1977, Michèle Causse e Maryvonne Lapouge – Ecrits, voix d’Italie: Patrizia Cavalli

Michèle Causse e Maryvonne Lapouge, 1977. «Patrizia Cavalli», in Ecrits, voix d’Italie, Paris: Éditions des femmes, pp. 184-193.


Traduzione di “McQueen” per LesWiki.
Ecrits, voix d’Italie – Indice e note

 


Patrizia Cavalli

Nata a Todi, città di provincia italiana, nel 1947. Ha completato gli studi a Roma, dove risiede. Le mie poesie non cambieranno il mondo è la sua prima raccolta pubblicata. E’ Amelia Rosselli che ci ha invitate ad incontrare Patrizia, ritenendone interessanti le poesie.

Di tutti gli incontri, quello che abbiamo avuto con Patrizia Cavalli è stato il più “selvaggio”. Non ci conoscevamo. Lei ci aspettava alla finestra, con un gran sbracciarsi per evitare che sbagliassimo piano. Di primo acchito si è dimostrata spontanea, eloquente, senza preoccuparsi dell’immagine che poteva dare di sé stessa.

Mentre l’intervista, una volta trascritta, dà di Patrizia un’immagine tormentata, speculativa, dolorosa, i suoi discorsi sono stati, al contrario, punteggiati da risate,  interruzioni,  carezze alla gatta, silenzi svogliati ed entusiasmi improvvisi.

Poesia e amore sono, dice, i suoi due poli di interesse. La sua esistenza o, per meglio dire, la sua rarefazione dell’esistenza (al tempo stesso pigra e terrorizzata) si tesse tra questi due poli “problematici”, consentendole di scrivere e di amare. [fine p. 184]

 


Nota LesWiki: Le poesie che qui compaiono insieme al testo a fronte in francese, erano state pubblicate nel libro di Patrizia Cavalli Le mie poesie non cambieranno il mondo, 1974 e si trovano anche in Patrizia Cavalli, 1992. Poesie (1974-1992), Torino: Einaudi, rispettivamente alle pp. 53, 40, 30, 31, 58, 24. In Francia sono usciti: Patrizia Cavalli, 2007. Mes poèmes ne changeront pas le monde, édition bilingue, traduit de l’italien par Danièle Faugeras et Pascale Janot, préface de Giorgio Agamben. Paris: éditions Des femmes – Antoinette Fouque, e: Patrizia Cavalli, 2002. Toujours ouvert Théâtre, traduit en français par René de Cecatty. Paris: éditions Rivages.

 Poesie

Quante tentazioni attraverso nel percorso tra la camera
e la cucina, tra la cucina
e il cesso. Una macchia
sul muro, un pezzo di carta
caduto in terra, un bicchiere d’acqua
un guardare dalla finestra ciao alla vicino,
une carezza alla gattina.
Cosi dimentico sempre l’idea principale, mi perdo
per strada, mi scompongo
giorno per giorno ed è vano tentare qualsiasi ritorno

E sempre dovrò partire
e fare i bagagli
e permettere al mio poco corpo
una corsa che non gli si addice
e prolungare gli inganni e demente
rincorrere tutte le storie anche quelle
che avrebbero preferito un silenzio.
Ma valorose sono le partenze
anche se un imbarazzo spesso le consuma.

E chi potrà più dire
che non ho coraggio, che non vado
fra gli altri e che non mi appassiono?
Ho fatto uno fila di quasi [fine p. 186]
mezz’ora oggi alla posta;
ho percorso tutta la fila passetto
per passetto, ho annusato
gli odori atroci di maschi
di vecchi e anche di donne, ho sentito
mani toccarmi il culo spingermi
il fianco. Ho riconosciuto
la nausea e l’ho lasciata là
dov’era, il mio corpo
si è riempito di sudore, ho sfiorato
una polmonite. Non d’amore di me
si tratta, ma orrore degli altri
dove io mi riconosco.

 

Non ho seme da spargere per il mondo
non posso inondare i pisciatoi né
i materassi. Il mio avaro seme di donna
è troppo poco per offendere. Cosa posso
lasciare nelle strade nelle case
nei ventri infecondati? Le parole
quelle moltissime
ma già non mi assomigliano più
hanno dimenticato la furia
e la maledizione,
sono diventate signorine
un po’ malfamate forse
ma sempre signorine.

Poco di me ricordo [fine p. 188]
io che a me ho sempre pensato.
Mi scompaio come l’oggetto
troppo a lungo guardato.
Ritornerò a dire
la mia luminosa scomparsa.

L’educazione permette di mangiare
con educazione e permette
altre cose; ma se vuoi volare
le ali si hanno o non si hanno.
Eternità e morte insieme mi minacciano
nessuna delle due conosco
nessuna delle due conoscerò.

[fine p. 190]


Intervista [a Patrizia Cavalli]


Qui non c’è nessuna parola. C’è uno spazio bianco. Un silenzio. Silenzio dovuto all’effetto secondario dell’io che censura l’io.
Dato che il primo effetto era stato, all’inizio, questa parola “debordante”.
Al corpo dell’ascolto rispose il corpo del dire. Con il no finale che cade come una mannaia.
Amelia Rosselli, Patrizia Cavalli  erano state donne-di parola (lontane da quella verbosità che sarebbe, dicono, appannaggio nostro). Generose, prodighe, parlavano. Parole gettate, lanciate e immediatamente riacchiappate.
Capire il perché.
L’una e l’altra invocano, a cose fatte, il disgusto nei confronti dell’elemento autobiografico e dell’aneddoto. Eppure le loro poesie non sono la loro l’autobiografia? Certo.
Abbiamo qui due esseri che non si vogliono se non nel loro fare. Si riconoscono ormai soltanto nella riuscita del proprio fare. Una riuscita in qualche modo ufficiale, ufficializzata, rassicurante. E irrigidita. Farle parlare significa renderne mobile l’immagine. Significa produrre una dissolvenza, un effetto sorpresa, un’incompiutezza. Ed è appunto questo che loro, le poete, non sopportano.
Indubbiamente hanno dipanato molte parole. Ma nello stesso istante le bruciano. Una carbonizzazione sontuosa, tutta fuoco e scintille, [fine p. 191] lava e cenere. Ma a combustione avvenuta, appagato il bisogno di parlare (provocato dal corpo d’ascolto), la donna poeta volta le spalle a questa trappola” immonda” che è la spontaneità, nemica da abbattere, colpa o leggerezza imperdonabile. E farà in modo che non rimanga traccia di questa “debolezza” che è la parola.
Effettivamente, per chi lavora nella rarefazione, la squadratura, la precisione e l’economia, la parola che viene elargita, che sfugge, è oscena. Nuda di una nudità primigenia e, infallibilmente, generica. Che dice: la desolazione, l’amore, la pazzia, la malattia, “il mestiere di vivere”. In breve, dice tutto. E, per un caso che non è un caso, la parola della donna poeta è la più dirompente che ci sia. E’ un rombo di tuono. Pone domande anche e soprattutto quando sragiona. E quando dopo torna il silenzio, esso non ha più la stessa densità. Una femminilità che si diffonde, percorrendone i meandri, non tanto in lei, corpo del dire, ma nell’altro corpo, quello dell’ascolto. Del quale però lei, la donna poeta, non si cura.
Lei, per stessa, è il proprio miracolo (mistero?). Ed è opportuno lasciarle questa gioia che, in effetti, è sua. Gode del più sottile degli incontri con sé stessa. E qui il “dono di sé” non avrà luogo, ammesso che avvenga, se non attraverso il filtro che scelto da lei. E che non sarà la parola.
Poiché la parola, lo ripetiamo, la manda fuori di sé. Perché non desidera coincidere che con il proprio fare (scrivere). Messo a confronto con la trascrizione della propria parola, il corpo del dire si indurisce come il cuoio, si affligge e si turba, Non riconoscendosi più, non permetterà mai che lo si conosca [fine p. 192] attraverso l’immediatezza della parola (giudicata fallace).
Effetto della femminilità? Donna torturata all’idea dello sguardo altrui sul proprio essere? Donna che sopravvaluta la propria immagine e che, pertanto, si disprezza? Certamente… anche questo.
La cultura ha fatto un mito della pratica della scrittura. Della pratica della parola la  cultura ha fatto un ghetto. Come stupirsi, quindi, che una donna neghi alle altre donne ciò in cui non vede né il valore catalizzante, né la forza mobilitatrice, né il potere di denuncia? La parola parlata per lei è perdita, dispersione…
Che un anonimo corpo di ascolto, praticamente sconosciuto, abbia potuto godere del privilegio, di conseguenza “insensato”,  di una parola rivelatrice è una contraddizione solo apparente, dal momento che proprio di una questione di corpo si tratta. Presenza, simpatia, empatia, fusione dell’ascolto e del dire. Corpi che si portano l’uno verso l’altro. Corpi che portano e subito scompaiono mentre sulla pagina ormai scritta rimane soltanto questa enormità che è una vita, questa banalità che è il fatto.
Se la donna poeta se ne distoglie è perché non ne vede alcuna utilità storica. La sua storia personale non è che il concime grazie al quale coltiva la propria differenza. [fine p. 193]


http://www.leswiki.it/repository/testi/voix/1977causse-cavalli.doc

 

 

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