Lietta Tornabuoni, 1973. “Viaggio tra le femministe italiane. L’oppressore maschio”. La Stampa, Domenica 8 Aprile 1973, anno 107, n. 84, p. 3.
VIAGGIO TRA LE FEMMINISTE ITALIANE
L’oppressore maschio
I movimenti femministi sono unanimi “nella lotta di classe contro gli uomini” – Ma nel respingere “il mondo creato dal sesso nemico” hanno sfumature diverse: si va dall’estremismo delle guerrigliere padovane all’indulgenza sprezzante della maggioranza – Crisi in famiglia: pochi mariti “imparano a vivere”
FOTO: Roma, gennaio 1973. Una riunione del Movimento femminista romano: combattivo, ma «moderato» (Foto De Donato)
(Dal nostro inviato speciale) Roma, aprile.
«Di fronte alla rivolta delle donne, il maschio diventa isterico: urla, aggredisce, mena», spiega Lara Foletti, del Movimento femminista romano. Come sarebbe a dire? «Sarebbe a dire che mena», conferma. Per esempio a Roma, gennaio 1971, primo convegno femminista: offesi dall’invito a uscire dalla sala, gli uomini di buona volontà presenti reagiscono con violenza, vengono alle mani con le convegniste, le insultano al rozzo grido di «buffone» e «imbecillone». Oppure ancora a Roma: luglio 1972, dibattito sull’occupazione femminile: umiliati dall’esclusione, «uomini genericamente autodefinentisi compagni» con intolleranza goliardica «sfondano la porta, ci tirano addosso preservativi pieni d’acqua, rompono i vetri delle finestre, ci picchiano e ci feriscono. Ma noi restituiamo colpo su colpo».
Nuovi angeli
A Trento, infatti, sono gli studenti dell’Istituto superiore di scienze sociali a venir picchiati duramente dalle studentesse: «Eravamo stufe del loro sessismo», dice la Foletti, che a Trento si è laureata, «quei rivoluzionari avevano tutti i pregiudizi della società che pretendevano di combattere. Per loro le donne non erano più angeli del focolare, ma angeli del ciclostile. Non più “costola inutile”, ma faticone utili per i lavori subordinati. E alla fine eri una brava compagna soltanto se andavi a letto con tutti». Mai come oggi gli uomini sono stati guardati con occhi tanto critici dalle donne, che hanno perduto vecchi timori reverenziali. Mai si sono rovesciate su di loro tante accuse: sono deboli e nevrotici, egoisti e vanesi, sono governanti inefficienti, mariti prepotenti, padri assenti, amanti deludenti. Le femministe vanno oltre: li mettono al bando. I molti gruppi che frazionano il Movimento femminista italiano sono in maggioranza «separatisti» escludono cioè i nemici-uomini da ogni propria attività: «Esiste un antagonismo non biologico, ma antropo-socio-politico, che oppone la collettività maschile a quella femminile: e l’oppresso non può collaborare con l’oppressore». Respingono l’aiuto organizzativo degli uomini («Si arrogano sempre il diritto di comandare»); ne temono la solidarietà («Se ti danno ragione vuol dire che hai torto»); ne rifiutano la struttura di pensiero, i modi di vita, la cultura.
«La lotta di classe le donne la combattono contro gli uomini», è lo slogan della punta più estremista, Rivolta femminile: la leader romana del gruppo, Elvira Banotti, già autrice di un ottimo libro sull’aborto, sta ora realizzando un film-verità, che dovrebbe risultare clamorosamente eloquente, sui gesti degli uomini. «Bisogna rifiutare questo mondo creato dagli uomini e basato su valori maschili», dicono. «Bisogna rifiutare anche la teorica offerta di uguaglianza che è soltanto un trucco con cui il colonialista uomo tenta di continuare a sfruttare i colonizzati donne».
Almeno per ora occorre procedere da sole, dice Elena Servi Burgess, del gruppo padovano di Lotta femminista: «E’ come per i negri d’America: dovevano prendere coscienza da soli, non sentirsi far la lezione dai bianchi, neppure dai radicali bianchi benintenzionati». A Lotta femminista è stato rimproverato l’uso beffardo del paradossale slogan antivirile: «Castriamoli tutti!». In realtà l’atteggiamento è più tollerante, condiscendente: «Ci sono problemi che gli uomini, nella loro arretratezza, non arrivano a capire. Bisognerebbe cominciare a spiegargli tutto dal principio, come a bambini: non siamo contro di loro, ma abbiamo altro da fare».
Sono posizioni che «esprimono le turbe psicologiche causate dalle frustrazioni che le donne subiscono», sostiene il Fronte di liberazione femminile che, insieme al Movimento per la liberazione della donna, accetta e sollecita invece la collaborazione maschile. Sono anche posizioni autolesioniste, sentenzia Orietta Avenati: «Un separatismo coerente esigerebbe la rinuncia a qualsiasi rapporto con i maschi: il collaborazionismo sessuale con il nemico non è ammissibile. Una simile scelta ascetica, inaccettabile per quasi tutte le donne, limiterebbe le adesioni al movimento femminista. Se pure venisse attuata, sarebbe comunque deleteria per l’equilibrio psicologico delle militanti, quindi per l’efficacia della loro azione».
Sono posizioni che, oltre le teorie, rispecchiano spesso anche le esperienze personali delle femministe. Molte di loro sono studentesse che hanno abbandonato il movimento studentesco o i gruppuscoli polemizzando contro il «ruolo servile» loro riservato dall’estrema sinistra, contro il comportamento «da sfruttatori sessisti, da utenti cinici e brutali, insomma da fascisti» dei giovani compagni. Alcune hanno alle spalle matrimoni malriusciti, relazioni mortificanti, solitudini coatte. Molte provengono dalla sinistra tradizionale, cui rimproverano l’atteggiamento stracco, burocratico e strumentale verso i problemi femminili, e quella profonda scissione tra pensiero politico e comportamento privato che per le donne è così difficile da ammettere. Quasi tutte sono borghesi colte, evolute, emancipate: il privilegio che permette loro di valutare meglio la propria condizione le rende meno disposte a subirne l’ingiustizia.
La rabbia femminile si manifesta talvolta con violenza, e la polemica influenza naturalmente i rapporti personali: com’è l’amore, per una femminista militante? Tormentoso? «Presenta grosse difficoltà», ammettono. Soltanto un’infima minoranza adotta il separatismo anche nei legami amorosi, e diventa omosessuale. Soltanto poche diventano transfughe per amore: è capitato a Giuliana Meogrossi, ex vicedirettrice del carcere romano di Regina Coeli, che abbandonò la fervente rigorosa milizia nel gruppo di Rivolta femminile per trasformarsi in remissiva innamorata del detenuto Marino Vulcano.
Molte, una volta visti crollare attraverso il femminismo i miti amorosi da sempre coltivati, troncano relazioni e fidanzamenti. Altre sostengono invece che, proprio attraverso il femminismo, i rapporti con gli uomini migliorano: si fanno meno determinanti e dominanti, vengono vissuti in maniera meno nevrotica e dipendente; mal che vada, «il fatto di non avere un uomo non è più angoscioso». Molte sono sole, separate o divorziate. Molte decidono di non sposarsi, molti matrimoni entrano in crisi: «Però ci sono anche mariti che cambiano, che ti aiutano a lavare i piatti o a tenere i bambini, che cominciano a chiederti: “Ma tu a letto con me sei felice?”».
Non capiscono
«Devo dire che i mariti delle femininiste imparano a vivere», assicura Ombretta Colli, la cantante che fa parte dei gruppi femministi milanesi Autocoscienza del mercoledì e Autocoscienza del giovedì. «Le cose son magari più difficili con uomini estranei. Io frequento una scuola serale, quest’anno prendo la maturità classica per iscrivermi poi a Medicina, e anche lì: scherzacci di tutti, scherzetti dei professori, i compagni di scuola che ti fanno “giacché sei femminista, paga il caffè “. Sul lavoro ti guardano un po’ sempre come se fossi lesbica, i discografici raccomandano: “Fallo in privato, ‘sto femminismo”. Vieni continuamente presa in giro: a volte è avvilente, altre volte soltanto stancante. Invece con mio marito, Giorgio Gaber, proprio non ho problemi».
Del mondo maschile le femministe rifiutano la mentalità, il costume, i tic culturali. Che significa la sempiterna ansia degli uomini di non perdere tempo? «E’ un’efficienza da alienati, che tra l’altro ha come risultato l’inefficienza: il tempo che s’impiega a parlare, a pensare e ad amare è tempo vissuto; il tempo perduto è l’altro», dice Virginia Visani, del Movimento femminista milanese. A cosa è utile il loro feticcio della razionalità? «Bel caos è nato, dalle menti razionali», dice Giovanna Pala, del Movimento femminista romano. «L’emotività è un valore umano: dev’essere recuperato, non soffocato». Che senso ha il loro linguaggio organizzato, serio? «Ci hanno messo in testa che per aprir bocca bisogna essere preparate, saper tenere discorsi», protesta il gruppo milanese Anabasi, «ma a noi le parole non servono per convincere, coartare, distrarre, fare fumo, darla ad intendere. Noi vogliamo parlare così come ci viene».
Le confessioni
Le pubblicazioni femministe dalle testate emblematiche (Donna è bello, Punto di partenza, Al femminile, Sottosopra) non presentano infatti scritti sulle donne, ma scritti delle donne, firmati con il solo nome di battesimo ornato spesso dal disegno di un fiorellino. Dedicate a quello che in gergo viene definito «il confronto dei nostri vissuti», pubblicano confessioni intime, confidenze su sciagurate esperienze sessuali, resoconti di parti avvenuti in situazioni disumane, denunce di insopportabili condizioni di lavoro o insoffribili ingiustizie, cronache di aborti raccapriccianti. Pubblicano anche vignette sardoniche e fumetti nello stile di Feiffer, oppure cantilenanti strofette: «Vuoi veder che manco a dire / mo’ mi tocca di abortire? », «finché sparse resteremo / pur derise noi saremo ».
Se immagini di uomini vi appaiono, sono le fotografie di Franco Moccagatta e del professor Fausto Antonini, sormontate dalla nera scritta «wanted». Oppure l’aggraziata immagine del Bell’Addormentato, protagonista di una fiaba rovesciata che vede un principe liberato dal suo magico coma dal bacio di una equestre Principessa Affascinante, forte e saggia reggente d’un regno di amazzoni, che lo sposa e se lo porta al castello: dove il Bell’Addormentato passerà la vita «a filare, cucire, ascoltare con simpatia i problemi di lavoro della principessa e battere a macchina i suoi proclami ».
Lietta Tornabuoni
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