1977, Michèle Causse e Maryvonne Lapouge – Ecrits, voix d’Italie: Elvira Banotti

Michèle Causse e Maryvonne Lapouge, 1977. «Elvira Banotti», in Ecrits, voix d’Italie, Paris: Éditions des femmes, pp. 396-412.

 

L’intervista a Elvira Banotti, dichiaratamente eterosessuale, compare qui solo ai fini della ricostruzione storica del primo femminismo italiano.

Traduzione di Laura Bianchetto per LesWiki.
Ecrits, voix d’Italie – Indice e note


 

Elvira Banotti

E’ nata in Etiopia una quarantina di anni fa, ha fondato il gruppo Rivolta femminile a Roma e ha contribuito a redarne il manifesto.

Nel 1971 ha pubblicato il libro La sfida femminile, che contiene un gran numero di testimonianze sull’aborto e che venne giudicato “delirante” dalla stampa, compresa quella di sinistra, che arrivò a dichiarare che l’autrice aveva inventato i casi in questione! Ma nessuno sottolinea l’originalità delle tesi proposte sulla secolare emarginazione della donna. Elvira Banotti è la prima ad aver condotto uno studio approfondito sul fenomeno della longevità, sulle variazioni demografiche, traendone delle conclusioni inedite.

Tra il 1970 e il 1972 si cristallizza intorno a Elvira Banotti un fenomeno comune a molti movimenti femministi internazionali. Lei ne diventa il perno, l’elemento di riferimento, un soggetto la cui funzione non ha significato senza evocare quella della Madre tanto attesa dai seguaci del sansimonismo. Ma all’interno di un movimento la sorte di una madre è di solito quella di essere divorata dalle figlie. Vittima del suo carisma, vittima della sua Parola e della sua grande capacità di partecipazione, Elvira venne [fine p. 396] investita di un potere di cui non sapeva che farsene. Solitaria, paradossale, audace, polemica, profetica, Elvira non cerca approvazione. La sua vitalità trionfante più spesso spaventa le donne invece di rassicurarle.

Tuttavia ancora oggi la sua voce è la più stimolante che ci sia mai stata in Italia, la più ottimista e forse la più “rivoltante”… nel senso migliore del termine.

Elvira non voleva concedere interviste; il principio stesso le era odioso. Non voleva avere a che fare con donne che scrivono per mestiere, che per mestiere pensano, che per mestiere pubblicano, eccetera. Ha accettato di parlare soltanto per amicizia, e non senza reticenze!

Il 20 giugno 1976 in Italia ci sono state le elezioni. Elvira Banotti si è rifiutata di votare. Ci spiega il perché in questo articolo, pubblicato dalla rivista EFFE nel numero di luglio-agosto. [fine p. 397]


Perché mi rifiuto di votare [pp. 398-401]

NdR: Rimandiamo all’articolo in italiano pubblicato sulla rivista Effe, n. (luglio-agosto), 1976


[Intervista a] Elvira Banotti [pp. 402-412]

I

 «Tutto ciò che fanno o dicono gli uomini non mi interessa più. Non per questione di principio o per risentimento, no… ma non ne traggo alcuno stimolo, alcuna indicazione. Non possono più fermarmi Leggo i loro testi e non trovo nulla che mi possa stimolare. Mi rendo conto di aver acquisito – è la grande conquista femminile degli ultimi anni – una certezza, una tranquillità, una conoscenza di me stessa che mi permette di non subire più gli stimoli che provengono dall’esterno, i modelli ideologici in vigore, poiché io, di fatto, sono altrove.

Le forze storiche dell’uomo subiscono una battuta d’arresto. I partiti di sinistra sono i più ostili alle donne: hanno messo la museruola a quelle donne coraggiose che erano le suffragette e le hanno accusate di essere soltanto delle “borghesi”. Sono questi partiti che hanno impedito un cambiamento sostanziale della società. Non hanno detto alle donne «I vostri discorsi sono insignificanti, senza possibilità»? Lenin ha privilegiato la lotta di classe e ha dichiarato: «dopo, penserai a te». In altre parole [fine p. 402], ha invitato l’individuo a dimenticarsi di se stesso come persona. Nello stesso modo ha voluto che la donna dimenticasse la sua realtà di donna, le ha proposto di vivere dimenticandola. Come si può pretendere che una persona si dimentichi di se stessa? Ecco, questo è ciò che propongono i partiti di sinistra… E parlano di asili, di urbanistica, di controllo delle nascite. Sì, il partito di sinistra è il più pericoloso perché monopolizza ciò che viene definito “alternativa”… che non è soltanto una, non può essere soltanto una.

No, le vere femministe non potrebbero schierarsi al fianco di nessuno… e ancora meno di istituzioni esistenti. La polemica tra sinistra e destra favorisce soltanto l’uomo. Associarsi all’una o all’altra, prendere “posizione”, equivale a rinforzare il cemento armato, a mettere le colonne all’edificio. La cosa più importante per noi è rompere questa tematica di opposizione. Dividersi in progressisti e conservatori, ecco l’alternativa maschile. Come possono le donne inserirsi in una dialettica così povera? Speriamo che ci siano abbastanza femministe per contrastare queste intimazioni, saranno loro a fare il lavoro migliore… D’altra parte, basta osservare ciò che fanno le donne da circa dieci anni a questa parte: che forza di rottura!

 II

 «Le donne spesso ignorano di subire il più grande torto, storico, che possa essere fatto loro: quello che presiede alla cerebralizzazione delle persone. Ad [fine p. 403] esempio, le donne che frequentano l’Università seguono corsi di una misoginia tragica… di una cattiveria, di un cinismo spaventoso. Con aggettivi pomposi e dalla sonorità rara, si insegnano (vedi i corsi di diritto) nozioni di una volgarità, di una violenza… È osceno. E l’Università continua a incensare un insieme di comportamenti che sono la sintesi di un’aberrazione insensata. Sì, mi sento più insultata dallo spirito definito “benpensante” che dai crimini commessi ogni giorno contro le donne. Ma per quanto sia orribile il progetto mentale di un certo gruppo sociale, esso è completamente accettato.

Quello che le donne hanno fatto di più importate fino ad ora, a mio parere, è il rifiuto di entrare in quest’ordine di idee: rifiutano la scalata sociale, non si arrampicano. La tendenza generale ad andare sempre avanti non le interessa. Per loro, il lavoro e denaro non sono valori. Di quale forza straordinaria devono dare prova per resistere alle pressioni… Riescono a evolversi, a esistere, a vivere secondo le loro esigenze nonostante la distruzione organizzata dalla cultura – non intendo “cultura” nel significato antropologico del termine, ma cultura come cerebralizzazione, organizzazione di idee fissate da quei soggetti solitari che sono gli uomini.

Quando sento certe femministe dire che le donne sono rese inferiori, schiave, eccetera, divento molto intollerante. Capisco che gli uomini possano fare affermazioni del genere… È un sogno che inseguono da millenni, un ostracismo, è [fine di p. 404] il loro desiderio segreto, si sa. Ma che delle donne affermino a voce alta tali sciocchezze… Invece di riprendere quello che dice l’uomo, la donna farebbe meglio a coltivare quella ricchezza e quella vitalità che sono in lei e a esplicitare fortemente quello che lei è, quello che desidera essere.

Per me essere femminista significa vivere la propria forza, le sue manifestazioni, esprimerle, è vivere una vita lontano dalle sollecitazioni maschili… e del resto questo è ciò che fa impazzire l’uomo. Infatti, finchè riesce – fosse anche soltanto sul semplice piano della conversazione – ad avere la nostra attenzione, gli forniamo gli stimoli e la possibilità di allargare il suo orizzonte mentale e addirittura la libertà di dichiararsi “interessato”. La donna non si deve più preoccupare di questa “apparente” disponibilità dell’uomo, no, non deve più permettergli di pontificare, di interpretare a suo modo la nostra vita. Ciò che faccio, ciò che vedo, non voglio che se ne appropri per essere di moda, per apparire moderno. Voglio che sia il mio modo di essere a stabilire i suoi modi di fare. Voglio essere ciò che mi piace essere. E se ciò che sono lo destabilizza, peggio per lui. Secondo me quello che dovrebbe interessare all’uomo, ormai, non è interpretarci ma piuttosto scoprire, in fretta, le sue possibilità di essere diverso. E soprattutto non dovrebbe occuparsi di femminismo.

L’educazione di questa società tende a bloccarci, a fermarci, a farci vivere con la testa. Ho visto troppe femministe danneggiate da questa paralisi… Donne allegre, vivaci, che dopo essere venute a contatto con [fine p. 405] femministe dagli schemi mascolini diventano mortalmente serie. Prendono il libro del primo venuto e si mettono a dissezionarlo: «Ma perché ha scritto questo?» «Che importanza può avere, rispondo, è lui che l’ha scritto. Perché occuparsene?».

In un certo tipo di femminismo si disperdono forze enormi… quelle forze rimaste intatte per il fatto che noi non siamo entrate a far parte della società. Perché la società, giustamente, difende l’uomo… Sì, difende i suoi delicati, piccoli equilibri e gli fornisce un modo univoco di essere. Però io non voglio questo tipo di protezioni. E quando certe donne dicono che subiamo  una “inferiorizzazione”, le guardo stupefatta. Invece di dire «facciamo la rivoluzione», farebbero meglio a esaminare le infinite possibilità, quasi a livello cellulare, che offre loro il fatto di non aver avuto difesa o protezione. Questa società avvalla le difese del prototipo maschile. Così sia! Che l’uomo continui come ha sempre fatto… Crede di essere quello che comanda, che agisce… Ma io lo vedo piuttosto come un essere rimasto indietro di svariati secoli… Gli uomini subiscono una serie di limitazioni, costruiscono un soggetto fittizio, ossessionato d’altra parte da quei limiti… Allora, non diciamo che noi siamo inferiorizzate… Bloccato da ogni parte, l’uomo non si rende nemmeno conto che impedisce i movimenti alla donna e siccome non ha più la possibilità di evolversi liberamente, è con apprensione che ci guarda agire. Si evolve verso il passato, prigioniero di forme e di valutazioni ideologiche di sé stesso spesso mitologiche. No, non è [fine p. 406] lui ad essere forte… Anche nel suo modo di organizzare il pensiero l’uomo si è creato un’autodifesa. Il fatto che noi ci muoviamo in modo diverso ci permette di vedere tutti gli elementi riduttivi del loro essere. Fare nostri quegli elementi, digerirli, metabolizzarli è come suicidarci. E’ limitare la nostra totalità. L’unico elemento storico che può cambiare la realtà è la donna, non la rivoluzione. La donna si deve assolutamente evolvere lontana dalla “paura” dell’uomo. Perché, con un minimo di intuito, si può vedere che tutta l’organizzazione maschile è fondata sulla paura. Noi siamo la residenza della follia maschile. D’altra parte, se consideriamo le forme istituzionalizzate dell’esistenza – la Chiesa, il Parlamento, l’Esercito eccetera, tutte quelle istanze con le quali l’uomo crede di esprimere la vita – è ben chiaro che, al contrario, sono l’amplificazione di un malessere, di una solitudine, di un’assenza di vita: sono la traduzione di una carenza fisiologica.

Accettare di esistere secondo le forme mascoline che sono in vigore è, molto semplicemente, impensabile. La loro concezione della vita non è vita. Le loro istituzioni non sono la celebrazione di un piacere, di una forze, sono il luogo in cui l’essere organizza la sua disgregazione…. Basta vedere l’uso che fanno della parola “permissivo”… Nella loro interpretazione del mondo c’è una barriera: la persona è assente. Mentre invece per la donna è la persona che conta. Senza alcuna cattiveria, gli uomini al confronto mi sembrano fantocci: i fantocci della tradizione. E [fine p. 407] se nel femminismo c’è una cosa di cui dovremmo diffidare, quella è il concetto di organizzazione. Il femminismo non ha bisogno di organizzazione. Sono le donne, individualmente, che faranno, che fanno la realtà. È il modo in cui ogni donna dà dei calci al sistema, avanza risoluta, ascoltando soltanto se stessa, cosciente dalla sua forza, che creerà la rottura. È questo l’elemento più importante del femminismo. E anche il fatto che l’uomo – così com’è oggi – non piace più alle donne… A un certo punto dovrà tirare delle conclusioni…

 III

 «Trovo che la forza principale della donna risieda nella sua sensualità. E l’uomo, che non ha sensualità, non ha forza. Non conosce questa sensazione di esistere con tutto il corpo. Infatti non arriva nemmeno a esprimere una “sessualità”. Quando l’uomo dice «post coitum animal triste», si riferisce davvero a un’esperienza vissuta. E la sua supposta sessualità è la negazione della sensualità come la intendo io. Per me è una totalità dell’essere… E credo che la sensualità sia sempre presente nel corpo della donna. Non ho bisogno della presenza dell’altro per eccitarmi, perché ho in me questa energia. La sensualità nasce da me.

Ho scoperto la mia totalità già da bambina, ci si tocca molto in quel periodo della vita. Ho toccato tutte le parti del mio corpo durante l’infanzia. Gli adulti non li vedevo [p. 408] nemmeno. Il mio mondo era circoscritto alle cose sensuali. Cercavo sempre di scoprire l’attrazione tra le persone… le seguivo, le annusavo.

E in fondo capisco che la sola cosa vitale per me, il mio unico bisogno – non so che sfumatura possa prendere questo bisogno negli altri – è la pulsione continua, il movimento verso gli esseri o le cose che mi potrebbero piacere. E che chiaramente non sono mai le stesse. Non provo nessun interesse per le situazioni precise, fisse. In ogni caso, non si tratta di una situazione di “benessere” inteso nel senso comune del termine, perché per me ciò che conta è la pienezza psicologica, fisica, ecc. Adattarsi a una calma inventata dall’uomo, nei suoi schemi, mi farebbe diventare pazza. Non voglio barriere, né economiche né sociali, né intellettuali e nemmeno femministe. Nessuna parola d’ordine, nessuna restrizione, nessun modello.

Anche mentre mi “guadagnavo da vivere”, dando il denaro alla mia famiglia affinché i miei fratelli potessero studiare, ciò che mi interessava era essere un insieme di corpo-pensiero-azione. La mia sensualità. Forse un giorno ci sarà una parola che renderà meglio l’idea. Ho vissuto una vita piena di stimoli ed emozioni. La vita sociale mi lasciava del tutto indifferente. E non è vero che questo non lascia tracce. Ciò che fai diventa ciò che sei. Muoversi, ridere, seguire i propri impulsi… questo ti costituisce. Sono sempre stata incapace di rispettare l’intellettualità, una cosa artificiale che non ha la magia della sensualità. D’altra parte, pensare e fare [fine p. 409] per me è un tutt’uno. Non posso dividere lo spirito dal corpo. E succede, d’altronde, che si comprenda prima col corpo ciò che è negativo e non avrà mai la nostra approvazione. Non è quindi il cervello che conosce (la cultura, il pensiero, tutte le forme scritte, ratificate) ma la totalità dell’essere.

La tradizione cerca di impedire alla donna di fare quello che le suggerisce il suo corpo. E il corpo sociale porta un giudizio negativo sulla nostra libertà, la nostra capacità di evolvere al di fuori degli schemi. La chiarezza su ciò che viviamo è più importante della valorizzazione di ciò che sappiamo. Bisogna fare in modo che il mentale non ci tolga i momenti vitali, che diventi una fissazione, una forma di rigidità, di elucubrazione intensiva. Rifiuto il femminismo che si allontana dalla mia idea di sensualità. Allo stesso modo non accetto al mio fianco la presenza di un uomo, elemento di appesantimento, di stagnazione. L’uomo non deve inquinare l’aria. Voglio abbandonarmi alle mie sensazioni in libertà, fuori dalla vita coniugale, fuori da relazioni fisse. Sono io che decido dei miei desideri.

Ho capito fin da giovane, per via di mio fratello, che è l’uomo che invidia i nostri movimenti, la nostra libertà, e non viceversa. Era mio fratello che mi diceva: «No, questo non puoi farlo perché sei una femmina». Era lui quindi che invidiava me. Era geloso di tutte le forme di attrazione che potevo esercitare. Era geloso degli uomini che attiravo. Considerava la sensualità come una novità che sfuggiva completamente al suo [fine p. 410] programma mentale. Io la vivevo, la vivevo, ne impregnavo a tal punto l’aria intorno a me che gli uomini si agitavano molto e mio fratello reagiva come un cavallo ombroso. Prigioniero del suo stesso moralismo. Infatti l’uomo ha sempre manifestato ostilità verso la nostra sensualità. Io la vivevo genericamente e non in funzione di una sola persona. E ho capito subito che la mia sensualità attirava e allo stesso tempo intimoriva. È quella sensualità che mi è propria che voglio vivere. E a mio parere, per far vacillare l’organizzazione patriarcale non è necessario aspirare a posizioni maschili, ma cercare prima di tutto questa realizzazione dei sensi. E con questo intendo la necessità di seguire i desideri organici, tutti gli stimoli positivi. Soprattutto, non bisogna imitare gli uomini, che non vivono nulla di ciò che è corporale. L’uomo e i suoi portavoce hanno sempre boicottato la sensualità. Credo che la sensualità sia l’unica strada che abbiamo per uscire dal tunnel della cultura. Perché là l’uomo non c’è più. Io lo vedo, ma lui non si fa vedere. Come “persona”, è inesistente. Crede di essere presente dappertutto, ma non lo è. Da millenni è assente, tuttavia è l’occhio. Sì, come definirlo, una specie di voyeur? Lui vede, ma gli sfugge tutto. E il modo che ha di rappresentarmi, per quanto “offensivo”, non mi riguarda. La mia forza consiste nel non riconoscermi nel suo modo di rappresentarmi. Avendo il senso della mia esistenza, della mia persona, so che su di me si sbaglia. Ciò che descrive è in realtà se stesso, la sua paura. Ed è per paura che ci reifica, rendendoci oggetti. E’ perché è esasperato dal nostro dinamismo, dal nostro dire, dalla nostra libertà, che fornisce di noi un’immagine che non ci rappresenta. Per paura schematizza, rinchiude, semplifica.

 

IV

«Il problema della longevità è all’origine di tutto il nostro sistema. L’elemento che ha complicato lo sviluppo della “coesistenza o con-vivenza” è la longevità umana. Un fenomeno generalmente sottostimato. Il fatto è che in passato era soltanto qualche uomo, vecchio, a detenere il potere. In origine la popolazione era formata da donne molto giovani, che morivano di parto o subito dopo, e da uomini che invecchiavano, sclerotizzati. Che tipo di coesistenza poteva venir fuori dalla presenza di questi due gruppi? Gli abbiamo dato l’aggettivo “patriarcale”, ma io vorrei cambiare questa parola che dà all’uomo la sensazione gratificante di essere pater. In effetti è un mondo in cui l’uomo, vecchio, ha lasciato maturare una serie di paure. Perde le forze fisiche e vede sparire i suoi slanci, i suoi impulsi. È sempre più sclerotizzato e messo a confronto con la vitalità delle giovani donne. Ha soltanto un desiderio: controllare questa vitalità, questa giovinezza, anche facendone un feticcio. La società dei saggi è questo: pochi vecchi che hanno pieno potere sulle giovani donne, destinate a morire di parto, e su tutti gli uomini giovani. I vecchi sono i codificatori. E con la loro testa condannano gli impulsi vitali. I vecchi fanno le leggi. Quantitativamente erano i più numerosi, ora è il contrario. La longevità delle donne è un fatto positivo, destinato a modificare i rapporti». [fine p. 412]


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