manine, meravigliate meraviglie, o una presso che centenaria, sola e lontana, che non sa e non chiede.
Ebbi orrore della viltà mentale d’ogni vivente intorno. E la sentii insieme fatale, piansi, avevo gli anni di chi pianse nell’orto di Getsemani, la passione gravò, l’oro della fiaba si sfrangiò in porpora.
Sangue, angoscia gorgogliante, sangue, chi mi salverà?
E le vene pesanti, brucianti, invocan sollievo. [fine p. 132]
Nessuna cosa più santa di una nudità che arde e rabbrividisce e si tende come il manto delle stagioni.
Fammi morire!
Fammi morire, chiunque tu sia, è l’ora che la mia carne non può oltre sopportare, l’ora che si preparava ma che non attendevo — fermentano fra macerie i cadaveri, una statua risplende per faro — fammi morire, chiunque tu sia, l’indicibile è questa necessità che tu mi ricopra, oh calore, oh tremore, vicino, più vicino! Hai ragione anche se t’inganni, ha ragione chiunque, sia greve o lieve la sua mano, cogliendomi in quest’ora mi sottometta e mi consoli, nudità contro nudità, brivido sterile e vasto, ch’è l’ora, i sensi finalmente son disciolti, godono essi e spasimano non più asserviti [fine p. 133] alla natura, natura essi stessi ineffabilmente, e oblio e follia hanno ali sospese d’ aquila.
Più su d’ogni rupe, ali sospese a saluto.
Oblio e follia si nomano dov’è la terra e il suo travaglio: dov’io stessa m’affanno, figlia di donna, e che questi nati lucidamente s’ammettano, invano, e mi stempro in vane lacrime, e le valli e i laghi non si riempiono tuttavia, mi stendo e m’avvinghio crudelmente sino a desiderare di mai più vedere a sera gli astri sereni, sino a strider di ribrezzo se una messe per me, di gigli mi piova intorno alle carni, gelida messe ch’era alta nel sole per la gioia di tutti e di nessuno. Oblio e follia in terra. Dov’è crepitìo di secca legna fra alari, dove son foreste e [fine p. 134] ruvidi frutti di pino, dove sono tombe. Tombe bianche fra grandi cespi di gerani scarlatti, lungo le vie deserte di isole verdi-dorate, o accanto a cedri o accanto ad ulivi. Cimiteri, odorosi di rosmarino, ronzanti di pecchie, profili d’un poco di mondo bruno contro un poco di cielo terso. Dove son giornate di vento lucide, e sulla duna imprecante turbina la sabbia fra cardi azzurri. E templi, bionda pietra porosa tagliata e edificata da mani greche, incanto del travertino incrostato d’alghe, nell’atmosfera paludosa che splende come sguardo in delirio templi aurati, vertici di venustà.
Terra, come sei bella! Le sere che mi appari impenetrabile, con la tua scia infinitamente delicata e nello stesso istante infinitamente violenta, parola senza sillabe, le sere che il tuo colore ottenebrandosi in valli e laghi irride, oh [fine p. 135] squisitamente, ad ogni umana eloquenza, mi danno, esse certo, di poter salutarti così, anima librata in bacio.
Baci vuole la terra, plaga disamata.
Canti vuole di felice lievità e di forte carità.
Dioniso ! Dioniso !

[fine p. 136]

GLI OCCHI EROICI.

Ma — siamo poveri.
La forma grande d’un cipresso che s’alza da una riva d’acqua e taglia il monte a mezzo già brunito e a mezzo ancor rosato, svettando nell’aperto del cielo, non vale.
Siamo poveri, siamo vili, ed è fatale.
La passione purpurea si striò livida.
Divenimmo tre cose sciagurate, io e la fanciulla maschia e l’uomo che per anni ed anni m’aveva dato la dolcezza di farlo beato.
Tre pietà, tre incomprensioni. [138]
Com’era la mia voce quando gridavo ad Andrea: «Spezzami, gettami via!»?
Quando gridavo: «Chiudi le finestre, non voglio vedere le stelle!».
Essi si guardavano talora con un guizzo di complicità; si odiavano ma si trovavano complici dinanzi al mio forsennato cuore.
Costernati sentivano la realtà del mio doppio delirio del mio doppio strazio: la potenza dell’animo che se ne avvolgeva; poi un qualche aspetto del mio viso, un lineamento, nulla, un’attesa indicibile delle vene, li riconduceva a negare — ah l’orrore per me di quell’identità d’accento! «No, dicevano, non puoi amarci entrambi, è un mostruoso assurdo, sei da tenere nel cavo d’una mano»….
Andrea!
M’intenda, se la mia voce gli giunge.
Tutto in ombra egli era. [139]
Con le spalle curve, che parevano attestare che tutto lo sforzo avevano già fatto ond’erano capaci.
La morte gli vidi guardare e repugnare, la forza astrale, il segno silenzioso.
Ciò solo che fa grande il fatto d’esser liberi: la più inaudita libertà sente l’arco del cielo per confine, qualcosa ancora sopra di sè da adorare, segno silenzioso.
Ch’è in ogni aroma e isola gli istanti di vita intera.
Isolamento, stupore, incanto di tutti gli istanti mortali rapidi eterni.
Ricordavo la crudeltà ardente con cui i suoi occhi avevano fissato lo spazio quando avevo detto di Felice che gli ritoglievo la mia vita. E non s’erano dunque mai quelle stesse pupille posate su qualche fiorato alberello in un febbraio precoce o su qualche roseto sperduto nella [140] calura, esistenze vegetali labili piene di pensiero?
Un riso anche labile mi pullulava segreto dall’anima, desolato più d’ogni singhiozzo, mi staccava mi lontanava, velato spiritato riso, mentre i due che amavo si contendevano quello che pareva non dovesse più mai stagnare, mio impudico pianto.
M’amavano essi?
Non alla mia stregua. Lo affermo giustizia facendomi come sul patibolo.
E m’hanno persa perchè innanzi io li perdetti. Entrambi.
Sulla terra che è tanto bella, tanto che anche i sepolcri vi s’innalzano con spiragli di luce, il mio lamento si esalava senza speranza:
«Vogliatemi bene: Vi faccio soffrire, lo so. Come una cosa vissuta, una cosa annosa. Che vi ha preceduti, che vi seguirà. [141] Vogliatemi bene, sono tanto stanca. Ch’io vi distingua, che tutto non si confonda. Questo mio masso di dolore — va in schegge su voi — le schegge vi lacerano, lo so — il masso resta, più nudo….».
Mi risollevavo. Non era vero, non ero stanca.
Ma poter strozzare il male che mi serra la gola! Prima che s’intenebrino le cose.
Credevamo, nevvero? nel bene.
In sogno la notte parlavo a mia madre. Concitata, ma la tenerezza mi fondeva il cuore. Ah, la sua assorta rigidità!
«Mamma, sei mai stata china sur un letto, con la tua guancia contro una guancia di bimbo o di uomo, finchè il bimbo o l’uomo siasi addormentato con calmo respiro?».
Fiumane limacciose, salci riversi, vento giallastro. C’è una bontà nascosta nelle vene del mondo? [142]
Ora sapevo. E quelli che avevo amati roventemente per un mistero di fede, creduti sopra ogni altra virilità ed ogni altra fanciullezza ricchi di germi, guardati avidi se mai qualche nuovo mito da loro si staccasse celeste, ora vedevo, ora sapevo, erano non dagli altri ma da me diversi, ora vedevo, ora sapevo.
Da me diversi. Dalla mia sostanza ingenua. Dalla mia trasparenza. Che li aveva attratti. Che ancora li sommoveva nel suo rutilamento miracoloso. Non potevano odiarmi, non potevano uccidermi. Li soverchiavo, tentavano arginare la piena delle certezze mie, nate con me, scatenando quello che avevano in sè stessi di più remotamente oscuro, invano. E innumerevoli volte, in quel seguito allucinato di giorni e di notti, colme dell’anima mia del mio balbettìo del mio [143] rantolo, per mesi e per stagioni or l’uno or l’altro innumerevoli volte mi caddero ai ginocchi. Li creava allora la disperata poesia che in me non voleva morire? Trascoloravano. Benedetta, parevan mormorare le sfere avvicinandosi, benedetta tanta passione, di là d’ogni livore e d’ogni tormento. Il cuore non s’è sottratto, il cuore fatto per darsi s’è dato, non si pentirà mai, c’è tanta grazia anche in questo suo spezzarsi. Non si offuschino i chiari occhi eroici. Le mani hanno supreme carezze….
Poi i lineamenti si distendevano, taceva ogni voce. Guancia contro guancia, materno ritrovamento, protezione sul misericordioso sonno.
Così stanno, per sempre: composti: un lene soffio accorato, mio, su essi dormienti o pellegrini. [144]
Così in conche d’ulivi i venti posano e ali chetamente radon le fronde.
Così quella ch’io fui per Andrea e quella che fui per la donna di cui non dico il nome, rimane per sempre, cosa bianca, grumo di pietà, è là per sempre, salva dalle furie ella che s’era alle furie abbandonata bianca, è là, io la vedo ora, preludiante cosa, l’aria attorno è sommessa e dolce.
L’hanno premuta, carne di cerbiatta. Le hanno colto in biondi sentieri more asprigne. L’hanno respinta. Lungi, coi capelli madidi sulle tempie, l’una è andata per selve rosseggianti al tramonto chiamandola chiamandola, s’è gettata a terra, ha creduto sentir emergere dal pinastro tappeto la forma adorata, per sempre lungi. L’altro, oh l’altro, nella sua scorza più chiuso…. [145]
Selve, selve incenerite su cime d’isole: tutti quanti gli stravolti aspetti della bellezza: risa di dementi, canti di forzati: selvaggia vita, irreduttibile ferocia, vita che morde che strangola, vita dei flutti e dei vulcani, nasconditrice di giustizia!
Nascosto, remoto ogni perchè.
Perchè mio figlio, ch’era mio nel tempo lontano come nessun figlio mai fu di madre, perchè mi venne tolto, non morto ma con tutte le sue salde ossa, con i suoi occhi aperti, e la bocca mutata che mi rinnega, che dice che più non mi vuole?
E come per lui, che non cerco più, ch’è più solo ricordo di strazio nelle fibre, morbo nelle mie scafate fibre quando di tutt’altro esse soffrono, così per l’uomo che non volle tenermi sorella, che mi respinse dalla sua ombra.
Rispondono forze che non hanno nomi, voci d’immenso volume, alte, ma [146]sembrano anche di sotterra. Tutto il mio delirio, tutto il mio martirio non bastano ad interpretarle. Sperse come aromi. Sperse come aromi.
Ma rispondono. Sono.
Le odo, più non posso chiedere.
L’anima che s’è avventurata e perduta, la mia, la sollevano la sprofondano. Quasi aroma anch’ella. Centro, raggio, non so, non sanno.
O forse polline.
Dove, dove mi poserò?
E la volontà infocata che in me chiamai d’amore a questo tendeva? Il balzo fu maggior della mira. Non ci son nomi più.
Era amore. Con quanto tremore di tocco! Con quanto furore di dono!
Chi ora feconderò?
Gravi di sole eterno son gli aromi.

 

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