1985, Adrienne Rich – Eterosessualità obbligatoria ed esistenza lesbica

Adrienne Rich, 1985. «Eterosessualità obbligatoria ed esistenza lesbica», DWF (donnawomanfemme), n. 23-24, pp. 5-40.

“Compulsory Heterosexuality and Lesbian Existence, fu pubblicato in  Signs: Journal of Women in Culture and Society, Summer 1980, 5(4): 631-60 e successivamente, con una prefazione dell’autrice, in: Journal of Women’s History, Autumn 2003, 15(3): 11-48.

In Italia questo saggio era precedentemente apparso in versione ridotta nei numeri 3 e 4 di Effe (marzo e aprile 1981). Le note, nell’originale italiano a piè di pagina, sono state spostate a fine testo; quando per errore di stampa nel saggio in italiano mancavano i riferimento alle note, questi ultimi sono state posizionati andando a senso. La traduzione per DWF è di Maria Luisa Moretti; la trascrizione per il LesWiki di N.M.


Dal punto di vista biologico, gli uomini hanno un unico orientamento innato: quello sessuale che li spinge verso le donne; mentre le donne ne hanno due: uno sessuale nei confronti dell’uomo e uno riproduttivo nei confronti della prole(1).

 Ero una donna terribilmente vulnerabile, polemica, che usava la femminilità come una specie di metro per misurare o scartare gli uomini. Si, qualcosa del genere. Ero un’Anna che chiedeva di essere sconfitta dagli uomini, anche se non ne ero conscia. (Ma io ne ho coscienza. E averne coscienza significa lasciarmi dietro tutto questo e diventare… che cosa?) Fui presa da uno stato d’animo comune alle donne del nostro tempo, che può renderle amare, lesbiche o misantrope. Si, Anna in quel periodo ero… [un’altra linea nera attraversa la pagina](2)

Altri esempi tratti da numerosi testi, oltre ai due appena citati, potrebbero essere addotti a testimonianza del pregiudizio derivante dall’istituzionalizzazione dell’eterosessualità per cui l’esperienza lesbica viene inscritta in un ambito che va dal deviante all’aberrant o, più sbrigativamente, resa invisibile. Le affermazioni della Rossi secondo cui le donne sarebbero «per natura orientate sessualmente» verso gli uomini, o quella della Lessing che considera la scelta lesbica semplicemente una reazione all’amarezza provata con gli uomini, [inizio pag.6] non sono affatto peculiari di queste due autrici, ma sono ampiamente diffuse nella letteratura e nelle scienze sociali.

      In questa occasione mi interessa sviluppare altri due aspetti, cioè:
a) come e perché la scelta di una donna di condividere con una sua simile passione, vita, lavoro, di avere donne come amanti e come proprio gruppo di riferimento, è stata soffocata, annullata, respinta nell’ombra e costretta a dissimularsi;
b) il silenzio pressoché totale sull’esistenza lesbica da parte di un’ampia gamma di scritti, compresi quelli accademici femministi.

      La connessione tra i due aspetti mi sembra ovvia e ritengo che gran parte della elaborazione teorica e critica delle femministe si sia arenata su questa secca.
Alla base del mio ragionamento c’è la convinzione che l’esistenza di studi lesbici specifici non può costituire un alibi per il pensiero femminista: qualsiasi teorizzazione o produzione politico-culturale che tratti dell’esistenza lesbica come di un fenomeno marginale o «meno naturale»; o come di un fatto di «preferenza sessuale» pura e semplice, o ancora come immagine speculare dei rapporti eterosessuali o omosessuali maschili, perde credibilità alla base, indipendentemente da eventuali altri meriti. La ricerca teorica femminista non può più limitarsi ad esprimere tolleranza per il «lesbismo» in quanto «stile di vita alternativo» o fare riferimenti meramente rituali alle lesbiche. E ormai tempo di elaborare una critica femminista dell’orientamento eterosessuale imposto alle donne, ed in questo saggio cercherò di dimostrare il perché.

      Inizierò con alcuni esempi: una breve analisi di quattro libri pubblicati negli ultimi anni, scritti da punti di vista e con orientamenti politici diversi, ma che si presentano come portatori di una visione femminista e come tali sono stati favorevolmente accolti(3). Questi studi partono tutti dal presupposto che le relazioni sociali fra i sessi sono confuse ed estremamente problematiche, se non addirittura mutilanti, per le donne, ed in ciascuno di essi si tenta di individuare possibili vie per trasformarle. Alcuni di questi studi mi sono stati certo più utili di altri, ma di una cosa sono certa: tutti ne avrebbero guadagnato in termini di accuratezza, autorevolezza ed incisività se solo le autrici avessero sentito l’obbligo di parlare dell’esistenza lesbica [inizio pag. 7] in quanto realtà e fonte di conoscenza e di potere a disposizione delle donne: oppure di parlare dell’istituzionalizzazione dell’eterosessualità come una testa di ponte della supremazia maschile(4). In nessuno di questi studi invece ci si pone la domanda se le donne, in un contesto diverso o a parità di condizioni con l’uomo, sceglierebbero l’accoppiamento eterosessuale e il matrimonio; in maniera implicita o esplicita, si dà per scontato che l’eterosessualità sia la «scelta sessuale» della «maggior parte delle donne». In nessuno di questi libri che trattano del ruolo materno, di ruoli sessuali, di rapporti e veti sociali alle donne, si analizza l’obbligo all’eterosessualità in quanto istituzione che condiziona pesantemente tali aspetti, né si avanzano dubbi, neppure indiretti, sul concetto di «scelta» o di «orientamento innato».

      Nel libro For Own Good: 150 Years of the Expert’s Advice to Women, Barbara Ehrenreich e Deirdre English sviluppano i temi di due loro magnifici pamphlets precedenti, Witches, Midwives and Nurses: a History of Women Healers e Complaints and Disorders: the Sexual Politics of Sickness e ne fanno uno studio complesso e stimolante. La loro tesi è che i consigli dati alle donne americane dagli operatori sanitari maschi, soprattutto per quanto riguarda l’esercizio del sesso [inizio pag. 8] nell’ambito del matrimonio, la maternità e l’allevamento dei figli, fossero in sintonia con gli imperativi del contesto economico e con il ruolo produttivo e/o riproduttivo delle donne, necessario alle esigenze del capitalismo. Le donne sono state in varie epoche fruitrici-vittime di innumerevoli cure, terapie e norme (compresa quella imposta alle borghesi di simboleggiare e custodire la sacralità della casa, la romanticizzazione scientifica della casa). Nessuno di questi consigli degli «esperti» aveva una specifica base scientifica o una particolare attenzione alle esigenze delle donne; tutti rispecchiavano invece i bisogni degli uomini, le loro fantasie sulle donne e il loro interesse a controllarle — soprattutto nel campo della sessualità e della maternità — il tutto strettamente legato alle esigenze del capitalismo industriale. Il libro è così ricco di informazioni demolitrici e di lucido, intelligente acume femminista che mentre lo leggevo ero costantemente in attesa del momento in cui sarebbe stato preso in esame il divieto di base contro il lesbismo, ma quel momento non è mai arrivato.

      E’ improbabile che ciò sia dovuto a mancanza di informazione. In Gay American History(5), Jonathan Katz scrive che fin dal 1656 nella New Haven Colony era prevista la pena di morte per le lesbiche e fornisce una documentazione stimolante ed istruttiva sul «trattamento» (o tortura) loro riservato da parte dei medici nel XIX e XX secolo. In un suo recente lavoro, la storica Nancy Sahli scrive che al volgere del XX secolo fu imposta una decisa restrizione alle amicizie troppo intense fra le donne, nei colleges(6). L’ironia del titolo del libro di Barbara Ehrenreich e di Deirdre English, For Her Own Good (Per il suo bene) è forse riferita innanzitutto all’aspetto economico dell’imperativo alla eterosessualità; al matrimonio e alle sanzioni imposte alle nubili e alle vedove, considerate un tempo, come tuttora, delle devianti. Tuttavia in questa rassegna spesso illuminante delle ricette maschili per la salute fisica e mentale delle donne manca proprio l’analisi, da parte delle autrici, femministe marxiste, dell’aspetto economico dell’obbligo all’eterosessualità(7). [inizio pag.9]

      Dei tre libri che trattano di psicoanalisi, quello di Jean Baker Miller, Toward a New Psychology of Women, è scritto come se le lesbiche semplicemente non esistessero, neppure come individui marginali, e, visto il titolo del libro, ciò mi lascia stupefatta. Tuttavia, le recensioni positive che il libro ha avuto sulle riviste femministe, compresa «Signs» e «Spokeswoman», fanno pensare che le posizioni eterocentriche della Miller siano ampiamente condivise. In The Mermaid and the Minotaur: Sexual Arrangements and the Human Malaise, Dorothy Dinnerstein sostiene e propugna appassionatamente la necessità che uomo e donna condividano la responsabilità dei figli e che sia posta fine a quella che, a suo parere, è la simbiosi maschio/femmina degli «accomodanti compromessi fra i sessi», che a suo avviso stanno portando la specie verso una violenza crescente e l’autoestinzione. A parte una serie di altri problemi che questo libro mi pone (compreso il suo passare sotto silenzio il cieco terrorismo istituzionale esercitato storicamente dagli uomini sulle donne — e i bambini — ampiamente documentato dalla Barry, Daly, Russel e Van de Ven, e Brownmiller(8), nonchè la sua mania di voler dare una lettura unicamente psicologica della realtà, a scapito degli elementi economici e materiali che concorrono a creare quella realtà psicologica), a parte questo, dicevo, trovo essenzialmente astorica la visione della Dinnerstein secondo la quale i rapporti fra donne e uomini sarebbero rapporti di «collaborazione per mantenere la follia della storia», cioè per perpetuare rapporti sociali che sono di ostilità, sfruttamento e distruzione della vita stessa.

      L’autrice considera le donne e gli uomini come partners paritari nello stabilire «accomodanti compromessi fra i sessi», dimenticando evidentemente le numerose lotte di resistenza all’oppressione (nostra e altrui) messe in atto dalle donne per cambiare la nostra condizione. Ignora in particolare la storia di quelle che — come streghe, femmes seules, renitenti al matrimonio, zitelle, vedove autosufficienti e/o lesbiche — sono riuscite su vari piani a non collaborare. Ed è proprio questa la storia da cui le femministe hanno tanto da imparare e su cui è steso un generale velo di silenzio. La Dinnerstein ammette, alla fine del suo libro, che «il separatismo delle donne», [inizio pag. 10] sebbene «largamente impraticabile su ampia scala e per lunga durata», ha qualcosa da insegnarci: «separate, le donne potrebbero in teoria cominciare ad imparare da zero — non fuorviate dalle possibilità di sottrarsi a tale compito offerte finora dalla presenza maschile — che cosa sia un’umanità intatta e autocreativa»(9).

      Espressioni quali «umanità intatta e autocreativa» offuscano la domanda di quale fosse il reale obiettivo delle varie forme di separatismo femminile. La verità é che in ogni cultura e in ogni epoca storica vi sono state donne che hanno vissuto una esistenza indipendente, non eterosessuale ed in stretto rapporto con le loro simili, ovviamente nella misura consentita dal contesto sociale e spesso convinte di essere le «uniche» ad agire in quel modo. E hanno scelto di farlo, sebbene poche siano state in condizioni economiche tali da potersi permettere di rifiutare il matrimonio e nonostante che il trattamento riservato a quelle non sposate andasse dalla calunnia alla derisione, al genocidio deliberato, compresi la tortura e il rogo di milioni di vedove e zitelle durante la caccia alla streghe nel XV, XVI e XVII secolo in Europa e la pratica del suttee nei confronti delle vedove indiane(10).

      Nel suo libro The Reproduction of Mothering, Nancy Chodorow si avvicina in effetti al limite del riconoscimento dell’esistenza lesbica; come la Dinnerstein anche lei é convinta che, poiché nella divisione sessuale del lavoro la responsabilità dell’allevamento dei figli é affidata unicamente alle donne, ciò ha dato origine ad un’organizzazione sociale basata nel suo complesso sulla disuguaglianza fra i sessi, e che tale disuguaglianza potrà essere eliminata solo se anche gli uomini si assumeranno tale compito fondamentale. Nell’esaminare da un punto di vista psicoanalitico l’influenza che le cure materne hanno sullo sviluppo psicologico dei figli di entrambi i sessi, essa ci dimostra che gli uomini sono «emozionalmente secondari» nella vita delle donne e che le «donne hanno un mondo interiore più ricco cui fare riferimento… dal punto di vista emotivo gli uomini non rivestono per le donne la medesima importanza che queste rivestono per loro»(11). Ciò trasferirebbe nella nostra epoca le scoperte della Smith-Rosenberg sulla centralità emotiva delle donne per le donne nel XVIII e XIX secolo. «Centralità emotiva» può ovviamente riferirsi sia all’ira che all’amore, oppure a quella intensa mescolanza dei due [inizio pag. 11] sentimenti che spesso si riscontra nei rapporti fra donne — un aspetto, questo, di ciò che sono arrivata a definire «la doppia vita delle donne», come vedremo più avanti.

      La Chodorow conclude che, poiché le madri sono donne, «la madre resta per la bambina un oggetto [sic] interno primario, così che i rapporti eterosessuali si basano per lei su un modello di rapporto secondario e non esclusivo, mentre nel bambino essi ricreano un rapporto primario esclusivo». Secondo la Chodorow le donne «hanno appreso, per ragioni sia psicologiche che pratiche, a negare i limiti degli amanti maschi»(12).

      Si sorvola però su queste ragioni pratiche (quali la caccia alle streghe, il controllo maschile della legge, della teologia e della scienza o l’impossibilità di sopravvivenza economica all’interno della divisione sessuale del lavoro). Il resoconto della Chodorow accenna di sfuggita alle limitazioni ed alle sanzioni che storicamente sono servite ad imporre o ad assicurare l’accoppiamento delle donne con gli uomini e ad impedire e punire la nostra unione con una donna o l’alleanza in gruppi indipendenti con altre donne. L’autrice liquida l’esistenza lesbica commentando che «i rapporti lesbici tendono effettivamente a ricreare emozioni e connessioni del rapporto madre-figlia, ma la maggioranza delle donne è eterosessuale» (sottintendendo: più mature, che hanno superato il rapporto madre-figlia) ed aggiunge: «Questa preferenza per l’eterosessualità ed i numerosi tabù sull’omosessualità, in aggiunta all’oggettiva dipendenza economica dall’uomo, rendono improbabile la scelta di legami sessuali primari con altre donne — anche se è una scelta alquanto più diffusa negli ultimi anni»(13). La rilevanza di quest’ultima affermazione dovrebbe stimolare ulteriori indagini, ma la Chodorow lascia cadere l’argomento. Intende forse dire che l’esistenza lesbica è divenuta più visibile negli anni più recenti (in certi ambienti?), che le pressioni economiche o di altra natura sono cambiate (nel capitalismo, nel socialismo o in entrambi?) e che perciò un numero sempre maggiore di donne sta rifiutando la «scelta» eterosessuale? L’autrice sostiene che le donne desiderano avere figli perché i loro rapporti eterosessuali mancano di ricchezza e di intensità e che attraverso l’esperienza della maternità la donna cerca di ricreare l’intenso legame avuto con la propria madre. Sulla base delle sue stesse scoperte, sembrerebbe che la Chodorow voglia portare implicitamente a concludere che l’eterosessualità non è una «scelta» [inizio pag. 12] delle donne, infatti essa scinde, in primo luogo, l’erotico dall’emotivo in un modo che comporta impoverimento e sofferenza per le donne. Eppure il suo libro contribuisce a mantenere l’imperativo dell’eterosessualità.

      Omettendo di parlare della socializzazione sotterranea e delle forze esplicite che hanno incanalato le donne verso il matrimonio e l’amore eterosessuale, pressioni che vanno dalla vendita delle figlie all’economia post-industriale, ai silenzi della letteratura e alle immagini televisive, la Chodorow, come la Dinnerstein va ad impelagarsi nel tentativo di riformare una istituzione maschile — l’eterosessualità obbligata — quasi esistesse una inclinazione eterosessuale di natura mistico/biologica, una «preferenza» o «scelta» che spinge le donne verso gli uomini nonostante i potenti impulsi e le complementarità emotive che spingono le donne verso le donne.

      Si dà inoltre per scontato che tale «scelta» non richieda spiegazioni salvo la tortuosa teoria del complesso edipico femminile o quella della necessità della riproduzione della specie, mentre sarebbe la sessualità lesbica (solitamente e scorrettamente «inclusa» nell’omosessualità maschile) a dover essere spiegata. Questa presunzione del fatto che la sessualità femminile sia eterosessuale mi sembra un dato in sé degno di nota: è qualcosa di enorme che è scivolato silenziosamente fin nelle fondamenta del nostro pensiero.

      Un esempio della diffusione di tale presunzione è dato dall’argomentazione corrente che in un mondo di veri uguali, in cui gli uomini non siano oppressivi e si curino della propria prole, ciascuno sarebbe bisessuale; è un concetto che obnubila e consegna al sentimentalismo le reali condizioni nelle quali le donne hanno sperimentato la sessualità. E il vecchio vizio «liberal» di scavalcare i compiti e le lotte del qui ed ora; è l’idea di un processo costante di definizione sessuale che genererà le proprie potenzialità e le proprie scelte. (Ciò presuppone anche che la scelta delle donne di stare con le donne dipende semplicemente dal fatto che gli uomini sono oppressivi e non disponibili emotivamente: il che non tiene conto tuttavia di quelle donne che continuano ad intessere rapporti con uomini oppressivi e/o insoddisfacenti dal punto di vista emotivo). La mia opinione è che l’eterosessualità, come la maternità, deve essere considerata ed analizzata in quanto istituzione politica anche da coloro, o meglio, proprio da coloro che, in base alla loro esperienza personale, ritengono di essere i precursori di nuove relazioni sociali fra i sessi.

II

      Se le donne sono la prima fonte di nutrimento emotivo e fisico per la prole di entrambi i sessi, sembrerebbe logico — da un punto [inizio pag. 13] di vista femminista almeno — porsi le seguenti domande: se la ricerca d’amore e di tenerezza di entrambi i sessi non si rivolge originariamente alle donne, perché mai le donne dovrebbero dare un nuovo indirizzo a tale ricerca, perché mai dovrebbe esistere un così rigido legame fra la sopravvivenza della specie, i mezzi della fecondazione e i rapporti erotici/emotivi e perché tanta violenza censoria dovrebbe essere necessaria per imporre la lealtà e l’asservimento totali, emotivi ed erotici, delle donne agli uomini. Dubito che vi sia un numero significativo di teoriche ed accademiche femministe che si siano date la pena di individuare le costruzioni sociali che distolgono le energie emotive ed erotiche delle donne da se stesse e dalle loro simili e da valori femminili. Queste considerazioni spaziano — come cercherò di dimostrare — letteralmente, dalla schiavitù fisica, alla dissimulazione, alla deformazione di possibili opzioni diverse.

      Personalmente, non ritengo «motivo sufficiente» a dar conto dell’esistenza lesbica il fatto che siano le donne a «fare da madre», ma questo tema é stato molto discusso negli ultimi tempi, associato di solito all’opinione che una maggiore partecipazione degli uomini nell’allevamento dei figli ridurrebbe l’antagonismo fra i sessi, riequilibrando la disparità di potere sessuale degli uomini rispetto alle donne. Questo dibattito viene condotto senza tenere in alcun conto il fenomeno, e tanto meno l’ideologia, dell’istituzionalizzazione dell’eterosessualità.

      Non intendo fare qui della psicologia, ma piuttosto svelare le fonti del potere maschile; ritengo infatti che una partecipazione massiccia degli uomini all’allevamento della prole non porterebbe alcun cambiamento radicale nell’equilibrio del potere maschile in una società che si riconosce nei valori maschili.

      Nel suo saggio L’origine della famiglia, Kathleen Gough elenca otto caratteristiche del potere maschile nelle società arcaiche e contemporanee su cui vorrei basarmi: «la capacità degli uomini di negare alle donne la sessualità o di forzarla verso quella maschile; di disporre o sfruttare il loro lavoro al fine di controllarne i prodotti; di avere il controllo sui figli o di sottrarglieli; di confinarle fisicamente e impedirne i movimenti; di usarle come oggetti di transazioni maschili; di tarpare la loro creatività o di impedirne l’accesso ad ampie aree del sapere sociale e delle acquisizioni culturali»(14). (La Gough non ritiene [inizio pag. 14] che queste forme di potere servano specificamente ad imporre l’eterosessualità, ma solamente a creare l’ineguaglianza sessuale). Le caratteristiche del potere maschile comprendono: (le frasi in corsivo sono della Gough; quelle in parentesi quadre [NdR: qui tra parentesi graffe] sono le mie elaborazioni di ciascuna delle sue categorie).

      1. Negare alle donne il diritto alla {nostra} sessualità {attraverso la clitoridectomia e l’infibulazione; le cinture di castità; forme di punizione, compresa la pena di morte, per l’adulterio femminile; forme di punizione, compresa la morte, per la sessualità lesbica; negazione psicoanalitica della clitoride, biasimo censorio contro la masturbazione; negazione della sessualità in gravidanza e in menopausa; isterectomia non necessaria; diffusioni di immagini pseudo-lesbiche attraverso i media e la letteratura; chiusura di archivi e distruzione di documenti relativi all’esistenza lesbica};
2. o imporla {la sessualità maschile} loro {attraverso lo stupro — compreso quello coniugale — e le percosse nell’ambito coniugale; incesto dei padri sulle figlie, dei fratelli sulle sorelle; l’educazione impartita alle donne a considerare che «la spinta» sessuale maschile equivale ad un diritto(15); idealizzazione dell’amore eterosessuale nell’arte, nella letteratura, nei media, nella pubblicità etc..; matrimoni con spose bambine; matrimoni combinati; prostituzione; harem; teorie psicoanalitiche sulla frigidità e l’orgasmo vaginale; immagini pornografiche di donne che provano piacere dalla violenza sessuale e dall’umiliazione — il cui messaggio subliminale è che il sadismo eterosessuale è più «normale» della sessualità fra donne};
3. comandare o sfruttare il loro lavoro al fine di controllarne i prodotti {attraverso l’istituzione del matrimonio e della maternità come produzione non retribuita; il relegamento ai livelli più bassi nel mondo del lavoro retribuito; la lusinga ingannevole della donna-simbolo che ha fatto carriera; il controllo maschile sull’aborto, la contraccezione e il parto; la sterilizzazione forzata; il lenocinio; l’uccisione delle bambine, che priva le madri delle figlie e contribuisce alla svalutazione generalizzata delle donne};
4. avere il controllo della loro prole e deprivarle di essa {attraverso il diritto paterno e «il rapimento legalizzato»(16); la sterilizzazione forzata; l’infanticidio sistematizzato; la sottrazione giuridica dei figli alle madri lesbiche da parte dei tribunali; i maltrattamenti colposi degli ostetrici maschi; l’utilizzazione della madre, quale «torturatrice [inizio pag. 15] simbolica»(17) nel praticare le mutilazioni genitali o nel fasciare i piedi (o la mente) della figlia per adeguarla al matrimonio};
5. tenerle confinate fisicamente e impedirne la libera circolazione {attraverso lo stupro come mezzo terroristico per impedirne la libera circolazione per le strade; il purdah; la fasciatura dei piedi; l’atrofizzazione delle capacità atletiche delle donne; codici di abbigliamento «femminile» dell’alta moda; il velo; le molestie sessuali per le strade; il relegamento ai livelli più bassi nel mondo del lavoro retribuito; la norma prescrittiva ad essere madri «a tempo pieno»; la dipendenza economica forzata delle mogli};
6. usarle come oggetto di transazione maschile {l’uso delle donne come «doni»; il prezzo della sposa; il lenocinio; i matrimoni combinati; l’impiego di donne come intrattenitrici per facilitare gli affari maschili, cioè la moglie/padrona di casa, le cameriere ben vestite per il titillamento sessuale maschile, ragazze squillo, «conigliette», geishe, prostitute di Kisaeng, segretarie};
7. tarpare la loro creatività {la caccia alle streghe come campagna contro le levatrici e le guaritrici e come pogrom contro le donne indipendenti e «non integrate»(18); maggiore valutazione in tutte le culture delle elaborazioni maschili, cosicché i valori culturali si identificano con la soggettività maschile; matrimonio e maternità quali uniche possibilità di autorealizzazione femminile; sfruttamento sessuale delle donne da parte di artisti e insegnanti; smembramento sociale ed economico delle aspirazioni creative delle donne(19); cancellazione della tradizione femminile}(20);
8. impedire l’accesso ad ampie aree del sapere sociale e delle acquisizioni culturali {attraverso la non scolarizzazione delle femmine (il 60% degli analfabeti nel mondo sono donne); il «Grande Silenzio» storico culturale sulle donne e in particolare sull’esistenza lesbica(21); gli stereotipi dei ruoli sessuali che tengono lontane le donne dalla [inizio pag. 16] scienza, la tecnologia e gli altri studi «maschili»; legami socio/professionali maschili che escludono le donne; discriminazione professionale delle donne}.

      Questi sono alcuni dei metodi mediante i quali si manifesta e si perpetua il potere maschile. Osservando lo schema presentato ciò che salta sicuramente agli occhi è il fatto che quel che abbiamo davanti non è semplicemente il mantenimento dell’ineguaglianza e della proprietà, ma un groviglio di forze con ramificazioni diffuse, che vanno dalla brutalità fisica al controllo delle coscienze, e ciò fa pensare all’esistenza di una enorme potenzialità di controforza da tenere a bada.

      Vi sono alcune manifestazioni di potere maschile intese ad imporre alle donne l’eterosessualità, più facilmente identificabili di altre, ma tutte quelle che ho elencato contribuiscono alla creazione di quel coarcervo di forze al cui interno le donne sono state convinte che il matrimonio e l’orientamento sessuale verso gli uomini sono componenti inevitabili della loro vita, benché insoddisfacenti o oppressive. La cintura di castità, le spose-bambine, la soppressione dell’esistenza lesbica (escluso se esotica e perversa) nell’arte, nella letteratura e nel cinema; l’idealizzazione dell’amore eterosessuale e del matrimonio — sono tutte forme abbastanza palesi di coercizione, le prime due come esempi di forza fisica, le seconde come controllo delle coscienze. Mentre la clitoridectomia veniva denunciata dalle femministe come una forma di tortura delle donne(22), Kathleen Barry per prima indicò che non si tratta semplicemente di una pratica di brutale chirurgia per trasformare una giovinetta in una donna «da marito»: il suo scopo è quello di impedire alle donne che vivono in stretta intimità nel matrimonio poligamo di instaurare rapporti sessuali fra loro(23); cioè:

—     partendo da un punto di vista maschile di feticizzazione genitale
—     i nessi erotici femminili, sia pure in una situazione di segregazione sessuale, vengono letteralmente recisi.

      Il ruolo di persuasore delle coscienze svolto dalla pornografia, è uno dei grossi temi di interesse generale del nostro tempo, soprattutto se si considera il potere di questa industria plurimiliardaria di diffondere immagini sempre più sadiche e degradanti della donna. Ma anche la cosiddetta pornografia softcore e la pubblicità presentano la donna come puro oggetto sessuale priva di spessore emotivo e di [inizio pag. 17] individualità o personalità: in pratica, una merce sessuale a disposizione dei maschi. (La cosiddetta pornografia lesbica creata per soddisfare il voyeurismo maschile, è anch’essa svuotata di ogni contesto emotivo e di personalità). Il messaggio più distruttivo lanciato dalla pornografia è che la donna è la naturale preda sessuale dell’uomo e che ama esserlo; che non vi è incompatibilità fra sessualità e violenza e che per le donne il sesso è masochista, la degradazione è piacevole e la violenza, fisica è erotizzante. Ma a questo messaggio se ne aggiunge un altro, spesso non percepito: che l’imposizione della sottomissione e il ricorso alla crudeltà, all’interno di rapporti eterosessuali, sono sessualmente «normali», mentre la sensualità fra donne, che va dallo scambio erotico al rispetto, è una cosa «strana», «malata» e/o pornografica in sé oppure non molto eccitante, se paragonata alla sessualità della frusta e delle catene(24). La pornografia crea non solamente un clima in cui sesso e violenza sono interscambiabili, ma amplia altresì la gamma dei comportamenti maschili che debbono considerarsi accettabili in un rapporto eterosessuale — comportamenti la cui costante è quella di privare la donna della sua autonomia, della dignità e del potenziale sessuale, compreso quello di amare ed essere riamata da altre donne in un rapporto di reciprocità e di interezza.

Nel suo libro, molto acuto, intitolato Sexual Harassment of Working Women: A Case of Sex Discrimination, Catharine A. MacKinnon descrive il nesso fra l’eterosessualità obbligata e l’economia. Nelle società capitalistiche le donne occupano una posizione strutturalmente inferiore nel mondo del lavoro e sono escluse dalla mobilità verticale sulla base del loro sesso, e questa non è certo una novità, ma la MacKinnon si chiede perché, ammesso che il capitalismo «necessita di gruppi di individui cui assegnare posizioni mal retribuite e prive di prestigio sociale…, tali individui debbano essere biologicamente femminili» e fa rilevare che «poiché i datori di lavoro maschi spesso non assumono personale qualificato femminile, anche quando potrebbero pagarlo meno del personale maschile, ciò comprova che ben altri elementi entrano in gioco, oltre il movente del profitto»(25) (corsivo mio). L’autrice fornisce un’ampia documentazione del fatto che le donne non solo sono relegate in lavori scarsamente retribuiti e di [inizio pag. 18] servizio (segretarie, domestiche, infermiere, dattilografe, centraliniste, maestre d’asilo, cameriere), ma anche che la «sessualizzazione della donna» fa parte integrante del lavoro. Vi e un elemento centrale ed intrinseco alla realtà economica della vita delle donne ed é la richiesta che esse «facciano mercato di seduzione sessuale con gli uomini : che generalmente detengono il potere economico e le posizioni sociali per imporre le loro scelte». Con una documentazione esaustiva, la MacKinnon dimostra che «le vessazioni sessuali perpetuano in un circolo vizioso, la struttura attraverso cui le donne sono state asservite all’uomo ai livelli più bassi del mercato del lavoro. Qui convergono due elementi della società americana: il controllo maschile sulla sessualità delle donne e il controllo del capitale sulla vita lavorativa dei dipendenti»(26). Sul lavoro, quindi, le donne sono alla mercé del sesso-come-potere, in un circolo vizioso. Svantaggiate dal punto di vista economico, esse — siano cameriere o docenti universitarie — devono sopportare le vessazioni sessuali per mantenere il posto di lavoro ed imparano a comportarsi secondo le regole eterosessuali del compiacere e dell’accattivare poiché capiscono che questo é l’unico requisito loro richiesto per ottenere un lavoro, qualunque ne siano le mansioni. E, continua la MacKinnon, chi oppone una ferma resistenza alle profferte sessuali sul lavoro viene accusata di «aridità» o di asessualità, oppure di lesbismo.

      Appare evidente qui la differenza fra l’esperienza delle lesbiche e quella degli omosessuali maschi. Una lesbica in incognito sul luogo di lavoro a causa del pregiudizio eterosessista non é solamente costretta a negare la realtà dei suoi rapporti esterni o della sua vita privata, deve anche fingere, se vuole mantenere il posto, non solo di essere eterosessuale ma una donna eterosessuale, in termini di abbigliamento e di assunzione del ruolo di femmina deferente che si compete ad una «vera» donna.

      La MacKinnon solleva interrogativi molto radicali rispetto alle differenze qualitative fra le vessazioni sessuali, lo stupro e i consueti rapporti eterosessuali. («Per utilizzare l’espressione di un imputato di stupro, egli non aveva impiegato ‘più forza di quanto normalmente ne usino gli uomini durante i preliminari’»). Critica Susan Brownmiller(27) perché pratica una cesura fra lo stupro e l’esperienza della vita quotidiana e perché muove dalla premessa, non verificata, che «lo stupro appartiene alla sfera della violenza mentre il rapporto [inizio pag. 19] sessuale appartiene alla sessualità», sottraendo tout-court lo stupro alla sfera sessuale. La sua argomentazione più decisiva è che «sottrarre lo stupro alla sfera ‘sessuale’ relegandolo in quella della `violenza’, consente all’individuo di condannare lo stupro senza doversi peraltro interrogare rispetto all’influenza che l’istituzione dell’eterosessualità ha avuto nel fatto che la componente della forza sia accettata come normale componente dei `preliminari’»(28); «Mai ci si interroga su quale significato possa avere, in condizioni di supremazia maschile, il concetto di ‘consenso’»(29).

      Il fatto è che il luogo di lavoro, al pari di altre istituzioni sociali, è uno spazio in cui le donne hanno imparato ad accettare, come prezzo da pagare per la sopravvivenza, la violazione da parte maschile dei nostri confini fisici e psichici; uno spazio in cui le donne sono state educate — in ugual misura dalla letteratura romantica e dalla pornografia — a vedere se stesse come preda sessuale. Una donna che tenti di evitare sia le possibili violazioni; che gli svantaggi economici, è comprensibile che si rifugi nel matrimonio come luogo della protezione sperata, ma senza portare alcun potere né sociale né economico all’interno del matrimonio, entrando perciò anche in questa istituzione in posizione svantaggiata. Infine la MacKinnon si chiede:

 E se l’ineguaglianza fosse inscritta nella concezione sociale della sessualità maschile e femminile, della mascolinità e femminilità, del fascino sessuale e dell’attrazione secondo i canoni eterosessuali? I casi di vessazione sessuale maschile fanno pensare che lo stesso desiderio maschile possa essere destato dalla vulnerabilità femminile… Gli uomini avvertono che sono in condizione di approfittare, perciò vogliono farlo, perciò lo fanno. Quando si analizzano le vessazioni sessuali si è obbligati, proprio perché gli episodi appaiono come dei luoghi comuni, a prendere atto del fatto che il rapporto sessuale ha luogo solitamente fra individui economicamente (e fisicamente) ineguali… Il requisito, apparentemente legale, per cui una violazione della sessualità femminile deve avere i caratteri della straordinarietà per poter essere punita, concorre ad impedire alle donne la definizione delle condizioni ordinarie del loro consenso.(30)

 [inizio pag. 20]

Vista la natura e la portata della pressione eterosessuale, la quotidiana «eroticizzazione della subordinazione femminile» per usare l’espressione della MacKinnon(31), io metto in dubbio l’interpretazione più o meno psicoanalitica (suggerita da studiosi quali Karen Horney, H. R. Hayes, Wolfgang Lederer e ultimamente Dorothy Dinnerstein) secondo cui il bisogno maschile di controllare la sessualità femminile è il risultato di una originaria «paura maschile della donna» e della insaziabilità sessuale femminile. Sembra più probabile che gli uomini temano, in realtà non l’eventualità di essere esposti agli appetiti sessuali femminili o di essere soffocati e divorati dalle donne, ma piuttosto l’eventualità dell’indifferenza femminile nei loro confronti e di poter avere accesso sessuale ed emotivo — e quindi economico — alle donne solo alle condizioni di queste, o in altre parole a condizione di non accesso alla penetrazione (fisica e simbolica)(*).

      Recentemente Kathleen Barry(32) ha analizzato in uno studio molto esauriente i mezzi che garantiscono l’accesso sessuale alle donne. L’autrice porta le prove, esaurienti e terribili, dell’esistenza su amplissima scala di una schiavitù internazionale della donna, l’istituzione meglio nota come «tratta delle bianche», ma che in realtà riguardava, e tuttora riguarda, donne di ogni razza e classe sociale. Nell’analisi teorica basata sulla sua ricerca, la Barry mette in relazione fra loro le varie forme coatte di vita in cui le donne vivono soggette all’uomo: prostituzione, stupro coniugale, incesto padre-figlia e fratello-sorella, percosse, pornografia, compravendita delle mogli, vendita delle figlie, purdah e mutilazioni genitali. Secondo la Barry, il paradigma della violenza sessuale — secondo cui la vittima dello stupro è ritenuta responsabile della propria vittimizzazione — consente la razionalizzazione e l’accettazione di altre forme di asservimento, in cui si presume ugualmente che sia la donna ad aver «scelto» la sua sorte, ad accettarla passivamente, o a perseguirla con comportamenti avventati o sfrontati. La Barry sostiene invece che «l’asservimento sessuale della donna è presente in tutte quelle situazioni in cui una donna o una ragazza non è in grado di cambiare, le condizioni della propria esistenza, situazioni da cui, indipendentemente da come vi sono finite — ad esempio per pressioni sociali, difficoltà economiche, fiducia malriposta o bisogno di affetto — non sono in grado di tirarsi fuori e in cui sono sottoposte a violenza e sfruttamento [inizio pag. 21] sessuale»(33). L’autrice porta una serie di esempi concreti non solamente sull’esistenza di un diffusissimo traffico internazionale di donne, ma anche sulla sua organizzazione, che va dal «gran canale di Minnesota» che convoglia a Times Square le fuggiasche bionde e dagli occhi azzurri del Midwest, all’acquisto di giovinette provenienti dalle misere aree rurali dell’America Latina o del Sud-Est Asiatico alle «case di piacere» per gli emigrati del XVIII arrondissemeNt di Parigi. Invece di «biasimare la vittima» o cercare di diagnosticare la sua presunta patologia, la Barry mette a fuoco la patologia della colonizzazione sessuale stessa, l’ideologia del «sadismo culturale» che si manifesta attraverso la vasta industria della pornografia e l’identificazione generalizzata della donna vista fondamentalmente come «un essere sessuale al servizio sessuale dell’uomo»(34).

      La Barry delinea quella che definisce una «prospettiva della prevaricazione sessuale» che, spacciandosi per obiettiva, ha reso quasi invisibile il terrorismo e l’abuso sessuale degli uomini sulle donne per il fatto di considerarli elementi naturali ed inevitabili. Secondo tale prospettiva, le donne sono fruibili al fine di assicurare il soddisfacimento dei bisogni sessuali ed emotivi del maschio. Il fine politico del suo libro é quello di sostituire questa prospettiva di prevaricazione con uno standard universale di libertà minime per le donne, che le liberi dalla specifica violenza di genere, dalle limitazioni di movimento e dal diritto maschile all’accesso sessuale ed emotivo nei loro confronti. Come Mary Daly nel suo libro Gyn/Ecology, anche la Barry rifiuta le razionalizzazioni strutturaliste e cultural-relativistiche della tortura sessuale e della violenza antifemminile. Nel capitolo introduttivo, la Barry sollecita i lettori a rifiutare le facili scappatoie dell’ignoranza e del rifiuto.

L’unico modo per uscire allo scoperto, per infrangere le nostre difese paralizzanti é quello di sapere, conoscere la reale portata della violenza sessuale e della prevaricazione sulle donne… Solo sapendo, affrontando apertamente la situazione, avremo la possibilità di tracciare un percorso che ci porti fuori dall’oppressione, prefigurando e creando un mondo libero dalla schiavitù sessuale delle donne(35). […] Fino a quando non nomineremo questa pratica, finché non la definiremo concettualmente e ne rintracceremo l’esistenza nel tempo e nello spazio, neppure le vittime più evidenti di questa pratica saranno in grado di nominare e definire la loro esperienza(36).

 [inizio pag. 22]

Ma in modi e forme diverse, le donne sono tutte vittime della schiavitú sessuale e la difficoltà di nominarla e concettualizzarla è dovuta in parte all’istituto dell’eterosessualità, come la Barry chiaramente intuisce.  L’istituzionalizzazione dall’eterosessualità facilita il compito del lenone e del mezzano negli ambienti della prostituzione mondiale e negli «eros centers», mentre nel privato delle famiglie, induce la figlia ad «accettare» l’incesto/stupro da parte del padre, la madre a negare l’evidenza, la moglie picchiata a restare presso il marito manesco. «L’offerta di, amicizia o amore» è fra le tattiche più collaudate dal lenone il cui lavoro consiste nell’affidare la giovane sbandata o fuggita di casa al mezzano per l’opportuno ammaestramento. L’ideologia dell’amore eterosessuale inculcatale fin da piccola attraverso le fiabe, la televisione, il cinema, la pubblicità, le canzonette e la coreografia dei riti nuziali, è uno strumento nelle mani del lenone di cui questi non esita a servirsi, com’è ampiamente documentato dalla Barry. L’indottrinamento precoce femminile al concetto di «amore» come emozione è certamente una concezione occidentale, ma un’ideologia più universale investe la supremazia e l’incontrollabilità dell’impulso sessuale maschile; ecco una delle acute analisi della Barry in proposito:

 Così come i maschi adolescenti assimilano il concetto di potere sessuale attraverso l’esperienza sociale dei loro impulsi sessuali, allo stesso modo le adolescenti apprendono che il centro del potere sessuale è maschile. Data l’importanza attribuita all’impulso sessuale maschile nella socializzazione sia delle ragazze che dei ragazzi, la prima adolescenza è forse la fase più importante di identificazione di sé ad immagine del maschio nella vita e nello sviluppo di una ragazza… Appena una giovinetta acquista consapevolezza della propria sensualità crescente… si discosta dai rapporti con le sue amiche, rapporti che fino ad allora erano fondamentali, e una volta che questi sono diventati secondari e hanno perso importanza nella sua vita, anche la sua identità assume un ruolo secondario ed essa incomincerà ad identificarsi nell’immagine che il maschio ha di lei(37).

 Resta ancora da indagare il motivo per cui alcune donne non «si discostano» mai, neppure temporaneamente, «dai rapporti primari» con altre donne e perché l’identificazione di sé al maschile — cioè la professione di lealtà sociale, politica ed intellettuale all’uomo — è riscontrabile fra lesbiche che per tutta la vita sono state tali dal punto [inizio pag. 23] di vista sessuale. L’ipotesi della Barry ci pone nuovi interrogativi, ma ci chiarisce le diverse forme in cui l’istituzionalizzazione della eterosessualità si manifesta. Nella mistica dell’impulso sessuale maschile irresistibile e conquistatore, del pene-con-una-vita-a-sé affonda le sue radici la legge del diritto sessuale del maschio sulla donna che giustifica, da un lato, la prostituzione come assunto culturale universale, mentre dall’altro determina l’asservimento sessuale all’interno della famiglia sulla base «dell’intimità delle quattro pareti e della particolarità culturale»(37). L’impulso sessuale del maschio adolescente che, come imparano i giovani di entrambi i sessi, una volta innescato non è più responsabile di sé o non può accettare rifiuti, diventa secondo la Barry la norma e il fondamento logico del comportamento sessuale del maschio adulto: una condizione di sviluppo sessuale bloccato. Le donne imparano ad accettare come naturale l’ineluttabilità di questo impulso che ci viene somministrato come un dogma. Da qui lo stupro coniugale, la moglie giapponese che prepara rassegnata la valigia per il week-end del marito nei bordelli Kisaeng di Taiwan, la disparità di potere sia psicologico che economico fra marito e moglie, fra datore di lavoro maschio e dipendente donna, fra padre e figlia, fra professore e allieva. L’identificazione di sé al maschile comporta:

l’interiorizzazione dei valori del colonizzatore e la partecipazione attiva al processo di colonizzazione di sé e del proprio sesso… L’identificazione di sé al maschile è l’atto con cui le donne pongono l’uomo al di sopra delle altre donne e di se stesse per credibilità, condizione e importanza in quasi tutte le situazioni indipendentemente dal relativo apporto qualitativo delle donne in tali situazioni.. L’interazione con le donne è considerata una forma inferiore di relazione a tutti i livelli(39).

Quel che richiede un maggiore approfondimento è il doppio sistema di pensiero comune a molte donne e da cui nessuna è permanentemente e completamente libera: nonostante si faccia assegnamento e si auspichino i rapporti fra donne, le reti di appoggio reciproco e un sistema di valori femminile e femminista, l’indottrinamento sulla credibilità e sullo status maschile riesce tuttavia a creare una sinapsi nel pensiero, negazione del proprio sentire, pie illusioni, profonda confusione [inizio pag. 24] sessuale ed intellettuale(40). Cito qui il brano di una lettera che ho ricevuto mentre scrivevo questo passaggio: «Ho avuto pessimi rapporti con gli uomini: in questo periodo sono nel pieno di una penosissima separazione. Sto cercando di ritrovare la forza attraverso le donne — senza le mie amiche non riuscirei a sopravvivere». Quante volte nel corso di una giornata una donna pronuncia parole simili, o le pensa, oppure le scrive e quante volte si ripresenta la sinapsi? La Barry così riassume le sue scoperte:

se consideriamo che uno sviluppo sessuale bloccato rientra nella normalità della popolazione maschile e se consideriamo il numero di uomini che rientrano nella categoria dei lenoni, ruffiani, organizzatori di tratte delle bianche, funzionari corrotti che coprono questo traffico, proprietari gestori e dipendenti di bordelli, alberghi a ore e altri luoghi di «intrattenimento», pornografi legati al mondo della prostituzione, coloro che picchiano la moglie, che molestano i bambini, che commettono atti incestuosi, che sfruttano e stuprano, ebbene se consideriamo tutto questo non si può non rimanere esterrefatti dall’enorme quantità di uomini coinvolti in forme di asservimento sessuale delle donne. L’enormità del numero dovrebbe essere motivo sufficiente per una dichiarazione dello stato di emergenza internazionale, una crisi rispetto alla violenza sessuale, e invece, ciò che dovrebbe suscitare allarme, è accettato come normale scambio sessuale(41).

Nella sua dissertazione, ricca e stimolante, anche se molto teorica, Susan Cavin(42) sostiene che il patriarcato si instaura dopo l’invasione e la sopraffazione numerica del gruppo originario femminile — che comprende i bambini, ma non gli adolescenti maschi — da parte degli uomini; che non è il matrimonio patriarcale il primo atto di supremazia maschile, bensì lo stupro della madre da parte del figlio. E questo è possibile non solamente perché poggia su un cambiamento del rapporto numerico fra i sessi, ma anche perché fa leva sul legame madre-figlio, manipolato dai maschi adolescenti al fine di rimanere all’interno del mondo materno anche dopo l’età dell’esclusione. L’affetto materno viene strumentalizzato allo scopo di stabilire il diritto [inizio pag. 25] maschile ad avere libero accesso alla donna, diritto che tuttavia dovrà essere mantenuto con la forza (o attraverso il controllo delle coscienze) poiché la forma originaria di legame adulto è quello fra donne. Trovo questa ipotesi molto suggestiva, perché una delle manifestazioni di falsa coscienza che serve all’istituzionalizzazione dell’eterosessualità è la riproduzione fra donna e uomo del rapporto madre-figlio, per cui alla donna si chiede di essere materna, comprensiva e indulgente verso chi la molesta, la stupra e la malmena (come pure verso coloro che la vampirizzano con la loro passività). Quante donne forti e positive non accetterebbero da nessuno certi atteggiamenti maschili salvo che dai loro figli?

Ma quali che ne siano le origini, se valutiamo a fondo e lucidamente la portata e la raffinatezza di misure volte a mantenere le donne entro un ambito sessuale maschile, siamo costrette a chiederci se il nodo che dobbiamo affrontare come femministe non sia semplicemente «l’ineguaglianza di genere» né il dominio culturale dell’uomo né i puri e semplici «tabù contro l’omosessualità», ma l’imposizione alle donne dell’eterosessualità quale mezzo per garantire il diritto di accesso fisico, economico ed emotivo da parte dei maschi(43).

      Fra i tanti sistemi di imposizione vi è naturalmente l’occultamento della possibilità di una scelta lesbica, un continente sommerso che affiora di tanto in tanto per essere poi subito risommerso. Qualsiasi studio o elaborazione teorica femminista che contribuisca a mantenere l’occultamento e la marginalità lesbica opera contro la liberazione e il rafforzamento delle donne come gruppo(44).  [inizio pag. 26]

      L’asserzione secondo cui «la maggior parte delle donne è per natura eterosessuale» rappresenta un ostacolo teorico e politico inamovibile per molte donne. Continua, ad essere un’asserzione sostenibile in parte perché l’esistenza lesbica è stata cancellata dalla storia o catalogata fra le patologie, o considerata un’eccezione anziché un elemento intrinseco, e in parte perché riconoscere che l’eterosessualità può non essere affatto una scelta per le donne, ma qualcosa che si è dovuto imporre, organizzare, gestire, propagandare e mantenere con la forza un passo enorme da fare, se una si considera «per natura e per libera scelta» eterosessuale. Eppure rifiutarsi di esaminare l’eterosessualità in quanto istituzione equivale a rifiutarsi di ammettere che il sistema economico che chiamiamo capitalismo e quello razzista, basato sulle caste, sono tenuti in piedi da una varietà di forze che vanno dalla violenza fisica alla falsa coscienza. Interrogarsi se l’eterosessualità sia «una preferenza» o una «scelta» delle donne — e affrontare l’operazione intellettuale ed emotiva che ne deriva, richiede particolari doti di coraggio da parte delle femministe che si identificano come eterosessuali ma penso che la ricompensa varrebbe la fatica: affrancamento del pensiero, esplorazione di nuove vie, la rottura di un altro lungo silenzio, nuova chiarezza nei rapporti interpersonali.

III

      Ho scelto di usare i termini esistenza lesbica e continuum lesbico perché la parola lesbico evoca un ambito clinico e limitativo; esistenza lesbica sta ad indicare sia il riconoscimento della presenza storica delle lesbiche che la nostra costante elaborazione del significato di tale esistenza. Per continuum lesbico intendo una serie di esperienze — sia nell’ambito della vita di ogni singola donna che attraverso la storia, — in cui si manifesta l’interiorizzazione di una soggettività femminile e non solo il fatto che una donna abbia avuto o consciamente desiderato rapporti sessuali con un’altra donna. Se allarghiamo il concetto fino ad includervi molte altre espressioni di intensità affettiva primaria fra donne, quali il condividere una ricca vita interiore, l’alleanza contro la tirannia maschile, lo scambio reciproco di appoggio pratico e politico e se sapremo associarvi anche quegli esempi di resistenza al matrimonio e quei comportamenti da «haggard» descritti da Mary Daly (significati obsoleti: una donna «indomabile», «ostinata», «incontinente» e «licenziosa»… «una donna riluttante ad arrendersi al corteggiamento»)(35) allora cominceremo a recuperare brandelli [inizio pag. 26] di storia e di psicologia delle donne che ci erano finora esclusi come conseguenza delle definizioni limitative e in gran parte cliniche di «lesbismo».

      L’esistenza lesbica comporta sia la caduta di un tabù che il rifiuto di un sistema di vita obbligato, significa anche un attacco diretto o indiretto al diritto maschile di accesso alle donne. Ma è molto di più di questo anche se possiamo inizialmente leggerla come una forma di rifiuto del patriarcato, un atto di resistenza. Naturalmente dell’esistenza lesbica hanno fatto parte le truolizzazioni, l’odio di sé, i crolli psichici, l’alcolismo, il suicidio e la violenza fra donne; a nostro rischio e pericolo noi romanticizziamo che cosa significhi amare e agire contro corrente e in presenza di gravi sanzioni; l’esistenza lesbica é stata vissuta (diversamente dall’esistenza ebraica o cattolica ad esempio) senza poterne conoscere la tradizione, la continuità, il supporto sociale. La distruzione di documenti, memorie e lettere che attestano la realtà dell’esistenza lesbica deve essere seriamente considerata un mezzo per imporre l’eterosessualità alle donne, perché ciò che viene sottratto alla nostra coscienza é la gioia, la sensualità, il coraggio e il senso della comunità, ma anche la colpa, l’autotradimento e il dolore(36).

      Storicamente le lesbiche sono state private di un’esistenza politica perché sono state «inserite», in versione femminile, nella omosessualità maschile. Equiparare l’esistenza lesbica all’omosessualità maschile sulla base della comune stigmatizzazione sociale, significa ancora una volta negare e cancellare la realtà femminile. Separare le donne stigmatizzate come «omosessuali» o «gay» dal complesso continuum della resistenza femminile dell’asservimento e annetterle ad un modello maschile significa falsificare la nostra storia. Parte della storia dell’esistenza lesbica si rintraccia ovviamente dove le lesbiche, in mancanza di una consistente comunità femminile, hanno condiviso con gli omosessuali maschi certe forme di vita sociale e una causa comune. E necessario comunque far rilevare le diversità: la mancanza per le donne dei privilegi economici e culturali che spettano invece agli [inizio pag. 28] uomini; la differenza qualitativa fra i rapporti maschili e quelli femminili come ad esempio il prevalere di rapporti sessuali casuali e anonimi fra gli omosessuali e l’accettazione della pederastia, l’età avanzata come elemento di attrattiva sessuale secondo gli standard degli omosessuali e così via. Nel definire e descrivere l’esistenza lesbica, spero di intraprendere la via della dissociazione dei valori lesbici e delle «fedeltà» a tali valori, da quelli degli omosessuali maschi. Ritengo che l’esperienza lesbica sia, come la maternità, un’esperienza profondamente femminile con specifiche forme di oppressione, con significati e potenzialità che non saremo in grado di comprendere se continueremo ad omologarla ad altre forme stigmatizzate di esistenza.

Così come la frase «allevamento dei figli» [parenting] serve a nascondere la realtà particolare e significativa che il genitore [parent] che alleva é di fatto la madre, così il termine «gay» serve a confondere i contorni che dovremmo invece avere ben delineati e che sono di importanza vitale per il femminismo e per la libertà delle donne come gruppo.

      Così come il termini «lesbica» é stato associato nelle definizioni patriarcali a concetti limitativi e clinici, l’amicizia e il cameratismo femminile sono stati spogliati di qualsiasi connotazione erotica, impoverendo in tal modo il concetto stesso di erotismo. Ma a mano a mano che approfondiamo ed estendiamo il concetto di esistenza lesbica, a mano a mano che delineiamo un continuum lesbico, iniziamo a scoprire l’erotismo in tendini femminili: come qualcosa che non puó essere ristretto a nessuna singola parte del corpo, o al solo corpo, come un’energia non solo diffusa, ma onnipresente come scrive Audre Lorde(37), «quando si condivide la gioia, sia fisica che emotiva o psichica» e quando si condivide il lavoro; come il corroborante senso di gioia che «ci rende meno disposte ad accettare l’impotenza o gli altri modi di essere che non ci sono propri, quali la rassegnazione, la disperazione, l’annullamento di sé, la depressione e l’autonegazione». Scrivendo a proposito di donne e lavoro, in un’altra occasione, citavo il passaggio autobiografico in cui la poetessa H. D. descrive come la sua amica Bryher l’abbia sorretta nel perseguire l’esperienza visionaria che avrebbe connotate le opere della sua maturità:

 …Sapevo che questa esperienza, questa traccia — sul muro davanti a me, non poteva essere divisa da altri che da questa ragazza che coraggiosamente mi sedeva accanto. ‘Va avanti’ aveva detto, senza [inizio pag. 29] esitare, questa ragazza. Era lei che possedeva in realtà il distacco e l’integrità dell’oracolo di Delfi. Ma ero io, io abbattuta e dissociata… quella che vedeva i dipinti, che leggeva le scritte o che sperimentava quelle interne visioni. O, forse, in qualche modo, le ‘vedevamo’ insieme, perché senza di lei, lo ammetto, non avrei potuto andare avanti(38).

Se consideriamo la possibilità che tutte le donne vivono del continuum lesbico — dalla piccola che succhia al seno della mamma, all’adulta che prova sensazioni orgasmiche allattando il suo bambino ritrovando nel suo, l’odore di latte della propria madre, alle due donne che, come Chloe e Olivia di Virginia Woolf, condividono un laboratorio(39), alla vecchia che muore a novant’anni affidata alle cure e alle mani delle donne — se consideriamo tutto questo, potremo vedere noi stesse entrare e uscire da questo continuum, sia che ci identifichiamo come lesbiche o no. Ciò ci permette di collegare fra loro aspetti diversi di identificazione di sé al femminile, come possono esserlo l’amicizia intima e impudente fra ragazzine di otto-nove anni e il mettersi insieme di quelle donne note dal XII al XV secolo come «beghine» che «condividevano la casa, si affittavano le case l’una con l’altra, le lasciavano in eredità alle loro compagne di stanza… in case economiche nella zona artigianale della città», che «praticavano le virtù cristiane per conto loro, vestendosi e vivendo in semplicità e senza associarsi agli uomini», che si guadagnavano da vivere facendo le filatrici, le fornaie, le infermiere e gestendo le scuole per giovanette e che riuscirono — fino al momento in cui la Chiesa le costrinse a disperdersi — a vivere senza doversi sottoporre né al matrimonio né alla restrizioni del convento(50). Il continuum lesbico ci consente di collegare queste donne con le più celebrate «Lesbiche» della scuola di Saffo nel VII secolo a. C., con le organizzazioni segrete di sorellanza e le reti di sostegno economico diffuse fra le donne africane e con le leghe di resistenza al matrimonio diffuse fra le donne cinesi — cioè comunità di donne che rifiutavano il matrimonio o di consumare il matrimonio, se maritate, e che abbandonavano i loro mariti — le uniche cinesi che non avevano i piedi fasciati e che, come riferisce Agnes Smedley, si rallegravano alla nascita di figlie femmine e [inizio pag. 30] ornizzavano con successo gli scioperi delle donne nelle filande(51). Ci consente di associare e confrontare esempi disparati ed individuali di resistenza al matrimonio: ad esempio, il genere di autonomia reclamato da Emily Dickinson, una geniale donna bianca del XIX secolo, con gli espedienti escogitati da Zora Neal Hurston, una geniale donna nera del XX secolo.

      La Dickinson non si sposò mai, ebbe rarefatte amicizie intellettuali con alcuni uomini, visse autoreclusa nella signorile casa paterna, e scrisse una quantità di lettere appassionate durante tutto l’arco della sua vita alla cognata Sue Gilbert e lettere inferiori nel numero, ma non nel tono, all’amica Kate Scott Anthon. La Hurston si sposò due volte e in entrambi i casi abbandonò ben presto i mariti, si guadagnò da vivere spostandosi dalla Florida ad Harlem, dalla Columbia University ad Haiti, e da ultimo di nuovo alla Florida, passando dal benessere della protezione dei bianchi alla povertà, dal successo professionale al fallimento; i rapporti che le permisero di sopravvivere furono tutti con le donne, a partire da sua madre. Queste due donne, pur nella enorme diversità della loro esperienza, furono entrambe esempi di resistenza al matrimonio, dedite alla loro opera e alla propria individualità, etichettate in seguito come «apolitiche». Entrambe erano attratte da uomini intellettualmente dotati; per entrambe le loro simili furono fonte di fascino e di sostentamento.

      Se si pensa che l’eterosessualità sia la «naturale» propensione emotiva e sensuale delle donne, le vite come quelle sopra descritte appaiono devianti, patologiche, menomate dal punto di vista emotivo e sensuale; oppure, secondo un gergo più recente e permissiva, vengono banalmente ridotte a «stili di vita». E l’operato di queste donne — sia esso semplicemente il lavoro quotidiano di sopravvivenza e resistenza individuale e collettiva o l’opera della scrittrice, dell’attivista, la riformatrice, l’antropologa o l’artista: il lavoro di autorealizzazione — viene sottovalutato, o visto come il frutto amaro dell’«invidia [inizio pag. 31] del pene» o la sublimazione di un erotismo represso o i deliri insignificanti di una «odiatrice di uomini». Se spostiamo però l’angolo visivo e consideriamo in che misura e con quali metodi la «scelta» eterosessuale è stata in realtà imposta alle donne, potremo non solo avere una diversa percezione del significato delle vite e del lavoro individuali ma potremo anche focalizzare un elemento centrale della storia delle donne: cioè il fatto che le donne hanno sempre opposto resistenza alla tirannia maschile. Un femminismo di azione, spesso, ma non sempre, privo di supporto teorico, si è costantemente manifestato in ogni cultura ed in ogni epoca.

      Possiamo iniziare a studiare la lotta delle donne contro la mancanza di potere, la loro radicale ribellione non semplicemente nell’ambito di «concrete situazioni rivoluzionarie»(52), secondo la definizione maschile, ma in tutte quelle situazioni che nelle ideologie maschili non sono percepite come rivoluzionarie: ad esempio, il rifiuto di alcune donne di fare figli, aiutate in ciò con grande rischio da altre donne; il rifiuto di contribuire ad un migliore standard di vita e ad un maggiore agio per gli uomini (la Leghorn e la Parker dimostrano come entrambi questi aspetti rientrino nel contributo economico delle donne misconosciuto, non pagato e non organizzato sindacalmente); quella sessualità femminile antifallica che, come fa notare Andrea Dworkin, è stata leggendaria e che, definita come «frigidità» e «puritanismo», è stata in realtà una forma di sovversione del potere maschile — «una ribellione vana … ma pur sempre una ribellione»(53). Non è più possibile tollerare il punto di vista della Dinnerstein secondo cui le donne hanno semplicemente collaborato con gli uomini negli «accomodanti compromessi fra i sessi» della storia; abbiamo ora la possibilità di osservare comportamenti, sia nella storia che nelle biografie individuali, fino ad ora invisibili o distorti; comportamenti che, dati i limiti dell’opposizione esplicita in un dato luogo e momento, rappresentano una radicale ribellione. Ed è lecito collegare queste ribellioni, e la spinta che le causava con la passione fisica che la donna prova per la sua simile e che è un elemento centrale dell’esistenza lesbica: la sensualità erotica che, per l’appunto, è stato l’elemento dell’esperienza femminile più violentemente represso.  [inizio pag. 32]

      L’eterosessualità è stata imposta alle donne sia con la coercizione materiale esplicita che a livello del subconscio, eppure ovunque le donne vi hanno opposto resistenza, spesso a costo di torture fisiche, reclusione, psicochirurgia, ostracismo sociale e povertà estrema. «L’istituzionalizzazione dell’eterosessualità» è stata inclusa nell’elenco dei «crimini contro le donne» da parte del Tribunale di Bruxelles sui crimini contro le donne nel 1976. Le testimonianze di due donne provenienti da culture profondamente diverse stanno a dimostrare come la persecuzione delle lesbiche sia una pratica universale qui ed ora. Un rapporto della Norvegia dice:

 «una lesbica di Oslo era sposata, ma il suo matrimonio eterosessuale non funzionava, perciò cominciò a prendere tranquillanti e finì in un sanatorio per un periodo di cura e di riposo… Quando disse, durante la terapia del gruppo familiare, che pensava di essere lesbica, il medico le assicurò che non lo era. Disse che si vedeva «guardandola negli occhi». Aveva gli occhi di una donna che desidera il rapporto sessuale con suo marito. Perciò fu sottoposta alla cosiddetta «terapia tattile». Fu messa in una stanza ben riscaldata, nuda su un letto, e suo marito doveva cercare di eccitarla sessualmente… L’idea era che le carezze dovevano per forza terminare con un atto sessuale… Lei sentiva crescere sempre di più la sua avversione. Vomitava e qualche volta scappava dalla stanza per sfuggire a quella «cura». Più lei affermava di essere lesbica più violento diventava il rapporto eterosessuale cui la costringevano. Questa cura si prolungò per circa sei mesi. Lei fuggì dall’ospedale, ma la riportarono indietro. Fuggì di nuovo. Da allora non c’è più tornata. Alla fine si è resa conto di essere stata sottoposta per sei mesi a una vera e propria violenza».

Questo è senza dubbio un esempio che rientra nella definizione di schiavitù sessuale femminile data dalla Barry). Un’altra testimonianza, dal Mozambico:

«Sono condannata a vivere in esilio perché ammetto che sono lesbica e che i miei primi pensieri sono e saranno sempre per le donne. Nel nuovo Mozambico il lesbismo è considerato un residuo del colonialismo e della decadente civiltà occidentale. Le lesbiche vengono mandate in campi di riabilitazione perché attraverso l’autocritica imparino la linea corretta… Se avessi il coraggio di denunciare il mio amore per le donne, se dunque denunciassi me stessa, potrei tornare in Mozambico e unirmi alle altre forze nell’entusiasmante e dura lotta per la ricostruzione di un paese, compresa la lotta per l’emancipazione delle donne mozambicane. Così come stanno le cose, o rischio il campo di riabilitazione, o resto in esilio»(54).

[inizio pag. 33]

Né si può pensare che delle donne come quelle descritte da Carrol Smith-Rosenberg, che conducevano una vita da maritate ma rimanevano legate  a un mondo emotivo e passionale profondamente femminile, «preferissero» o «scegliessero» l’eterosessualità. Le donne hanno contratto matrimoni per tante ragioni: perché era indispensabile per poter sopravvivere economicamente, per poter avere figli senza esporli all’indigenza e all’ostracismo sociale, per mantenere la rispettabilità, per corrispondere alle aspettative sociali, poiché dopo l’esperienza «anormale» dell’adolescenza esse desideravano essere «normali» e perché l’innamoramento eterosessuale è sempre stato rappresentato come la massima avventura femminile, il primo dovere e la massima fonte di appagamento. Possiamo aver accettato, con atteggiamento sincero e ambivalente, l’istituzione, ma i nostri sentimenti — e la nostra sensualità — non sono stati domati o rinchiusi al suo interno. Non esistono dati statistici relativi al numero di lesbiche che ha passato gran parte della vita in matrimoni eterosessuali, ma in una lettera ad una delle prime pubblicazioni lesbiche «The Ladder» la commediografa Lorraine Hansberry affermava:

Ho il sospetto che il problema riguardante donne sposate che preferirebbero avere rapporti fisico/emotivi con altre donne, sia proporzionalmente molto più esteso di quanto non rivelerebbe un’analoga statistica fra gli uomini. (Una statistica che certamente nessuno vorrebbe mai effettuare). E questo perché, essendo lo stato sociale della donna quello che è, come potremmo mai indovinare la quantità di donne che non sono pronte ad avventurarsi in una vita contrastante con ciò che é stato loro inculcato come destino «naturale» E insieme rischiare la loro unica aspettativa, cioè la sicurezza ECONOMICA. Sembra che questo sia il vero motivo per cui la questione ha per le donne una portata che non sembra avere per gli omosessuali maschi… Una donna forte e onesta può, se vuole, troncare il suo matrimonio e contrarne un altro con un altro uomo e la società si inquieterà per l’aumento del numero dei divorzi, ma sono veramente pochi i luoghi degli Stati Uniti in cui verrebbe considerata come qualcosa di vagamente simile ad un paria. Ovviamente questo non vale per la donna che mettesse fine al suo matrimonio per andare a vivere con un’altra donna(55).

 [inizio pag. 34]

Questa forma di «doppia vita» — l’apparente acquiescenza verso l’istituzione fondata sull’interesse e sul privilegio maschile — é stata una caratteristica costante dell’esperienza delle donne: nella maternità e in molti aspetti del comportamento eterosessuale, compresi i rituali del corteggiamento, la pretesa asessualità delle mogli del XIX secolo, la simulazione dell’orgasmo da parte della prostituta, della cortigiana e della donna «sessualmente liberata» del XX secolo.

      Il romanzo documentario dell’epoca della Depressione, di Meridel LeSueur, intitolato The Girl è un impressionante studio delle doppia vita femminile. La protagonista, cameriera in un locale clandestino nell’ambiente operaio di St. Paul, è appassionatamente attratta dal giovane Butch ma i suoi rapporti di sopravvivenza li ha con Clara, una cameriera più anziana di lei, prostituta con Belle, moglie del proprietario del bar e con Amelia, un’attivista sindacale. Per Clara e Belle e per la protagonista senza nome, il rapporto sessuale con gli uomini rappresenta in un certo senso una forma di evasione dalla miseria di fondo della vita quotidiana, un lampo di intensità nella trama grigia inesorabile e spesso brutale dell’esistenza di tutti i giorni:

 … Era come se lui fosse una calamita che mi attraeva. Era eccitante e dava forza e paura. Anche lui mi stava dietro e quando mi trovava io scappavo, o rimanevo pietrificata, impalata davanti a lui come un’idiota. E lui mi ha detto di non andarmene in giro con Clara al Marigold a ballare con degli sconosciuti. Ha detto che mi avrebbe fatto cacare le budella a pugni; cosa che mi ha fatto venire i brividi, ma era sempre meglio che essere un viluppo di dolore e non sapere perché(56).

Il tema della doppia vita affiora lungo tutto il romanzo; così Belle racconta del suo matrimonio col contrabbandiere d’alcool Hoink:

Beh, quella volta che avevo quell’occhio nero e dicevo che l’avevo sbattuto contro la credenza, beh, era lui che me l’ha fatto e poi dice di non dire niente a nessuno… Lui è una merda, ecco che cos’è, una merda e non capisco perché vivo con lui, perché dovrei sopportarlo per un solo minuto di questa terra. Ascolta, ragazzo, voglio dire una cosa. Mi guardò e il suo viso era meraviglioso. Disse, Cristo, Dio lo maledica io lo amo ecco perché sono inchiodata così tutta la vita, Dio lo maledica, lo amo(57).

[inizio pag. 35]

Dopo che la protagonista ha avuto il primo rapporto sessuale con Butch, le sue amiche si preoccupano se sanguina, le danno del wiskey, si scambiano impressioni.

Con la mia fortuna, era la prima volta e sono finita nei guai. Lui mi ha dato un po’ di denaro e sono venuta a, St. Paul dove per dieci dollari ti infilano dentro un enorme ferro da veterinario e tu incominci e allora eri da sola… Non ho mai avuto bambini. Ho solo dovuto far da madre a Hoink, e che diavolo di bambino è lui(58). […] Dopo mi hanno rispedito nella stanza di Clara perché mi sdraiassi… Clara si è stesa di fianco a me e mi ha messo le braccia intorno e voleva che le raccontassi ma era di sé che voleva parlare. Ha detto che aveva incominciato a dodici anni con un gruppo di ragazzi in un vecchio capanno. Ha detto che prima nessuno si era mai accorto di lei e che era diventata molto richiesta… A loro piace tanto, diceva, perché non dovresti darglielo e ricevere regali e attenzione? A me non é mai importato niente e neppure a mia madre. Ma è l’unica cosa di valore che hai(59).

 Il sesso è dunque equiparato all’attenzione del maschio, che è carismatico anche se brutale, infantile e inaffidabile; e tuttavia sono le donne che rendono sopportabile la vita l’una all’altra, che elargiscono affetto fisico senza causare dolore, che partecipano, consigliano e si spalleggiano a vicenda. (Sto cercando di ritrovare la forza attraverso le donne — senza le mie amiche non potrei sopravvivere). Il romanzo The Girl fa da parallelo al pregevole romanzo di Toni Morrison, Sula, un ulteriore esempio di doppia vita femminile:

Nel era l’unica persona che non aveva preteso nulla da lei, che l’aveva accettata in ogni suo aspetto… Nel era una delle ragioni per cui [Sula] si era trascinata indietro fino a Madellion… Gli uomini… erano tutti riducibili ad un unico modo di essere: lo stesso linguaggio amoroso, gli stessi giochi amorosi lo stesso raffreddamento dell’amore. Tutte le volte che lei cercava di introdurre nei loro su e giù i suoi pensieri privati, i loro occhi si oscuravano. Non le insegnavano altro che miseri trucchi amorosi, non condividevano con lei altro che le loro preoccupazioni, oltre al denaro non davano nulla. Per tanto tempo aveva cercato un amico e le ci volle un bel po’ per capire che un amante non era un compagno, e mai avrebbe potuto esserlo — per una donna.

Ma l’ultimo pensiero di Sula prima di morire è: «Aspetta che lo dica Nel» e dopo la sua morte, Nel ripensa alla sua vita:

«Per tutto [inizio pag. 36] quel tempo, per tutto quel tempo ho pensato che Jude mi mancava. E la perdita le strinse il petto e le risalì alla gola. ‘Eravamo ragazze insieme’ disse come per spiegare qualcosa. `O Dio, Sula’ gridò, Ragazza, ragazza, ragazza mia ragazza!’ Fu un bel grido — forte e prolungato — ma non aveva né bassi né alti, solo cerchi su cerchi di dolore»(60).

Entrambi i romanzi The Girl e Sula mettono in luce il continuum lesbico in opposizione alle descrizioni della «scena lesbica» superficiali o sensazionali che si ritrovano nei romanzi commerciali più recenti(61). Entrambi descrivono una soggettività femminile (eccetto che nella conclusione di The Girl) non intaccata dall’ideologia romantica; in entrambi é rappresentata la competizione per la conquista dell’attenzione femminile costituita dall’obbligo eterosessuale, l’estensione e la frustrazione del legame fra donne che potrebbe portare, se espresso in una forma più cosciente, a reintegrare l’amore con il potere.

 

IV

L’interiorizzazione di una soggettività femminile é una fonte di energia, una sorgente potenziale di potere femminile violentemente repressa e inutilizzata in regime di eterosessualità. Il rifiuto di riconoscere l’esistenza della passione amorosa fra donne, di accettare che le donne scelgano le loro simili come alleate, come compagne di vita e come proprio gruppo di appartenenza, l’aver costretto alla mimetizzazione questi rapporti e averne imposto il dissolvimento, ha significato per le donne una perdita incalcolabile rispetto alla possibilità di cambiare i rapporti sociali fra i sessi e di liberare noi stesse e gli altri. La menzogna su cui si fonda l’istituzionalizzazione dell’eterosessualità femminile affligge oggi non solo la ricerca accademica femminista ma tutte le professioni, qualsiasi libro di consultazione, qualsiasi corso di studio, qualsiasi tentativo di organizzazione, qualsiasi [inizio pag. 37] rapporto o conversazione. Essa introduce, in particolare, elementi di profonda falsità, ipocrisia ed isteria nel dialogo eterosessuale perché ogni rapporto eterosessuale e vissuto in tale nausebonda menzogna. Indipendentemente dalla nostra scelta di identità o dall’etichetta che ci viene attribuita, tale menzogna rimbalza sulle nostre vite, distorcendole.

      È lei la causa dell’intrappolamento psicologico di innumerevoli donne che tentano di far rientrare la loro mente, il loro spirito e la loro sessualità in uno schema prestabilito, dato che non sanno guardare oltre i parametri dell’accettabile. Divora le energie di queste donne così come prosciuga quelle delle lesbiche «non dichiarate» — l’energia sprecata nella doppia vita. La lesbica impossibilitata a «dichiararsi», la donna imprigionata in concetti restrittivi di ciò che é «normale», hanno in comune la sofferenza delle opzioni bloccate, delle connessioni interrotte, della preclusione ad assumere una definizione di sé in maniera libera ed efficace.

      La menzogna ha diverse sfaccettature e nella tradizione occidentale una di queste — quella romantica — asserisce che la donna é sempre, anche se avventatamente o tragicamente, attratta dall’uomo e anche quando questa attrazione é suicida (vedi Tristano e Isotta o Il risveglio di Kate Chopin) resta pur sempre un imperativo organico. Nella tradizione delle scienze sociali si afferma che l’amore originario fra i sessi é «normale», che la donna ha bisogno dell’uomo perché la protegga socialmente ed economicamente, e per potere raggiungere la maturità sessuale e psicologica; che le donne che non pongono l’uomo al centro della loro vita emotiva devono essere condannate, in termini funzionali, ad una marginalità perfino maggiore di quella loro riservata, comunque, in quanto donne(62). Non sorprende allora che le lesbiche costituiscano una popolazione ancor più clandestina di duella degli omossessuali maschi. Lorraine Bethel, una critica femminista negra e lesbica, scrivendo di Zora Neale Hurston, rileva che per una donna di colore — già due volte emarginata — scegliere di assumersi un’ulteriore «identità detestabile» è alquanto problematico. E tuttavia il continuum lesbico ha rappresentato una importante fune di salvataggio per le donne di colore sia in Africa che negli Stati Uniti.  [inizio pag. 38]

     Le donne di colore hanno una lunga tradizione di legami tra loro…in una comunità di donne di colore che è stata fonte di informazioni vitali per la sopravvivenza, di sostegno psichico ed emotivo per noi. Abbiamo una cultura popolare femminile distinta basata sulle nostre esperienze di donne negre in questa società; simboli, linguaggio e modi espressivi che sono specifici delle realtà delle nostre vite… Dato che erano rare le donne di colore che riuscivano ad avere accesso alla varie forme riconosciute di espressione artistica, questo legame e questa identificazione al femminile diffusi fra le donne di colore sono stati spesso taciuti e negletti ovunque, eccetto che nelle vite individuali delle donne di colore, attraverso i nostri ricordi della nostra specifica tradizione femminile(63).

       Un’altra sfaccettatura della menzogna è il pensiero sottinteso e molto diffuso secondo cui le donne scelgono le loro simili per odio verso gli uomini; in effetti, un profondo scetticismo, una grande cautela e una fondata paranoia nei confronti degli uomini potrebbe essere la sana risposta delle donne alla misoginia di cui è imbevuta la cultura maschile, agli aspetti assunti dalla sessualità maschile «normale» e al fatto che neppure la categoria di uomini cosiddetti «sensibili» e «politicamente impegnati» ha mai mostrato di considerare tali aspetti perlomeno preccupanti. E tuttavia la misoginia ha talmente permeato la cultura, appare cosí «normale» e costituisce un fenomeno sociale talmente trascurato che molte donne, anche femministe e lesbiche, hanno difficoltà a riconoscerla fino a che non si presenta nelle loro vite in forme permanentemente inequivocabili e disastrose. L’esistenza lesbica viene anche rappresentata semplicisticamente come rifugio contro gli abusi maschili anziché come una carica di energia e di forza fra due donne. Trovo interessante il fatto che uno dei brani letterari più citati sui rapporti lesbici sia quello di Colette, La Vagabonda, in cui Rende descrive «l’immagine melanconica e toccante di due debolezze, forse rifugiate l’una nelle braccia dell’altra per dormirvi, piangervi, fuggire l’uomo spesso selvaggio e gustare, superiore a qualunque piacere, la felicità di sentirsi uguali, infime, dimenticate (corsivo mio)»(64).

      Colette viene spesso considerata una scrittrice lesbica e io penso che la sua popolarità dipenda molto dal fatto che descrive l’esistenza [inizio pag. 39] lesbica come se il destinatario fosse un pubblico maschile; i suoi primi romanzi «lesbici» — la serie di Claudine — sono stati scritti sotto la spinta del marito e pubblicati sotto il nome di entrambi. Tranne che nei suoi scritti sulla madre, Colette è una fonte di informazione sull’esistenza lesbica molto meno affidabile, suppongo, di Charlotte Bronte che intuì il fatto che, se da un lato le donne possono, o meglio, devono essere alleate, consigliere e consolatrici reciproche nella lotta per la sopravvivenza femminile, vi è peraltro un piacere estrinseco nella compagnia reciproca e nell’attrazione per le rispettive qualità intellettuali e caratteriali, che deriva dal riconoscimento dei punti di forza di ciascuna.

      Usando lo stesso metro, possiamo dire che vi è un nucleo di contenuto politico nell’atto di scegliere una donna come amante o compagna della propria vita a dispetto dell’istituzionalizzazione dell’eterosessualità(64). Ma affinché l’esistenza lesbica possa dare concretezza a questo contenuto politico in forma definitivamente liberatoria, la scelta erotica deve approfondirsi ed ampliarsi fino a divenire una consapevole interiorizzazione di una soggettività femminile – cioè femminismo lesbico.

      Il lavoro che abbiamo davanti di dissotterrare e delineare quella che io chiamo «esistenza lesbica» è un fatto potenzialmente liberatorio per le donne. E certamente un lavoro che dovrà andare oltre i limiti della ricerca accademica delle donne bianche occidentali appartenenti alla media borghesia per intraprendere un esame della vita, del lavoro e dei modi di associarsi delle donne nelle diverse strutture razziali, etniche e politiche. Vi sono inoltre alcune differenze fra «esistenza lesbica» e «continuum lesbico» — differenze che possiamo cogliere anche nello svolgimento delle nostre stesse vite. E’ mia opinione che il «continuum lesbico» dovrà essere delineato alla luce della «doppia vita» delle donne, non solo di coloro che si definiscono eterosessuali ma anche di coloro che si definiscono lesbiche.

      Abbiamo bisogno di un panorama delle varie forme in cui si manifesta la doppia vita delle donne molto più esauriente di quello attuale; è compito delle storiche indagare a fondo i modi in cui l’eterosessualità in quanto istituzione è stata creata e mantenuta in piedi mediante la scala salariale femminile, l’imposizione dell’«ozio» alle donne borghesi, il mito della cosiddetta liberazione sessuale, i divieti per le donne di accesso all’istruzione, l’immaginario dell’«arte eccelsa» contrapposta alla cultura popolare, la mistificazione della sfera [inizio pag. 40] personale e tanto altro ancora. Abbiamo bisogno di un’analisi dell’economia in cui l’istituzione dell’eterosessualità, con il suo doppio carico di lavoro per le donne e la divisione sessuale del lavoro sia esaminata come la più idealizzata fra le relazioni economiche.

      A questo punto, è inevitabile chiedersi: «dobbiamo dunque condannare ogni forma di rapporto eterosessuale, compresi quelli meno oppressivi» Non credo che sia questa la domanda da porci, anche se spesso molto sentita. Troppo spesso ci siamo impaniate in una quantità di false dicotomie che ci hanno impedito una visione complessiva dell’istituzione: matrimoni «buoni» contro matrimoni «cattivi», matrimoni «d’amore» contro quelli «combinati», sessualità «liberata, contro prostituzione, rapporti eterosessuali contro stupro, Liebeschmerz contro umiliazione e dipendenza. Esistono, ovviamente, all’interno dell’istituzione esperienze qualitative diverse, ma la mancanza di possibilità di scelta resta una realtà fondamentalmente misconosciuta e nell’impossibilità di scelta la donna continua a dipendere dal caso o dalla fortuna di rapporti particolari, priva di un potere collettivo che le consenta di definire il significato e lo spazio della sessualità nella sua vita. Se analizziamo l’istituzione dell’eterosessualità, siamo in grado di intravedere una storia della resistenza femminile, mai pienamente cosciente di sé perché frammentaria, distorta cancellata. Sarà necessaria un’aggressione coraggiosa della politica, dell’economia e della propaganda culturale dell’eterosessualità, tale da superare i limiti delle situazioni individuali o dei singoli gruppi e da fornirci quella visione d’insieme articolata che ci é necessaria a smantellare il potere ovunque esercitato dagli uomini sulle donne e che è venuto a costituire un modello per ogni altra forma di sfruttamento e di controllo illegittimo.

 

NOTE [nell’originale a pie’ di pagina]

1 A. Rossi, Children and Work in the Lives of Women, paper presentato all’Università di Arizona, Tucson, nel febbraio 1976.
2 D.LESSING, Il taccuino d’oro, Milano, Feltrinelli, 1983, p. 524.
3 N. CHODOROW, The reproduction of Mothering, Berkeley, University of California Press, 1978; D. DINNERSTEIN, The Mermaid and the Minotaur: Sexual Arrangements and the Human Malaise, New York, Harper & Row, 1976; B. EHRENREICH, e D. ENGLISH, For Her Own Good: 150 Years of the Experts’ Advice to Women, Garden City, N.Y., Doubleday & Anchor, 1978; J. BAKER MILLER, Toward a New Psychology of Women, Boston, Beacon Press, 1976.
4 Avrei potuto scegliere numerosi altri seri ed influenti libri apparsi recentemente, comprese alcune antologie, che possono illustrare questo punto, per esempio Noi e il nostro corpo, il bestseller del Boston Women Healt Collective (Milano, Feltrinelli, 1974) che dedica un capitolo a parte, piuttosto insufficiente, alle lesbiche, ma il cui messaggio è che l’eterosessualità è la «scelta» di vita della maggioranza delle donne; B. CARROLL (ed), Liberating Women’s History: Theoretical and Critical Essays, Urbana, University of Illinois Press, 1976, che non dedica neppure un saggio alla presenza delle lesbiche nella storia, per quanto Linda Gordon, Persis Hunt ed altre, nel loro articolo, notino che gli storici maschi usano «la devianza sessuale» come categoria per discreditare e sminuire Ann Howard Shaw, Jane Addams ed altre femministe (cfr. Historical Phallacies: Sexism in American Historical Writing); R. BRIDENTHAL e C. KOONTZ (eds), Becoming Visible: Women in European History, Boston, Houghton Mifflin, 1977, che cita tre volte l’omosessualità maschile, ma non pubblica nessun documento o materiale sulle lesbiche che io sarei stata in grado di indicare; G. LERNER (ed.), The Female Experience: An American Documentary, Indianapolis, Bobbs-Merrill, 1977, contiene un sunto di due documenti su posizioni del lesbofemminismo contemporaneo e nessun altra documentazione sull’esistenza lesbica. Tuttavia, nella sua prefazione, Gerda Lerner rileva che il carico della devianza è stato usato per frammentare e scoraggiare la resistenza delle donne. L. Gordon in Woman’s Body, Woman’s Right: A Social History of Birth Control in America, New York, Viking Press, 1976, nota accuratamente che «non è stato il femminismo a produrre più lesbiche. Ci sono sempre state molte lesbiche, nonostante la forte repressione; e la maggioranza sperimenta che la propria scelta è innata» (p. 410).
5 J. KATZ, Gay American History, New York, Thomas Y. Crowell, 1976.
6 N. SAHLI, Smashing: Women’s Relationships Before the Fall, «Chrysalis: A Magazine of Women’Culture», 8, 1979, pp. 17-27. Una versione di questo articolo è stata presentata alla Third Berkshire Conference on the History of Women, l’11 giugno 1976.
7 Questo è un libro che ho appoggiato pubblicamente. Potrei farlo ancora, pur con le cautele che ho detto. Soltanto cominciando a scrivere questo articolo ho capito fino in fondo quanto siano enormi le domande rimaste senza risposta nel libro di B. Ehrenreich e D. English.
8 K. BARRY, Female Sexual Slavery, Englewood Cliffs, N. J., Prentice Hall, 1979; S. BROWNMILLER, Contro la nostra volontà. Uomini, donne e violenza sessuale, Milano, Bompiani, M. DALY, Gyn/Ecology: the Meta-Ethics of Radical Feminism, Boston, Beacon Press, 1978; S. GRIFFIN, Woman and Nature: The Roaring Inside Her, New York, Harper & Row; D. RUSSEL e NICOLE VAN DE VEN (eds), Crimini contro le donne, Milano, Sonzogno, 1977.
9 D. DINNERSTEIN, op. cit., p. 272.
10 M. DALY, op. cit., pp. 184-185; 114-133.
11 N. CHODOROW, op.  cit., pp. 197-198.
12 Ibidem, pp. 198-199.
13 Ibidem, p. 200.
14 K. GOUGH, The Origin of the Family, in Toward an Anthropology of Women, ed. R. Reiter, New York, Monthly Review Press, 1975, pp. 69-70.
15 K. BARRY, op. cit., pp. 216-219.
16 A. DEMETER, Legal Kidnapping, Boston, Beacon Press, 1977, pp. XX, 126-128.
17 M. DALY, op. cit., pp. 132. 139-141, 163-165.
18 B. EHRENREICH e D. ENGLISH, Le streghe siamo noi. Il ruolo della medicina nella repressione della donna, Milano, La Salamandra, 1975; A. DWORKIN, Woman Hating, New York, E. P. Dutton, 1974, pp. 118-154; M. DALY, op. cit., pp. 178-222.
19 Si veda V. WOOLF, Una stanza tutta per sé, Milano, Il Saggiatore, 1963 e V. Woolf, Le tre ghinee, Milano, La Tartaruga, 1975; T. OLSEN, Silences, Boston, Delacorte Press, 1978; M. CLIFF, The Resonance of Interruption, «Chrysalis: A Magazine of Women’s Culture», 8, 1979, pp. 29-37.
20 M. DALY, Beyond God the Father, Boston, Beacon Press, 1973, pp. 347-351; T. OLSEN, Op. Cit., pp. 22-46.
21 M. DALY, Beyond God the Father, cit., p. 93
22 P. HOSKEN, The Violence of Power: Genital Mutilation of Females, «Heresies, 6, 1979, pp. 28-35; D. RUSSEL E N. VAN DE VEN, op. cit., pp. 194-195.
23 K. BARRY, op. cit., pp. 163-164.
24 Il problema del «sadomasochismo lesbico» dev’essere esaminato in termini di ciò che le culture dominanti insegnano sui rapporti tra i sessi e sulla violenza, e persino in termini di accettazione da parte di alcune lesbiche dell’omosessualità maschile. Io credo che questo rappresenti un altro esempio della doppia vita delle donne.
25 C. A. MACKINNON, Sexual Harassment of Working Women: A Case of Sex Discrimination, New Haven, Yale University Press, 1979, pp. 15-16.
26 Ibidem, p. 174.
27 S. BROWNMILLER, op. cit.
28
C. A. MACKINNON, op. cit., p. 219. Susan Schecter scrive: «La spinta verso l’eterosessualità ad ogni costo è così potente che… è divenuta una forza culturale per le condizioni stesse che creano i maltrattamenti. L’ideologia dell’amore romantico e il geloso possesso del partner come proprietà forniscono la maschera per ciò che diventa un abuso vero e proprio» in «Aegis: Magazine on Ending Violence Against Women», July-August 1979, pp. 50-51.
29 C. A. MACKINNON, op. cit., p. 298.
30 Ibidem, p. 220.
31 Ibidem, p. 221.
* Letter: «Otherwise being left on the periphery of the matrix». In italiano ci è sembrato di doverlo rendere esplicitando il concetto [N. d. T.].
32 K. BARRY, op. cit.
33
Ibidem, p. 33.
34 Ibidem, p. 103.
35 Ibidem, p. 5.
36 Ibidem, p. 100.
37 Ibidem, p. 218.
38 Ibidem, p. 140.
39 Ibidem, p. 172.
40 Altrove ho sostenuto che l’identificazione con l’uomo è stata una risorsa di forza per il razzismo delle bianche, e che ci sono state donne le quali si sono sentite «sleali» con i codici ed i sistemi maschili contro cui si sono attivamente battute, A. RICH, Disloyal to Civilization: Feminism, Racism, Gynephobia, in On Lies, Secrets and Silence: Selected Prose, 1966-1978, New York, W.W. Norton, 1979 (tr. it. in versione ridotta: Segreti, silenzi, bugie, Milano, La Tartaruga, 1982).
41 K. BARRY, op. cit., p. 220.
42 S. CAVIN, «Lesbian Origins», Ph. D. diss, Department of Sociology, Rutgers, The State University of New Jersey, 1978, cap. IV.
43 Per il concetto di eterosessualità come istituzione economica sono debitrice nei confronti di Lisa Leghorn e Katerine Parker, che mi hanno fatto leggere prima della pubblicazione il manoscritto del loro libro Woman’s Worth: Sexual Economics and the World of Women, London, Routledge & Kegan Paul, 1981.
44 Vorrei sostenere che l’esistenza lesbica è stata largamente riconosciuta e tollerata quando è sembrata una versione «deviante» dell’eterosessualità; p. e. quando le lesbiche hanno giocato ruoli eterosessuali, come la Stein e la Toklas, (o almeno sembravano farlo in pubblico) e si sono identificate soprattutto con la cultura maschile. Si veda anche C. E. SCHAFFER, The Kuterai Female Berdache: Courier, Guide, Prophetess and Warrior, «Ethnohistory», 3, 1965, pp. 193-236. (Per berdache si intende «un individuo di un sesso biologicamente definito (maschio o femmina) che assume il ruolo e lo status del sesso opposto e che è visto dalla comunità come appartenente biologicamente ad un sesso, ma che ha assunto il ruolo e lo status dell’altro sesso»: Schaeffer, p. 231). L’esistenza lesbica è stata vista anche come un fenomeno limitato alle classi alte, come manifestazione della decandenza dell’élite (si pensi al fascino del salotto lesbico parigino di Renée Vivien e Natalie Clifford Barney), per nascondere l’esperienza delle «donne comuni» come quelle descritte da Judy Grahn in The Work of a Common Woman, New York, St. Martin Press, 1980 e True to Life Adventure Stories, Oakland, Diana Press, 1978.
45 M. DALY, Gyn/Ecology, cit. p. 15.
46 «In un mondo ostile nel quale non si pensa che le donne possano vivere se non in relazione o al servizio dell’uomo, intere comunità femminili sono state semplicemente cancellate. La storia tende a seppellire ciò che cerca di respingere» B. WIESEN COOK, Women Alone Stir My Imagination: Lesbianism and the Cultural Tradition, «Signs», 4, 1979, pp. 719-720. I Lesbian Herstory Archives di New York sono un tentativo di preservare documenti contemporanei sull’esistenza lesbica, un progetto di enorme valore e significato, ancora in lotta contro la continua censura e l’oblio di rapporti, strutture, comunità che vengono attuati in altri archivi ed altrove nella cultura.
47 A. LORDE, Uses of Erotic: The Erotic as Power, Out & Out Books Pamphlet n. 3, 1979.
48 A. RICH, op. cit. p. 209. H. D., I segni sul muro, Roma, Astrolabio, 1973.
49 V. WOOLF, Una stanza tutta per sé, cit.
50 G. CLARK, The Beguines: A Mediaeval Women’s Community, «Quest. A Feminist Quarterly., 4, 1975, pp. 73-80.
51 Si veda D. PAULMÉ (ed.), Women of Tropical Africa, Berkeley, University of California Press, 1963, p. 7, 266-267. Alcuni di questi rapporti di sorellanza sono descritti come «una sorta di sindacato difensivo contro i maschi» avendo come scopo «di offrire una resistenza concorde contro un patriarcato oppressivo», «indipendenza nei confronti del marito, rispetto per la maternità, aiuto reciproco, soddisfazione delle vendette personali». Si veda anche A. LORDE, Scratching the Surface: Some Notes on Barriers to Women and Loving, «Black Scholar., 7, 1978, pp. 31-35; M. TOPLEY, Marriage Resistence in Rural Kwangtung, in Women in Chinese Society, M. WOLF E R. WITKE (eds.), Stanford, Stanford University Press, 1978, pp. 67-89; A. SMEDLEY, Portraits of Chinese Women in Revolution, J. MACKINNON E S. MACKINNON (eds.), Old Westbury, Feminist Press, 1976, pp. 103-110.
52 Si veda R. PETCHESKY, Dissolving the Hyphen: A Report on Marxist-Feminist Groups 1-5, in Z. EISENSTEIN (ed.), Capitalist Patriarchy and the Case for Socialist Feminism, New York, Monthly Review Press, 1979, p. 387.
53 A. DWORKIN, Pornography: Men Possessing Women, New York, G. P. Putman Sons, 1981.
54 D. RUSSEL E N. VAN DE VEN, op. cit., pp. 64 e 79.
55 Il libro di J. Katz, Gay American History ha richiamato la mia attenzione sulle lettere di Hansberry a «Ladder» e devo a Barbara Grier l’avermi fornito copie di pagine importanti di quella rivista, che qui cito col suo permesso. Si veda la ristampa di «Ladder» a cura di J. Katz ed altri, New York, Arno Press; e D. CARMODY, Letters by Eleanor Roosvelt Detail Friendship with Lorena Hickok, «New York Times», 21 ottobre 1979.
56 M. LE SUEUR, The Girl, Cambridge, Mass. End Press, 1978, pp. 10-11. Le Sueur descrive in una postfazione, come questo libro fu tratto dagli scritti e dai racconti orali delle donne appartenenti alla Workers Alliance che durante la Depressione incontrarono un gruppo di scrittori.
57 Ibidem, p. 20.
58 Ibidem, pp. 53-54.
59 Ibidem, p. 55.
60 T. MORRISON, Sula, New York, Bantam Books, 1973, pp. 103-104, 149. Devo molto al saggio di L. BETHEL, This Infinity of Conscious Pain: Zora Neale Hurston and the Blak Female Literary Tradition, in All the Women Are White, All the Black Are Men, But Some of Us Are Brave: Black Women’s Studies, G. T. HULL, P. BELL SCOTT, B. SMITH (eds), Old Westbury, The Feminist Press, 1982.
61 Si vedano M. BRADY e J. MACDANIEL, Lesbian in the Mainstream: The Image of Lesbian in Recent Commercial Fiction, «Conditions», 6, 1979.
62 Si vedano D. RUSSEL e N. VAN DE VEN, op. cit.: «poche donne eterosessuali sono consapevoli della loro mancanza di libera scelta sulla propria sessualità, e poche comprendono come e perché l’eterosessualità obbligatoria ancora un crimine contro di loro».
63 L. BETHEL, op. cit.
64 La Dinnerstein, autrice che più di recente ha citato questo passaggio scrive sinistramente: «Ma quello che si deve aggiungere è che queste ‘donne allacciate’ si aiutano l’un l’altra a proteggersi non soltanto da quel che potrebbero far loro gli uomini, ma anche da quel che vorrebbero farsi reciprocamente». Il fatto è, però, che la violenza tra donne è un granellino nell’universo della violenza maschile sulle donne perpetrata e razionalizzata in ogni istituzione sociale.
65 Conversazione con Blanche W. Cook, New York, marzo 1979.


 

http://www.leswiki.it/repository/dwf-nero/DWF-rich-eterosessualita-obbligatoria.doc

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