1920, Guido da Verona – Sciogli le trecce Maria Maddalena

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[…]

Ma una sera noi rimanemmo sole. In città si facevano le elezioni. Già da un mese Lord W., mio padre, non faceva che aggirarsi per la biblioteca, declamando con foga oratoria certi suoi lunghi discorsi molto rumorosi e niente affatto eloquenti. Infine partì, ben sicuro d’esser l’uomo più necessario alla politica dell’Impero Britannico.

Mi ricordo che faceva quella sera un terribile vento; il parco non era che una fragorosa burrasca di foglie arruffate. Già doveva esser tardi, forse le undici di notte, non so. Dietro le finestre, nell’aria splendidamente limpida, si vedevano bruciare le stelle. Un non so che di selvaggio penetrava tra muro e muro; io non potevo star ferma; quel rumore, quello splendore, si propagavano in me, dandomi una specie di febbre.
Tutti nel Castello erano già coricati. Noi due sole, in quella nitida sera di Marzo, rimanevamo ancora vicino al fuoco spento. Sui nostri telai formava un bianco ricamo il colore delle stelle. Nei vasi erano fiori odorosissimi, raccolti a fascio. Il vento saliva, scendeva, nel camino spento, muovendo la cenere.
Odette era sprofondata in una grande poltrona scura; vedevo le sue braccia nude fino al gomito, vedevo le sue belle caviglie, del tutto scoverte, nelle calze di filo nero, che parevan d’argento. E la macchia de’ suoi capelli biondi, sul velluto scuro, sembrava quasi un vortice di fumo.
Allora una péndola suonò. Io mi levai; ella pure. Salimmo le scale insieme, con lentezza, fermándoci ogni tratto. Siccome l’elettricità si era interrotta, coprivamo con le nostre mani aperte le fiamme delle candele.
Giunte sopra, Odette mi guardò. Era estremamente pallida; le sue ciglia d’oro le facevano battere fin contro le narici un lungo riflesso quasi livido. La sua bocca non sorrideva come sempre; anzi aveva un non so che di sciupato, come la bocca di chi voglia reprimere un intenso piacere, un dolore acuto. Per non guardare lei, guardavo la candela gocciolante; cercavo di non pensare ad altro che agli scrosci fragorosi del vento. La fiammella si piegava, sfuggiva, guizzava, in rapidissimi fiocchi neri. Ma io stessa mi sentivo come lei: pallida e con la bocca sciupata.
In fondo al corridoio, con fragore, una porta si spalancò.
Era il vento. Le due candele si spensero.
Il vento c’investì con impeto, quasi volesse attorcigliarsi ai nostri fianchi, strappare via le gonne dalle nostre cinture.
Odette mi pose una mano sul braccio; disse, tra il vento: – «Spógliati. Verrò da te; leggeremo un libro.»
Dall’invetriata ch’era nel fondo le stelle macchiavano il corridoio d’una luce fredda e verde. Non risposi. La vidi andar via rapidamente. Io restai qualche attimo ferma; il cuore mi batteva. Poi, siccome sentivo le mie trecce sciogliersi, andai, camminando su le stelle, a chiudere quella porta spalancata.
Entrai nella mia camera senz’accendere il lume. Nello splendore delle due finestre si vedeva il parco arruffare nel vento le sue mille criniere. Gli abeti si piegavano tutti da una parte come grandi vele buie. Mi appoggiai con la fronte ai vetri, dai quali filtrava una lama di vento, sottile. Guardai l’erba dei prati, che scorreva, come se la traversassero in furia cento ruscelli. Sentivo il peso delle mie trecce pesarmi fin su l’anima. Non ero più io, non conoscevo più me stessa, mi sembrava di attendere un’anima straniera che stesse per entrare in me.
Il campanile, dal borgo invisibile, suonò l’ora. Mi parve di vedere questi larghi rintocchi andarsene per l’aria infuriata come pesanti mantelli gonfi di sonorità. Pensavo alla pallida fronte del diácono Ralph, a’ suoi bellissimi occhi freddi come l’argento…
Non era più nel borgo il diácono Ralph. Dov’era il diácono Ralph?…
Mi slacciai la gonna, mi slacciai la camicetta, mi tolsi le forcelle dalle trecce, ad una ad una. Così facendo pensavo alle ragazze che sono tranquille, che non hanno bisogno d’amore, che vanno a letto con un po’ di civetteria, ma senza mai sentirsi così male…
Avrei voluto essere come loro; addormentarmi anch’io, tranquilla, con le due mani in croce sul petto, finchè tornasse, la mattina dopo, il sole…
Non mi pettinai; non misi profumo nè cipria; non andai nemmeno a guardarmi nello specchio. Indossai una leggera vestaglia, e per togliere le scarpe, le calze, mi sedetti su l’orlo del letto. Io non pensavo all’amore; pensavo terribilmente a lei, a me…
In quel momento entrò Odette.
Chiusi gli occhi; mi feriva in tutta la carne la gioia più grande, più paurosa, che provai nella vita.
Poi cessò. Mi parve di essere morta. Rimasi lì, ferma, con la mano che più non sapeva togliere la calza; una gamba scoverta la gola nuda… Ella mi disse: – «Non sei ancora svestita?» E venne lì vicino, rovesciò del tutto la calza, me la tolse dal piede. Svestita?… Sì, lo ero. E perchè me lo domandava? Troppo lo ero; quasi non avevo su me che la mia bellezza e la paura di me stessa. Nel chinarsi, anche la sua vestaglia s’aperse. Mi sentii venire contro la faccia, negli occhi, nella bocca, nel respiro, un intenso buon odore di cipria calda e profumata.
Ella tornò a dire: – «Non sei ancora svestita?» Lo disse con una voce opaca, una voce sorda, pesante, esasperata, una voce che dissipava l’ultimo indugio. Vedeva bene la mia gola rovesciata; vedeva bene che mi restava solo da entrare sotto le coltri.
E mormorò: – «Córicati…» – Mi tolse la vestaglia, sollevò il lenzuolo, mi appoggiò la bocca su la fronte, per aiutarmi col suo peso a cader supina.
Poi mi coverse; radunò sul guanciale i miei capelli disordinati; ravvolse la coltre, piano piano, intorno alla mia gola.
Faceva tutto ciò naturalmente, come una buona sorella, con le sue mani troppo calde, col suo respiro troppo intenso, lasciando sbocciare dalla vestaglia i seni malnascosti, che tremavano. I suoi magnifici capelli biondi formavano un semplice nodo, una specie di voluminosa matassa, che da un lato, mal rattenuta, le ingombrava tutta una spalla.
Io chiusi gli occhi. Non la volevo nemmeno guardare. Ma pensavo agli occhi freddi come l’argento, alla faccia devastata e bella del diácono Ralph…
Allora ella sedette su l’orlo del letto, piegata su me, reggendosi ad un gomito che affondava nel guanciale. Non ricordo bene cosa disse… molte parole, delle quali sentivo sopra tutto il fiato; il fiato caldo, vicino, insistente, gonfio d’una specie di grido represso, che mi toccava come tocca una mano, come un labbro bacia, come un amante si dà…
E quella voce mi penetrava nelle vene, spossandomi, ravvolgendo con insidiosa lentezza il mio corpo inebbriato; anzi non l’ascoltavo nemmeno più: era una voce piena di gioia carnale, che si confondeva quasi al rumore del vento, al colore bianco delle stelle, a tutto il piacere infinito che stava per nascere in me…
A poco a poco, le parole che mi diceva – parole che non ricordo e non so quali fossero – divenivan più pesanti, più sorde, cadevano su le mie palpebre chiuse, baciavano la mia bocca umida, mentr’io sentivo, ed ella pure sentiva, il mio grembo tutto tremante sollevarsi, pieno di felicità…
Nell’urto che ci avvinse, cadde il libro di preghiere.