1985, Esther Newton e Carroll Smith-Rosenberg – Il mito della lesbica

Esther Newton e Carroll Smith-Rosenberg, 1985. “Il mito della lesbica e «la donna nuova»: potere, sessualità e legittimità, 1870–1930”. Nuova DWF, n. 23-24, pp. 73-102.

E’ la traduzione di Paola Salvi de: “Le mythe de la lesbienne et la femme nouvelle: pouvoir, sexualité et légitimité, 1870-1930”, in: Strategies des femmes, Paris, Editions Tierce, 1984 (pp. 274-311).  La trascrizione è di   “Jill302”.

La «donna nuova» si è imposta tra il 1870 e il 1930. Nubile, colta, è una figura politica e professionale ad un tempo, che rifiuta apertamente il ruolo imposto alla donna dalla borghesia. Nel tentativo di stabilire la legittimità di uno spazio intermedio tra il mondo femminile convenzionale e il mondo maschile, la Donna Nuova lottava per far coincidere questa legittimità sociale con il rifiuto della famiglia e l’esercizio attivo di una professione. Ma era possibile ciò? Nella società tradizionale, matrimonio e maternità costituivano la condizione sine qua non della rispettabilità. Questa situazione provocò per mezzo secolo un aspro dibattito, che finì per incentrarsi sull’integrazione tra autonomia e sessualità femminile. Gradatamente, l’immagine della donna autonoma e quella della donna dotata di sessualità si fusero per dar vita al mito della donna sessualmente autonoma, mito che aveva in sé una forza esplosiva.
La battaglia della Donna Nuova si concentrò intorno a questa immagine mitica e politicizzata.
Dall’ultimo quarto del XIX secolo al primo quarto del ventesimo, generazioni successive di Donne Nuove si lanciarono nella mischia. La prima generazione, nata fra il 1850 e il 1860, aveva frequentato l’università negli anni fra il 1870 e il 1890, e prese il volo dall’ultimo decennio del secolo fino al termine della prima guerra mondiale. Era la generazione di Jane Addams, di Vida Scudder e Florence Converse, Charlotte Perkins Gilman e Mary Wooley. Le generazioni successive di Donne Nuove furono le figlie di questa generazione, sia per l’influenza che ne ricevettero, sia attraverso le istituzioni. [p. 74]
Nate nel corso dei due decenni in cui le prime erano passate all’azione, studentesse negli ultimi anni del diciannovesimo secolo e nei primi del ventesimo, la loro identità prese forma in quel turbolento periodo che segnò l’inizio del nuovo secolo. Fra loro troviamo Gertrude Stein, Willa Cather, Margareth Anderson e Radclyffe Hall, donne collocate politicamente molto a sinistra, che sulla questione della famiglia presero posizioni radicali come Crystal Eastiman e Margaret Sanger, altre attratte dall’arte d’avanguardia come Berenice Abbot e Isidora Duncan.
A cinquanta o cento anni di distanza le analogie riavvicinano queste generazioni successive nel loro ruolo pioneristico fuori dalla famiglia, al limite della responsabilità, e ne cancellano le differenze. Ma ogni generazione ha incontrato nella sua maturazione opportunità e possibilità intellettuali e istituzionali molto diverse. Infatti l’esistenza stessa di un’onda iniziale di Donne Nuove, che avevano ottenuto la loro parte di riconoscimento e di potere al di fuori della famiglia, doveva modificare fini e strumenti di quelle che le seguirono. Una volta raggiunto il primo obiettivo – diritto allo studio e ad una professione – si affacciarono nuove ambizioni, più complesse e contrastate. Le differenze di generazione si cristallizzarono nel diverso modo di affrontare i problemi. Le figlie si rivoltavano contro le madri spirituali. Per questo ogni generazione di Donne Nuove aveva un approccio diverso al conflitto relativo al potere, all’autonomia e alla rispettabilità e prevedeva altre strategie di lotta. Tuttavia questi restano temi e realtà comuni a tutte. Le donne di ogni generazione erano sottomesse alla pressione della famiglia, che cercavano di superare, al loro bisogno di esplorare la loro sessualità e di reagire alla concezione maschile di devianza femminile. Al centro di ogni strategia, nel cuore dell’identità che si creava ogni qual volta si operava il cambio generazionale, sorgeva in queste donne la rivendicazione di un’esistenza che fosse riconosciuta e una profonda ambivalenza nei confronti della famiglia e della sessualità.
Ma furono gli uomini e non le donne a portare per primi sul piano sessuale il dibattito sviluppatosi intorno al problema del potere politico e della legittimità sociale della Donna Nuova: se ne appropriarono considerandolo devianza sessuale o rifiuto da parte di questa del ruolo tradizionalmente assegnato al suo sesso. Come nel corso di questo mezzo secolo di lotte e di confronto la definizione di autonomia da parte della Donna Nuova cambiò, così cambiò radicalmente la definizione di devianza sessuale da parte degli uomini.
I primi censori della Donna Nuova – medici, educatori, sociologi degli anni 1870-880 che noi qui consideriamo «Uomini Vecchi» – [p. 75] misero insieme il suo rifiuto del matrimonio, la sua rivendicazione di carriera professionale e il suo ripudio del sacrosanto ruolo femminile di riproduttrice della specie. La condannarono come «deviante uterina». Ma a poco a poco il loro discorso si andò modificando e vide un crescendo.
Nel corso degli ultimi due decenni del XIX secolo e dei primi anni del ‘900, i sessuologhi, gli educatori ed i sociologhi fecero della Donna Nuova una lesbica imitatrice degli uomini. Quegli Uomini Nuovi fabbricarono un ruolo femminile intermedio e pericoloso. In realtà, per loro, una donna che rivendicava fuori della struttura familiare i suoi diritti all’autonomia sessuale, politica ed economica, tradizionale privilegio dell’uomo, non simbolizzava più solo la trasformazione della famiglia, ma quella della società. Essi modellarono la loro immagine sessuale della Donna Nuova sugli stessi cambiamenti strutturali che l’avevano fatta emergere: i mutamenti economici e istituzionali che accompagnavano la maturazione del capitalismo industriale; il caos politico e intellettuale di quel fine secolo; lo sconvolgimento della Prima Guerra mondiale. È così che durante questo periodo, il mito della lesbica virile, si costituì nello stesso tempo come elemento determinante della resistenza degli uomini alla trasformazione dei rapporti tra i sessi e e della fedeltà incrollabile dei conservatori alla «normalità» politica ed economica. Di conseguenza, negli anni Venti, questa nuova definizione di devianza non rappresenterà più solo una seria minaccia per la legittimità sul piano sessuale della Donna Nuova, ma per la sua stessa esistenza, sociale e politica, omo o eterosessuale, liberale o marxista che fosse.
Eppure nel corso degli anni Venti molte Donne Nuove, soprattutto scrittrici e artiste,adottarono nelle loro dichiarazioni pubbliche e nelle loro opere il personaggio della lesbica virile o dell’invertita congenita, nonostante questa immagine fosse contaminata da connotazioni politiche e scientifiche negative. Perché? Siamo in presenza di un semplice aspetto del concetto di devianza? Oppure almeno alcune di queste Donne Nuove si sono impadronite dell’immagine pubblica della lesbica virile proprio perché essa rappresentava una sfida diabolica all’egemonia degli uomini e incarnava il potere e l’autonomia femminile? Noi tratteremo questo livello simbolico e mitico di significato.
Questo studio ha un doppio obiettivo: seguire il percorso delle differenze apparse tra le generazioni di Donne Nuove quando si sforzavano di dar vita a un personaggio femminile pubblico dotato di potere, di legittimità e di sessualità; analizzare il ruolo simbolico giocato dalla lesbica virile nel dibattito generale del ventesimo secolo sul [p. 76] potere politico e l’ordine pubblico. Di conseguenza piuttosto di riferirci a scritti o comportamenti intimi per dare esempi di questo dibattito, sceglieremo di rivolgerci verso il campo politico e pubblico. Studieremo l’opera di medici, educatori, romanzieri, donne e uomini, appartenenti soprattutto al primo dopo guerra.
Durante questo periodo, i modernisti di entrambi i sessi fecero spesso ricorso al tema dell’ermafroditismo e del travestitismo per esprimere un mondo che essi sentivano profondamente sregolato. Tuttavia, come ha fatto notare Sandra Gilbert, precise differenze distinguevano le costruzioni simboliche maschili e femminili . Anche fra le scrittrici femministe si sviluppò tutta una gamma di temi allegorici: gioiosa presa in giro della rigida ripartizione dei ruoli sessuali in Orlando, battute nell’«Almanach des Dames» di Djiuna Barnes, tragica visione nel suo Foresta della notte. C’è tuttavia una scrittrice che incarna per i suoi contemporanei e, da allora, per tutti, la fusione delle tensioni politiche e intime subite dalla Donna Nuova rispetto alla sua sessualità. Si tratta di Radclyffe Hall che estirpò dal regno della letteratura e dall’esperienza dell’avanguardia l’immagine del sesso intermedio e della donna che si veste da uomo, per darle un significato letterale ed una risonanza psicologica. La Hall interviene cioè su due livelli del discorso: sul dibattito politico e letterario tra modernisti, uomini e donne, così come fra la Donna Nuova e i suoi denigratori per i quali la lesbica virile era simbolo del disordine sociale; ma anche sul piano del vissuto di quelle donne da poco definite lesbiche, che si sforzavano di creare una nuova figura sessuale, e di crearsi una legittimità all’interno di un mondo sempre più ostile.
Abbiamo scelto due romanzi di Radclyffe Hall, La lampada spenta (The Unlit Lampe) e Il pozzo della solitudine (The Well of Loneliness) per illustrare la sessualizzazione crescente dell’identità della Donna Nuova e le sue ramificazioni politiche e psicologiche.
La scelta di una scrittrice britannica per rappresentare la Donna Nuova – personaggio di cui ci siamo fatti, dopo il ritratto che ne tracciò Henry James, un’idea soprattutto americana – pone alcuni problemi. Possiamo affermare che Radclyffe Hall si rivolgeva alla Donna Americana e parlava in suo nome o, viceversa, che il vissuto americano costituiva una somma di quello di tutte le Donne Nuove? Ne siamo convinte. Ci spieghiamo. La vita delle donne della borghesia si equivaleva nelle due coste dell’Atlantico. È vero, le disuguaglianze di classe e le variazioni istituzionali determinavano sottili [p. 77] sfumature che differenziavano il caso britannico da quello americano o tedesco, ma le similitudini erano più numerose. Inoltre, nelle due innovazioni, la Donna Nuova degli anni Venti in realtà non era né inglese, né americana, ma seguendo l’immagine di Steven Gordon, l’eroina mitica di Well of Loneliness di Radclyffe Hall, una donna espatriata in una Parigi artificiale, quasi onirica, dove i particolarismi e le pressioni nazionali non esistevano più. È di questo e per questo gruppo sradicato di Donne Nuove che ha parlato Radclyffe Hall, gruppo che, in realtà, doveva costituire l’ultima generazione. Ma quel che conta di più è che The Well, dopo esser stato pubblicato e censurato in Gran Bretagna, fu trapiantato negli Stati Uniti, dove fu investito di un carattere mitico, trasformato dalle reazioni di generazioni di donne che non sapevano niente della grande borghesia britannica e della vita cosmopolita di Parigi. Ma fu per queste donne in fin dei conti, che il linguaggio di The Well risuonò più forte e più diretto. In loro l’opera di Radclyffe Hall trovò il suo pieno significato intellettuale e politico.

La Nuova Donna era il prodotto di un’eccezionale interazione tra forze macro-economiche e istituzionali, l’evoluzione delle ideologie popolari e la determinazione di un piccolo gruppo di donne di uscire dalla famiglia tradizionale. Verso la metà del diciannovesimo secolo, la borghesia ebbe bisogno di ridurre la propria fecondità, le figlie della classe media si sposarono sempre più tardi o non si sposarono affatto. Mai fino ad allora la famiglia era stato un elemento così marginale nella vita delle giovani donne. E l’ironia voleva che mai esse avevano rischiato di diventare membri tanto stabili. Quale ruolo sociale e familiare dovevano assumere queste giovani borghesi? Come dovevano reagire le famiglie, la società alla quale appartenevano? Il crescente benessere delle nuove classi di professionisti liberali e di amministratori, la diversificazione e la proliferazione istituzionale che accompagnava la crescita industriale e urbana, l’importanza di studi superiori in un mondo che esigeva la specializzazione e il saper-fare amministrativo, dettero vita per caso ad una istituzione in cui potevano trovare posto, almeno temporaneamente, queste ragazze che non si sposavano: gli istituti di insegnamento superiore per donne. Là esse subivano un cambiamento particolare. Allontanate dal mondo delle loro madri, uscite dalla famiglia, si consacravano al loro sviluppo intellettuale e alle loro ambizioni. Molte fra loro ne uscivano convinte che la donna era uguale all’uomo, e soprattutto che essa aveva diritto ad una carriera professionale, ad una identità pubblica. Mentre famiglia e società maschile si sforzarono di limitare [p. 78] queste donne nubili al ruolo di tenera figlia e buona zia o dama di carità, e mentre le contraddizioni economiche ne spingevano molte altre verso l’insegnamento, alcune fra le laureate riuscirono a trovare un posto nuovo ed importante nelle professioni sociali, liberali od artistiche. Esse si misero alla testa della battaglia che la nuova classe lanciava contro lo sfruttamento economico e la miseria umana conseguenza dello sfruttamento del capitalismo industriale. Queste laureate entrano nei tuguri, all’avanguardia del movimento per le case per il popolo. Innovatrici nello sviluppo della medicina per il lavoro e del servizio di cura a domicilio, ebbero una grande influenza in materia di salute pubblica. Malgrado la feroce opposizione della centrale AFL, lottarono affinché gli operai potessero usufruire della possibilità dell’organizzazione sindacale.
Fondatrici dell’Unione Internazionale delle Donne per la Pace e la Libertà, si unirono a militanti del mondo intero per resistere alla prima guerra mondiale ed alleare il pacifismo al femminismo. Si misero alla testa della rivolta progressista contro l’ordine politico tradizionale ed i suoi principi, e contribuirono così all’immagine simbolica di quella rivolta.
In questa prospettiva delle Donne Nuove della prima generazione, l’autonomia economica ed istituzionale della nubile costituiva la pietra di paragone della loro identità sociale nuova e deviante. Il settantacinque per cento delle donne che uscivano dagli istituti di insegnamento superiore fra il 1870 e il 1900 non si sposarono, percentuale che rimase pressoché immutata fino agli anni Venti. Il distacco nei confronti delle loro madri e delle altre donne della famiglia, formulato quasi sempre a malincuore, portava di frequente un elemento di critica che contribuiva al processo di formazione dell’identità. Spesso le madri sapevano comprendere la collera e l’ambizione che, come il canto delle sirene, portava le loro figlie lontane dal calore di una famiglia di cui la donna era il cuore, lontano anche dalla rispettabilità economica e sociale dell’eterosessualità. Alcune madri seguirono la via aperta delle loro figlie, ma molte reagirono con amarezza e collera.
Tuttavia la Donna Nuova non poteva e non voleva rifiutare tutti gli aspetti della maternità. Essa era stata allevata nel seno di una cellula familiare in cui i legami affettivi fra donne andavano al di là della parentela, fino alle amiche, l’amore delle quali durava tutta la vita; assistevano l’una ai parti dell’altra, dormivano insieme quando i mariti erano in viaggio, si curavano reciprocamente, piangevano e si confortavano scambievolmente. L’intimità fisica e la dipendenza affettiva costituirono un punto di partenza fondamentale per le Donne [p. 79] Nuove della prima generazione, una realtà decisiva che non abbandoneranno mai volentieri. Quando la Donna Nuova cambiava ambiente, installandosi nel dormitorio di un collegio o in una maison d’accueil, riproduceva inconsciamente questo schema di intensi legami affettivi tra donne. In ogni caso, l’amore al femminile caratterizzava sia il suo universo che quello di sua madre. Carey Thomas, studentessa a Cornell all’inizio degli anni Settanta e a lungo presidente del Bryn Mawr College, dà un’ottimo esempio del perpetuarsi di questo universo tenero e sensuale delle donne:

Cominciai a passare sempre più tempo con Miss Hicks. Prendemmo l’abitudine di andare a lavorare insieme nel bosco di Cascadella; poi, quando scendeva la notte, ci mettavamo sotto il suo scialle per parlare. Fu allora che ci capitò fra le mani il poema di Swinburne, Atlanta in Calydon. Miss Hycks mi raggiungeva in camicia da notte quando io ero già a letto, ne leggevamo alcune pagine ad alta voce e ne imparammo dei brani a memoria. Una sera avevamo letto fino a più tardi del solito, quando, seguendo un impulso improvviso mi voltai verso di lei chiedendole: «Mi ami?» Lei mi abbracciò e mormorò: «Ti amo appassionatamente.» Quella sera non tornò nella sua camera… .

Carey Thomas visse molti di questi incontri appassionati. È significativo che essa non si chiese mai se erano stati anormali, ma solo se era stato saggio da parte sua dedicare tanto tempo ai suoi legami intimi piuttosto che ai suoi studi. Così, malgrado il loro rifiuto delle costrizioni istituzionali e dei valori domestici delle loro madri, le Donne Nuove riproducevano a loro modo un elemento fondamentale della vita di quelle, l’universo femminile pieno d’amore e di sensualità. Ma una differenza significativa distingueva queste due versioni dell’amore e del rituale femminile. Il sistema di una tenera solidarietà e di intimità delle madri si era sviluppato come parte costitutiva di quello della famiglia borghese americana del diciannovesimo secolo. Le donne che insieme allevavano le loro figlie con amore, si abbracciavano, si scrivevano lettere appassionate, vivevano nella dipendenza economico-legale del matrimonio e dell’ordine patriarcale. In quest’epoca in cui per le donne della borghesia, non c’erano molte [p. 80] alternative al matrimonio e alla maternità, l’amore femminile era un complemento, più che una sfida alla famiglia e alla struttura economica. A differenza delle loro madri, le Donne Nuove della prima generazione proclamarono che le loro relazioni con altre donne costituivano un’alternativa legittima al matrimonio e alla dipendenza economica. L’abitudine da parte della società, di accettare e anche di interpretare romanzescamente teneri legami fra donne era così radicata che molte fra loro non solo scelsero di vivere con altre donne piuttosto che con uomini, ma cercarono anche di dimostrare la giustezza di questa decisione. Florence Converse, che visse tutta la vita con Vida Scudder e fu un membro rispettato della comunità universitaria di Wellesley, formulò con forza la posizione della Donna Nuova sull’amore femminile nel suo romanzo, Diana Victrix, pubblicato nel 1897. Enid, uno dei personaggi principali, respinge una proposta di matrimonio con una franchezza che appare nel saggio seguente:

– Non ho bisogno di voi. Non c’è uomo che mi piace quanto a voi.. Ma c’è una donna che mi è molto piu’ cara…
– È questo tutto quel che ci separa, disse Jacques… solo una donna?
– La ragione per la quale questa donna ci separa, replicò Enid, è che l’una non può fare a meno dell’altra. E questo non è il caso fra voi e me .

Mary Wooley, presidente di Mount Holyoke, descriveva un desiderio molto fisico nelle sue lettere a Janette Marks: «Mia cara, allungo un braccio sul letto e immagino di abbracciarti … e inginocchiata, potrei alzandomi baciare le tue amate labbra, i tuoi occhi. Ah! Il distacco mi è insopportabile…». Per la Wooley e altre Donne Nuove della prima generazione, niente poteva essere più naturale e più rispettabile che amare altre persone dello stesso sesso e vivere con loro. In un’altra lettera a Janette Marks, la Wooley confronta il suo amore per lei con quello che prova per la madre: «Per me, mia madre e te, siete le donne più care che Dio abbia creato». Ella non sentiva di aver rifiutato la famiglia in quanto tale. Nella sua mente, lei e Janette Marks erano sposate, l’atto di conversione della sua amica, [p. 81] già di religione quacquera, alla chiesa episcopale, cioè alla sua, per lei fu una cerimonia di matrimonio, nel corso della quale fecero dono del loro cuore a Dio e l’una all’altra scambievolmente. La Wooley fondava la sua devianza sessuale sulla priorità accordata alla sua carriera rispetto al matrimonio e alla maternità, e non sul fatto di amare Janette Marks e di vivere con lei.

All’inizio il mondo maschile dei medici, educatori e sociologi, fece quadrato. Negli anni che seguirono la Guerra di Secessione, medici ed educatori elaborarono una complessa teoria psicologica che condannava la donna nubile e i suoi figli come devianti dal punto di vista sociale e sessuale. Considerando il corpo come un sistema d’energia chiuso su se stesso, affermarono che la salute dipendeva da una correlazione energetica conforme ad una rigida gerarchia sociale delle priorità psicologiche. Gli assiomi della teoria erano semplici e chiari: cervello e utero non potevano svilupparsi contemporaneamente nel corpo della donna. Gli studi fatti da adolescente o da adulta avrebbero sviato l’energia del suo sistema riproduttivo a vantaggio del cervello. Spostamento d’energia contro natura che avrebbe avuto non solo l’effetto di rendere la donna sterile e di erodere, forse di distruggere, il suo interesse al matrimonio e alla maternità, ma causato anche gravi disturbi nervosi arrivando all’isteria e alla follia. La biologia, proclamavano dunque questi signori della medicina, esigeva dalle donne che esse sacrificassero il loro sviluppo intellettuale ai bisogni della famiglia e dello Stato.
Tuttavia c’è da notare che questi progetti della scienza medica maschile non si applicavano solo alla Donna Nuova ma anche alle sorelle sposate, che conformandosi al bisogno borghese di famiglie meno numerose, praticavano il controllo delle nascite, e forse erano anche ricorse all’aborto. Solo la fecondità era naturale, evitare d’avere figli rappresentava di fronte alla società una devianza marcata, un pericolo organico grave quanto gli studi. Il cancro, la follia, disturbi ginecologici senza fine avrebbero punito la sposa che si sottraeva ai suoi doveri verso la specie. Ma significative differenze distinguevano le punizioni psicologiche che minacciavano ciascuna di queste donne. Certo, isteria e follia avrebbero colpito l’una e l’altra, ma solo la Donna Nuova nubile avrebbe visto la sua persona subire una moltitudine di anomalie che l’avrebbero pericolosamente mascolinizzata. Atrofizzazione del seno, irregolarità o scomparsa delle mestruazioni. Queste donne flirtavano con l’ermafroditismo (ma, notiamo, non con il lesbismo). Medici ed educatori elaborarono una teoria simmetrica che riguardava lo sviluppo intellettuale dei giovani maschi. [p. 82] Anche là, secondo le premesse di un sistema chiuso di riparazione energetica, condannavano all’unisono la masturbazione adolescenziale che sviava l’energia degli organi virili superioni (cervello, cuore) a vantaggio degli inferiori (gli organi genitali): tutto ciò portava all’impotenza, alla follia, alla femminilizzazione perfino all’omosessualità. Il linguaggio dei medici e degli educatori era diventato politico e misogino. I primi contenti di fare della donna che non partecipava alla riproduzione un simbolo della deformazione della famiglia e della società, tentarono , attraverso misure legislative di diventare padroni della Donna Nuova. Il decreto Comstok interdiceva dal servizio delle poste americane l’informazione sul controllo delle nascite. L’aborto era diventato illegale nell’ultimo decennio del diciannovesimo secolo.
La Donna Nuova raccolse coraggiosamente la sfida di questi profeti di sventura al di fuori del tempo. Ella seppe crearsi un suo linguaggio per negare d’essere contro natura dal punto di vista psicologico, o deviante in rapporto alla società. Rifiutando l’argomentazione maschile fondata sulla nozione di sistema chiuso d’energia, la Donna Nuova fece notare che l’educazione, l’esercizio fisico e una carriera professionale rinforzavano invece di indebolire lo spirito e il corpo delle donne. La donna dedita alla casa, invece, debilitata da frequenti gravidanze, affaticata da una famiglia numerosa, era molto più esposta a depressione, disturbi isterici e ginecologici delle sorelle che avevano studiato. La donna non era obbligata a partorire bambini per realizzare il suo istinto materno. Secondo Jane Addams e altre, le riformatrici che consacravano la loro vita alla salute e al benessere dei bambini rispondevano alla loro vocazione materna occupandosi non del piccolo numero rappresentato dalla loro progenitura biologica, ma dei bambini di un’intera città, perfino di un’intera nazione. Inoltre, non corrotte dal mondo della politica e degli affari, erano molto più qualificate degli uomini per lottare per la giustizia sociale. È così che la prima generazione di Donne Nuove intrecciò insieme tre discorsi distinti: la proclamazione del diritto di ognuno a realizzarsi; una romantica visione della superiore morale delle donne; un nuovo approccio scientifico, ottimista e non determinista. Associata all’entusiasmo progressista e alla fede nella capacità dell’individuo di cambiare il mondo, nel contesto di una struttura sociale borghese in cui il tasso di natalità e di matrimonio si abbassava regolarmente, la Donna Nuova vinse con facilità questa prima battaglia scientifica con i Vecchi Uomini del XIX secolo.
Ella aveva appena affermato il potere e la sua legittimità sociale che medici e sociologi scatenarono una nuova ondata di [p. 83] attacchi destinati a minare questo potere e questa legittimità. Nella sempre più accesa retorica scientifica della fine del secolo e inizio del seguente, la Donna Nuova assunse un carattere sempre più sessuale e pervertito. Un nuovo dibattito si aprì su questo argomento. L’Uomo Nuovo trasformava la Donna Nuova in lesbica virile, pericolosa e senza pudore.
Il medico più responsabile di questa etichetta di omosessualità femminile appiccicata sulla Donna Nuova fu Richard Krafft-Ebing. In conformità al metodo tassonomico così diffuso negli ambienti scientifici post-darwiniani del diciannovesimo secolo, egli divise le lesbiche in quattro categorie o gradi di devianza. Questa ripartizione si basava sull’idea che l’omosessualità non si poteva più considerare uno smarrimento morale.
Essa era una malattia di degenerazione, radicata nella natura genetica dell’individuo, una china fatale e non una scelta volontaria. La prima categoria di lesbiche di Krafft-Ebing comprendeva quelle donne che «non tradiscono la loro anomalia attraverso l’aspetto esteriore o caratteristiche (maschili) nel campo sessuale o mentale». Tuttavia esse si mostravano sensibili alle avances delle donne dall’andatura e dal comportamento virile. Le donne della seconda categoria, chiamate da Krafft-Ebing «virago»avevano una marcata preferenza per i vestiti da uomo, corrispondevano a quelli che sul versante maschile erano chiamati effeminati. Dal terzo grado in poi «l’inversione è pienamente dichiarata, la donna che ha questo comportamento adotta apertamente un ruolo maschile». Il quarto grado, o «ginandria», rappresentava «lo stadio estremo d’ omosessualità dell’essere degenerato». Krafft-Ebing nel 1889 lo spiegava così:

La donna di questo tipo dei tratti femminili possiede solo gli organi genitali; il pensiero, i sentimenti, i gesti e perfino l’aspetto esteriore sono simili di un uomo. Persone simili si incontrano abbastanza spesso, in loro la larghezza delle spalle, il bacino, l’andatura, i tratti mascolini, la voce rude e grave, ecc., fanno pensare più all’uomo che alla donna .

Facendo sua l’affermazione di Ulrich, secondo la quale l’omosessualità aveva un’anima di donna in un corpo di uomo, Krafft.Ebing sottolineava il comportamento e i gusti maschili delle lesbiche: [p. 84]

Si può quasi sempre sospettare l’omosessualità nelle donne che portano i capelli corti, che si vestono come gli uomini o che praticano gli sport e i passatempi del loro ambiente maschile; lo stesso si può dire per le cantanti d’opera e le attrici che preferibilmente si mostrano sulla scena travestite… Troveremo la fattura omosessuale fra i ragazzi. È loro rivale nei giochi, preferisce il cavallo a dondolo, i soldatini di piombo, ecc. alle bambole e agli altri giochi da bambina. Trascura il suo aspetto, assume modi da ragazzo. Lo studio delle scienze si sostituisce all’amore per le arti. Disdegna profumi e dolciumi. La coscienza di essere una donna e in quanto tale privata della spensierata vita studentesca o esclusa dalla carriera militare, le causa amarezza. L’anima virile che gonfia il petto della donna, la porta alla pratica di sports maschili e a manifestazioni di coraggio e ardimento .

Nei casi citati, Krafft-Ebing sottolinea la tipizzazione precoce, fin dall’infanzia, del rifiuto da parte di queste donne del ruolo assegnato al loro sesso. Afferma anche che loro stesse si vivono, nei confronti della società e della sessualità, come uomini. Del resto dagli ultimi 20 anni del secolo i due piani si sono strettamente legati. Per Krafft-Ebing e altri medici e scienziati del diciannovesimo secolo, il politico era sessuale. Questo amalgama si manifesta chiaramente nell’esposizione di Krafft-Ebing a proposito di una paziente:

Fin dalla più tenera infanzia, ella preferiva giocare con i soldatini e altri giochi da bambini; coraggiosa, aveva modi da ragazzo mancato e cercava perfino di superare i più piccoli compagni dell’altro sesso. Le bambole, i lavori all’uncinetto o le faccende domestiche non le erano mai piaciuti… (dopo la pubertà) i suoi sogni assunsero un carattere lascivo, vi comparirono solo donne ed ella stessa svolgeva il ruolo dell’uomo .

Il rifiuto della ripartizione tradizionale dei ruoli tra i sessi e i suoi sogni sessuali di donne divengono segni psicologici. «Ella era completamente cosciente del suo carattere psicologico», nota Krafft-Ebing. «Tratti mascolini, la voce grave, l’andatura di un uomo anche [p. 85] se imberbe, il seno piccolo. Portava i capelli corti e faceva l’effetto di un uomo vestito da donna ».

I primi dibattiti medici sul lesbismo negli Stati Uniti rifletterono l’insistenza di Krafft-Ebing sull’adozione di un comportamento e di un abbigliamento maschile. Il primo articolo americano sul problema, pubblicato nel 1883, esponeva il caso di una donna che aveva vissuto travestita per tutta la sua vita, interpretando il ruolo del marito di un’altra donna e guadagnandosi da vivere come cacciatore. Era stata scoperta durante un internamente per delirio depressivo e vagabondaggio. Nel decennio seguente il numero dei casi di lesbismo descritti nelle pubblicazioni mediche aumentò molto. Si trattava soprattutto di donne travestite e povere, che attiravano l’attenzione su di loro quando erano internate in ospizi, asili o prigioni.
Fin qui, nei commentari medici maschili sul lesbismo non si trovavano accenni riferibili alla vita e agli amori delle donne della borghesia colta, come Mary Wooley, Florence Converse o Carey Thomas. Queste donne esaltavano le caratteristiche femminili di coloro che amavano; non prendevano in prestito il vestito dell’altro sesso. Nessuna di loro dichiarò di sentire d’avere un’anima maschile costretta in un corpo da donna. Soprattutto, rimanevano protette dalla loro classe. Se avessero sentito parlare della lesbica di Krafft-Ebing – nella quale si univano l’ambizione virile, il comportamento del travestito e la passione sessuale pervertita – l’avrebbero considerata come una persona lontana da loro, contro natura.
Ma la loro innocenza non doveva durare a lungo. Havelock Ellis spezzò l’armonia che si era formata nella persona della Donna Nuova, fra l’autonomia acquisita da poco e l’antica sessualità. Ellis rifiutando sia la tesi di Krafft-Ebing e di Ulrich, secondo cui un’anima maschile dimorava nel corpo di lesbica, sia il presupposto dei medici americani, per i quali il lesbismo era un fenomeno tipico delle classi inferiori, affermò che le lesbiche erano spesso donne brillanti, colte e seducenti. Quel che distingue una lesbica, diceva Ellis, non è il suo vestito, ma il suo amore per le donne. E non è neanche necessario che questo amore comprenda l’eccitazione genitale. «Ella ama abbracciare, cingere con le braccia le donne che l’attirano…», scriveva Ellis nel 1895. In seguito egli definiva invertita e omosessuale anche la passione fra scolare o studentesse descritta da Carey Thomas nel suo diario una ventina di anni prima: [p. 86]

Accade spesso che l’amica, anche se poco attenta nelle sue reazioni, provi un’emozione sessuale più o meno definita (turgidezza vaginale accompagnata da secrezione di muco e contrazione involontaria dei muscoli vicini) anche se questo fenomeno attira poco o per niente la sua attenzione, rischia del resto di non essere compreso per l’ignoranza delle ragazze in materia sessuale. In alcuni casi c’è il tentativo intuitivo od istintivo di coltivare l’eccitazione sessuale con strette e baci. La scarsa varietà delle relazioni sessuali credo sia più diffusa fra le ragazze che fra i ragazzi… In tutti i casi queste amicizie appassionate, a carattere sessuale più o meno incosciente, si incontrano spesso .

Contrariamente alle osservazioni mediche che l’avevano preceduto, Ellis sosteneva che l’omosessualità era due volte più frequente fra le donne che fra gli uomini, era diffusa fra le studentesse e le donne attive nei movimenti politici riformisti. Dal primo decennio del ventesimo secolo in poi, i medici americani si appellarono a Ellis per provare che il lesbismo si scatenava negli istituti di studi superiori per donne. «Pensionati per ragazze e istituti di studi superiori costituiscono un fertile terreno per la cultura artificiale dell’omosessualità…», scriveva R.W. Shuflat nel «Pacific Medical Journal» nel 1902. Nel 1900 Willam Lee Howard nel rispettabile «New York Medical Journal» tacciò tutte le riformatrici di degenerazione sessuale:

La donna animata da idee maschili di indipendenza, la virago capace di mettersi sulla pubblica via per alzare la sua voce pseudo-virile e proclamare il suo esclusivo diritto di disporre su questioni di guerra o di religione, del valore del celibato e della maledizione della donna impura, e quell’essere ripugnante antisociale che è la perversa sessuale, marcano solo gradi differenti della stessa categoria: le degenerate .

Nei primi decenni del ventesimo secolo i medici e gli educatori scatenarono una campagna contro la lesbica sovversiva e pericolosa. [p. 87] Vennero pubblicati articoli che deploravano la diffusione del lesbismo nelle prigioni e nelle case di correzione. L’amministrazione dei collegi, sensibile al cambiamento di posizione del pubblico e degli specialisti, modificò il regolamento dei dormitori e cominciò a mettere in guardia le ragazze contro i pericoli di appassionate amicizie femminili. Dagli anni venti in poi l’accusa di lesbismo era divenuta una pratica conveniente per screditare le donne nella loro carriera professionale; contro questa minaccia si rivoltarono gli uomini difensori dell’emancipazione sessuale della libera unione.
La trasformazione della Donna Nuova in lesbica virile servì ai suoi diffamatori in due modi. A livello più immediato ed evidente permetteva agli uomini di esprimere il timore che ispirava loro la donna sessualmente autonoma, liberata dalle costrizioni della famiglia patriarcale, la donna che aveva una vita sessuale dalla quale si sentivano esclusi. Classificando questa donna estranea alla famiglia come deviante congenita, gli uomini miravano a riportare, con l’intimidazione, alcune Donne Nuove verso un’unione eterosessuale e a punire altre che persistevano nel loro rifiuto degli uomini.
Ma il corpo ha una dimensione simbolica e una materiale. In momenti di radicale sconvolgimento, coloro che si sentono minacciati cercano di imporre un ordine fittizio attraverso l’elaborazione di categorie e sistemi, soprattutto in quel settore della vita umana che più si presta a tentativi di controllo e manipolazione: il corpo e la sessualità. In questi momenti, più che mai, la paura del disordine sessuale e quella del disordine sociale, si uniscono. Chiunque disobbedisca alle tradizionali regole della società, chiunque viva al di fuori delle categorie e delle istituzioni o zone intermedie, sarà presentato come il simbolo del disordine sociale dai guardiani dell’ordine vigente. Le anomalie sociali che potrà presentare la sua esistenza saranno trasformate in caratteristiche sessuali contro natura. La vita di questa persona sarà passata al setaccio, gli stadi progressivi della sua degenerazione sessuale accuratamente annotati. In questo modo si sarà ritualmente contenuto il cambiamento sociale incarnato da coloro che ormai vengono chiamati devianti, riaffermato simbolicamente il carattere sacro e inviolabile delle categorie e dei meccanismi tradizionali.
È in questa prospettiva che dobbiamo considerare gli sforzi accaniti ed ossessivi dei sessuologi della fine del diciannovesimo secolo e dell’inizio del ventesimo per incollare le loro categorie tassonomiche nel caos naturale della sessualità umana e dei suoi fantasmi. Ancora più concretamente è in questo senso che bisogna analizzare la lesbica virile così come nasceva alla fine del XIX secolo. Anima virile  [p. 88] imprigionata in un corpo femminile, donna che voleva essere uomo. La Lesbica Maschile violava tutte le tradizionali categorie sessuali e sociali e incarnava nello stesso tempo il potere della sessualità femminile che si sottraeva al controllo degli uomini. Concentrazione di simboli, rappresentava tutto ciò che era illegittimo, incontrollabile o inspiegabile in un mondo trasformato dal capitalismo industriale e dalla guerra mondiale. Qualificandola come una persona contro natura, sforzandosi di eliminarla sia simbolicamente che realmente, i sessuologi, i riformatori della vita sessuale, gli educatori e i politici cercavano di rafforzare un ordine sociale tradizionale radicato nella coniugalità eterosessuale e nella dipendenza economica delle donne che ne conseguiva. Quel mondo gli uomini della borghesia l’avevano governato senza problemi e, di fronte all’abisso tenebroso e sconosciuto dei cambiamenti politici ed economici, lo identificavano con la sicurezza e l’ordine.
La Donna Nuova oppose esitanti reazioni alle accuse dei sessuologi. Le sue difficoltà erano due, almeno, di fronte alla fusione che essi facevano fra dibattito il dibattito specifico sulla sessualità e l’idea che la Donna Nuova sessualmente emancipata incarnasse il disordine sociale. La Donna Nuova del ventesimo secolo voleva ad ogni costo esplorare e comprendere la propria sessualità. Su questo si distingueva radicalmente dalle donne della prima generazione, per le quali la posta in gioco più importante era stata l’emancipazione dal matrimonio e dalla maternità, l’affermazione del loro diritto a compiere studi superiori e ad avere una professione. Ma, ironicamente, acquisendo questi diritti la prima generazione aveva aperto la strada alle pioniere seguenti per l’esplorazione degli aspetti più complessi e contraddittori dell’autonomia femminile. La rivoluzione sessuale dell’inizio del ventesimo secolo incoraggiò queste ricerche facendo della realizzazione della persona e della sessualità una caratteristica dell’adulto. La seconda generazione, la terza generazione di Donne Nuove, che conseguirono la maturità subito prima o subito dopo la prima guerra mondiale, avrebbero potuto chiamarsi adulte autonome se fossero rimaste letteralmente asessuate o avessero continuato a nascondere la loro sessualità con le terminologie romanzesche delle loro nonne vittoriane? No. Per la Donna Nuova del ventesimo secolo la posta in gioco non era più l’autonomia, ma l’identità sessuale. Molte cercarono [p. 89] appagamento nell’amore libero eterosessuale, altre nel matrimonio accettando la prova che loro offrivano, tentatori, i fautori maschili dell’emancipazione sessuale. Altre si proclamarono lesbiche. Ma così facendo, crudele paradosso, prendevano dai loro avversari politici – i sessuologi – un vocabolario e un sistema che serviva loro per definire la loro passione per altre donne. Non esisteva un’altra terminologia, un’altra categoria, poiché prima dell’intervento dei sessuologi l’amore fra donne non era considerato come sessuale, e dunque non lo si era giudicato contro natura. La definizione di Krafft-Ebing di una categoria di invertite congenite offrì alle Donne Nuove della seconda e della terza generazione una dolorosa identificazione sessuale. (L’unica loro alternativa, la combinazione di depravazione e prostituzione presentata da Nana e altri romanzi del diciannovesimo secolo, era ancora più inaccettabile per donne della borghesia che tenevano alla loro carriera, alle riforme sociali e agli studi superiori per le donne).
La femminista britannica Frances Wilder, in una lettera inviata allo studioso di omosessualità Edward Carpenter, mostra come le donne della seconda generazione si fossero servite del concetto di un sesso intermedio per legittimare i sentimenti che le altre donne ispiravano loro. Fin da adolescente, Frances Wilder, aveva amato le donne, aveva desiderato «carezzarle», «coccolarle», ma ella non aveva affatto attribuito un carattere sessuale a questa attrazione e non l’aveva soddisfatta. Dopo aver letto Carpenter, «comprendeva di appartenere più al sesso intermedio» di quel che avesse mai pensato fino ad allora. Ora, spiegava, era in grado di riconoscere le sue tendenze sessuali, ed uscire da una solitudine nata dalla repressione. Ma ammettere una definizione medica di anormalità sessuale non significava che la femminista Wilder accettasse la definizione di devianza politica e sociale. Ella terminava la sua lettera con una violenta denuncia dell’asservimento nel matrimonio .
Oltre ad aver procurato alle Donne Nuove della seconda generazione una combinazione concettuale indispensabile per situare i loro desideri per altre donne, i sessuologi aiutarono quelle degli anni Venti nel tentativo di costruire la propria identità, ben distinta sia da quella delle madri biologiche che da quella delle genitrici spirituali della prima generazione, le quali per ottenere la considerazione sociale a cui erano profondamente ancorate, avevano accettato la maschera della rispettabilità vittoriana. Autonomia e sessualità sono [p. 90] diritti dell’essere umano, affermò la seconda generazione. Queste ribelli, rifiutando di pagare il prezzo accettato dalla prima generazione e cercando lo schock e la sfida, forgiarono una nuova identità socio-sessuale. Bevevano, fumavano, rifiutavano l’abbigliamento femminile tradizionale, andavano all’estero, affermavano coraggiosamente la loro sessualità – sia sottoforma di libertà eterosessuale, sia di un lesbismo maschile e travestito.
Nella loro esaltazione del celibato emancipato e della cultura delle «boîtes» degli anni Venti, le eredi sessualizzate delle donne del 1900 rifiutavano ogni tipo di famiglia – sia quella delle loro madri biologiche che quella spirituale di Mary Wooley e Jane Addams. Per alcune questo rifiuto, il rifiuto della rispettabilità sessuale e della famiglia, era un fatto privato. Per altre, un atto politico: la condanna simbolica dei valori di una società borghese che aveva non solo tollerato le ingiustizie del capitalismo industriale, ma anche le oscenità patriottiche e le inumane sofferenze della Grande Guerra. Ma con questa scelta di una sessualità proclamata come un simbolo della loro rivolta, le Donne Nuove degli anni Venti si alienarono, a volte deliberatamente, a volte a malincuore, quelle della prima generazione che non potevano comprendere il loro atteggiamento e la loro collera.
Ad un terzo livello, la Donna Nuova degli anni Venti, così come l’Uomo Nuovo, si servì dell’immagine simbolica della lesbica virile per porre con forza la questione politica decisiva: dov’era la legittimità. Dalla parte della Donna Nuova dotata di potere politico e d’autonomia sessuale o dalla parte di un sistema economico e politico fondato sulla famiglia e su una rigida divisione del lavoro in base al sesso? Per i maschi difensori dell’ordine tradizionale – un gruppo che andava dai sociologi ad alcuni scrittori modernisti, come James Joyce e D.H. Lawrence – l’ineguaglianza dei sessi era naturale e giusta. Questi uomini confondendo la nozione di sesso, di funzioni genitali e scelta sessuale, avevano creato il supremo mito borghese: la funzione genitale impone l’ineguaglianza fra i sessi e la scelta eterosessualità. Partendo da un dato storico o sociologo – l’ineguaglianza fra i sessi e l’eterosessualità, essi avevano inventato un fenomeno pseudo naturale e dunque sacrosanto. La Donna Nuova degli anni Venti si impadronì dell’immagine della lesbica virile per farne l’espressione simbolica della rivolta contro l’ineguaglianza dei sessi, rovesciò il processo di creazione del mito borghese. Invece di far passar per naturale ciò che era solo contingente, ella dichiarò se stessa contro natura mettendo così in questione il concetto stesso di «naturale». Per la Donna Nuova, che raccoglie la sfida e assume pubblicamente il ruolo della lesbica virile, niente è più naturale, né [p. 91] l’ineguaglianza fra i sessi, né la scelta sessuale, neanche il corpo nudo. Così l’invertita sovvertiva l’ordine borghese. Questa era senza dubbio l’intenzione di Virginia Woolf in Orlando dove ogni forma è indeterminata, fluida, mutevole. Distinzioni rigide e categoriche sono come spazzate via dalla Grande Inondazione surrealista che dilaga su Londra sotto gli occhi di Orlando. In La foresta della notte Djiuna Barnes inverte la notte e il giorno, avvicina l’umano del regno animale, getta una sfida molto più tragica e più aspra al mondo borghese.
La differenza fra la commedia in costume di Virginia Woolf e la tragica visione di Djiuna Barnes è significativa. Entrambe si servono del travestitismo e della transessualità per accusare l’inadeguatezza sessuale e la famiglia patriarcale. Ma assumere per sé l’immagine della lesbica virile, vivere al limite delle categorie, fuori dall’ordine – questa, negli anni Venti e Trenta, la sorte delle donne che si proclamavano lesbiche – era un’altra cosa, piư dolorosa e più pericolosa di creare un’inversione surrealista dei sessi. Le scrittrici lesbiche dichiarate vivevano contemporaneamente il simbolo e la realtà.
The Well of Loneliness (Il pozzo della Solitudine) di Radclyffe Hall, il romanzo lesbico per eccellenza, attua la fusione fra il reale e il simbolico, fra il campo strettamente privato e quello politico spettacolare. L’eroina Steven Gordon, incarna la rivolta femminile sotto tre aspetti: simbolizza l’illegittimità della Donna Nuova e della sua rivolta di fronte all’ordine patriarcale; proclama la forza autonoma della sessualità femminile; rappresenta una nuova minoranza sessuale: le lesbiche. L’intensità e la complessità di questo personaggio, in quanto simbolo, affascinarono i lettori contemporanei a Radclyffe Hall, tanto che Steven divenne il mito supremo della lesbica, con profonde conseguenze sul destino delle lesbiche e del femminismo.

Radclyffe Hall (1880 – 1943) era l’erede leale della prima generazione di Donne Nuove, ed è in questo contesto che conviene considerare la sua opera. Niente, meglio del confronto fra The Well e il suo romanzo precedente, The Unlit Lamp (1924) , può spiegare questa [p. 92] affermazione. Concentreremo la nostra analisi sul ruolo di simbolo centrale che lei attribuisce al corpo femminile e alla famiglia nei due romanzi.
The Unlit Lamp costituisce in piena comunità di vedute, l’analisi fatta dalla Hall delle madri spirituali, le Donne Nuove della prima generazione, e della loro lotta per liberarsi dalla famiglia: una madre divorante annienta la rivendicazione d’autonomia della figlia. L’autrice capisce che per la prima generazione, la rottura economico-sociale con la famiglia, con il focolare, costituisce la prima e necessaria condizione per la libertà.
Dotata, ambiziosa, Joan Ogden è la figlia di una famiglia della media borghesia che vive in una città di provincia in Inghilterra. La giovane Joan ha come istitutrice Elizabeth Rodney, diplomata a Cambrdge, la quale sogna di vedere Joan scappare da Seaburne e diventare medico. Ma la signora Ogden, l’ipocondriaca madre di Joan, vuol tenere a tutti i costi la figlia vicino a sé. Quando Elizabeth propone di dividere con Joan un appartamento a Cambridge, finché lei non avrà terminato gli studi di medicina, la signora Ogden fa fallire il progetto colpevolizzando la figlia. Elizabeth sposa un uomo ricco che non ama e parte verso l’Africa del Sud dove vivrà una vita attiva. Joan resta a casa per occuparsi della madre. L’alternativa per lei era partire con Elizabeth e diventare medico o restare a casa per giocare gratuitamente il ruolo d’infermiera-dama di compagnia presso la madre e la sorella. Ella riflette sul desiderio di lasciare la madre in termini comuni alla «prima generazione».

Quel che Joan progettava le sembrava crudele, anche verso se stessa… «Signore, si diceva amaramente, non si può in questo mondo sviluppare la propria personalità senza soffrire o far soffrire qualcun altro?» strinse i pugni «Non mi importa, non mi importa! Io ho il diritto di vivere la mia vita e partirò in agosto. Sfido i precedenti.»

Ma a differenza di Carey Thomas e altre pioniere vincitrici della prima generazione, Joan non riuscì ad affrontare la sua individualità. I legami familiari femminili sono una «piovra» (primo titolo del romanzo) che soffoca la vita. Elizabeth invece offre a Joan «l’amicizia… la comprensione… aiuto per il lavoro e per i giochi, lo spirito d’iniziativa». Anche un benevolo pretendente maschile sostiene le ambizioni di Joan, malgrado lei preferisca immaginare la propria vita con Elizabeth.
In The Lamp, Radclyffe Hall si serve della famiglia per simbolizzare la società, il modo in cui questa impone la divisione tradizionale [p. 93] dei ruoli sessuali e condiziona la realizzazione della personalità femminile alle norme accettate dalla borghesia. La Hall associa spesso la famiglia con le convenienze borghesi: l’abbigliamento appropriato, i ricevimenti soffocanti, le maldicenze provinciali e soprattutto la ben definita divisione dei ruoli uomo-donna. Il colonnello Ogden è un tiranno domestico vecchio stampo, la signora Ogden è una donna di casa. Spaventata da ogni cambiamento, di scarsa immaginazione e poco creativa, la madre cerca di trattenere la figlia e di confinarla in una vita completamente banale.
Invece, per simbolizzare il rifiuto delle donne della tradizionale diseguaglianza tra i sessi e il rifiuto dei valori borghesi, la Hall descrive un corpo virilizzato, un modo ambiguo di vestirsi, uno spirito vigoroso e attivo. Joan vuol diventare medico, è dotata di una viva intelligenza, è forte, piena di salute. Mentre passeggia con Elizabeth nelle fredde giornate d’inverno, parla di scienze e di una vita lontana dalla coniugalità e dall’inverno chiuso in se stesso di Seaburne. Adolescente, Joan era «grande per la sua età, larga di spalle, svelta come un ragazzo, pallida, con i capelli corti». Elizabeth guardandola pensa ad «un puledro». Ma dopo aver perduto la battaglia per la sua autonomia il suo corpo cambia, la sua salute si deteriora, perde la capacità di muoversi liberamente, di vedere con chiarezza. A quarantatré anni è una donna vecchia, in preda all’isteria e alla nevrastenia:
Da qualche tempo si preoccupava della sua salute, non di proposito, ma per una serie di piccoli sintomi noiosi che la tormentavano.., la sera, quando andava a letto, le facevano male le gambe… non provava nessuna gioia a svegliarsi la mattina; temeva sempre di più il momento di aprire la finestra, perché i suoi occhi erano molto sensibili alla luce…

L’associazione fra nevrastenia e i confini tradizionalmente attribuiti alla personalità femminile si rafforza nel paragrafo seguente:
Anche se la sua mentalità cambiava gradualmente aveva la testa piena di mille piccole cose. Ogni piccolezza la inquietava… da molto tempo aveva perso l’interesse per qualsiasi forma di studio, anche i libri meno seri la stancavano; ormai, se leggeva, si trattava solo di romanzi insignificanti infatti preferiva le riviste.»
Il tema del corpo virile non è molto accentuato, e Joan non è un travestito. Ma in una scena molto importante, verso la fine del [p. 94] romanzo, il vestito maschile è utilizzato senza ambiguità come simbolo dell’affermazione di sè e della modernità. Le donne della seconda generazione vengono descritte così:

Donne attive, di una viva intelligenza, senza alcuna ricercatezza nello stile maschile del loro vestito, né imbarazzate dai loro capelli tagliati corti; donne che facevano bene quel che facevano, cose importanti.. donne eleganti, vestite con cura, che somigliavano a giovani di buona educazione.
Quando due di loro vedono Joan, che ora è una donna sciupata, fallita, prendono in giro il suo stile fuori moda:

«Hai visto quel tipo con i capelli grigi tagliati corti?» «…Divertentissimo, vero? Perché quel drappo marezzato al posto di una vera cravatta?». «Credo che sia quel che una volta si chiamava una Donna Nuova», disse la ragazza con i pantaloni ridendo con tono grave. «E un’avanguardista rimasta insabbiata. Credo che sia l’inizio delle ragazze del mio tipo…».

Sebbene l’ambiguità del sesso sia positivamente associata con l’autonomia, ogni esplicito approccio alla sessualità è assente. «Nella mia vita non sono stata mai quei che si dice innamorata di un uomo», dice Joan a un pretendente, senza ombra d’angoscia o di fastidio. La sua appassionata relazione con Elizabeth è descritta nel tradizionale linguaggio dei sentimenti, mai in termini sessuali. La sessualità non costituisce per Joan la posta in gioco, come la sua ambizione non è simbolizzata in termini sessuali. The Lamp è un romanzo sull’autonomia, non sulla sessualità.
The Well of Loneliness, invece, tratta la sessualità come metafora della legittimità politica della Donna Nuova, caratteristica stessa che definisce le lesbiche. «Sesso intermedio», la lesbica virile diviene l’immagine della Donna Nuova, personaggio che si pone in margine alle categorie politiche e sociali tradizionali. Il suo fallimento, nel libro, simbolizzava l’isolamento crescente della Donna Nuova nel mondo politico intorno al 1925. Ad un secondo livello simbolico, Steven Gordon rappresenta la lotta delle nuove lesbiche per definire e affermare un’identità sessuale.
I genitori volevano un maschio, tanto che il padre la chiama Steven e le accorda molte libertà di solito riservate ai ragazzi. Man mano che cresce, assomiglia al padre, nel fisico e nel carattere, disprezza [p. 95] le occupazioni e i vestiti femminili. Verso la fine della sua adolescenza respinge uno spasimante comprensivo, perché non è attratta sessualmente; a vent’anni si innamora appassionatamente della moglie del vicino. Questa, per salvare la propria reputazione finisce per tradire Steven. Più tardi, la madre di Steven costringerà la figlia a lasciare Morton, l’ambiente familiare, e la giovane donna, leggendo Psychopathia Sexualis di Krafft-Ebing, nella biblioteca del padre ora morto, scoprirà di essere un’«invertita»: identità difficile da sopportare, ma che ella accetta subito.
Durante la prima guerra mondiale, Steven è infermiera e si innamora di Mary. In vacanza, dopo l’armistizio, Steven si sforza di rimanere casta, ma Mary l’obbliga ad affrontare la sua sessualità; diventano amanti. L’amore lesbico è divenuto finalmente sessualmente esplicito.
Ma la vita a Parigi, dove si stabiliscono, pone sempre più problemi. Steven è troppo assorbita dal suo lavoro di scrittura, Mary si annoia e si sente infelice. Soffrono entrambe di vedersi escluse dalla società borghese eterosessuale. Alla fine Steveny finge d’avere una relazione per rendere la libertà a Mary, che parte a malincuore con Martin, l’antico spasimante di Stephen e quest’ultima si ritrova sola.
Sia The Lamp che The Well hanno come soggetto l’autonomia, il potere e la legittimità. Ma l’agente di inibizione della Donna Nuova cambiato. In The Lamp, è presa nella trappola della famiglia. In The Well, la trappola è lo stesso corpo femminile.
Il risultato è che l’importanza e la risonanza di questi simboli cambiano da un romanzo all’altro. Nel primo, la famiglia è descritta con realismo e personificata dalla madre, che domina la storia. Questa famiglia è femminile, possessiva, distruttrice. La signora Ogden incarna la colpevolizzazione, la rispettabilità e l’assoggettamento dell’individualità che distruggono Joan.
Anche Steven Gordon è costretta a lasciare il focolare per realizzarsi. Ma questa volta la famiglia è emblematica, nostalgica e molto più mascolina. Invece di spezzare Steven nella sua stretta, la respinge e l’abbandona. Essa rappresenta qui la legittimità sociale rifiutata a Steven solo perché è nata donna. Nonostante suo padre le abbia dato i suoi tratti, la sua intelligenza e un nome da ragazzo, ella non può, cosa tragica, divenire la sua vera erede. La sua illegittimità è intrinseca al fatto di essere una donna eroica, ella si trova a suo agio solo nelle pagine di Krafft-Ebing. Come quella di Joan, la madre di Steven schernisce la sua individualità. Ma determinante non è più la madre, bensì il corpo della donna. In The Lamp il conflitto fra madre e figlia si gioca sulla realizzazione, in The Well sulla mascolinità e, finalmente, sulla sessualità. [p. 96]
Bambina, Steven ha un corpo maschile: «il bacino stretto, le spalle larghe». Crescendo questo corpo è «splendido», «flessibile», «vivo», «tira di scherma come un uomo».
E la vita era piena di un interesse nuovo per Steven un in. teresse tutto concentrato nel suo corpo. Scopriva nel suo corpo qualcosa di cui compiacersi, di un vero valore poiché poteva entusiasmarsi della sua forza. Questa passione che la ragazza metteva nell’esercitare il suo corpo, cancellava tutto il resto.

Ma il piacere che il vigore del suo corpo procura a Steven non può mantenersi sereno. Crescendo arriva ad odiarlo perché le vengono rifiutati i privilegi del sesso maschile, ed esso incarna la femminilità che lei nega. Il suo corpo non è e non può essere maschile; tutta via non è neanche femminile nel senso tradizionale. Radclyffe Hall carica il corpo di Steven di più livelli di significato. Tra i due sessi, e quindi illegittimo, esso rappresenta la Donna Nuova per eccellenza, soffocata da un clima politico ostile e da consolidati stereotipi riguardo alla disuguaglianza fra i sessi. Ma l’autrice si basa anche su un corpo androgino per simbolizzare la sessualità interna a uno dei sessi. L’illegittimità psicologica diviene così metafora della sessualità «invertita» che Steven non può né sconfessare, né soddisfare. Quando si accorge che davanti ad una donna in confronto ad un rivale maschile ella «non ha peso», Steven comincia ad odiarsi. La sua angoscia esistenziale si esprime nel modo in cui il suo corpo le diventa estraneo:
Quella sera si guardò nello specchio; così facendo ebbe or rore del suo corpo dalle spalle muscolose, dal seno piccolo e compatto, dai fianchi svelti da atleta. Per tutta la vita avrebbe dovuto trascinare quel corpo che era il suo, come una mostruosa pastoia al suo spirito. Quel corpo strana mente ardente ma sterile… L’avrebbe volentieri mutilato, perché le ispirava uno slancio di crudeltà; quel corpo così bianco, così forte e così indipendente, ma così miserabile, così infelice dentro che ella sentì i suoi occhi riempirsi di lacrime e il suo odio mutarsi in compassione. Si sentì triste per lui, cominciò a toccare i seni con mani impietosite, a carezzarsi le spalle, a far scivolare le mani lungo le cosce sottili. O mio povero corpo afflitto! [p. 97]

La differenza fra Steven e Joan, la sua sessualità dichiarata, è significata anche dal vestito preso a prestito dall’altro sesso. Ma mentre gli scrittori uomini se ne servivano per condannare un universo sottosopra, e Virginia Woolf, così come altre donne moderniste, esprimeva attraverso ciò «un gioioso scetticismo» contro la divisione delle caratteristiche sessuali, il travestitismo di Steven mette in evidenza una serie di tagli che si operano dolorosamente. Steven è divisa dalla madre come la Donna Nuova diventa estranea alla sua e la lesbica, gradualmente, alle donne eterosessuali. A differenza di Orlando, Steven è giudicata dalla Storia; essa può decretare solo che la discriminazione sessuale è un gioco senza motivo. Alle prese con l’«ordine naturale», Steven soffre. Così come molte giovani del suo tempo e del nostro, una volta dopo l’altra ella si ribella contro la concezione materna di quel che è una donna e lei sa di non potervisi adeguare:
a quel tempo il conflitto fra Steven e la madre era permanente e aveva come oggetto i vestiti… Lo scontro inevitabile fra due nature opposte che cercavano di esprimersi nel vestito, poiché il modo di vestirsi, in fin dei conti, è una forma d’espressione di sé…
Steven preferiva abiti confezionati con quelli del padre, ma cedeva spesso alla volontà della madre di farle portare «vestiti delicati» che lei «metteva tutti storti». Alla fine Steven se la prendeva con il proprio corpo: «È il mio viso! gridava. Qualcosa non va nel mio viso». «Ridicolo, protestò Anna… (distogliendo lo sguardo) rapidamente per dissimulare la sua espressione».
Per Radclyffe Hall, il vestito preso a prestito dagli uomini non è una buffonata. Significa la ribellione della Donna Nuova, e nello stesso tempo i disperati sforzi della lesbica per essere se stessa ed esprimerlo. Dopo due anni d’esilio da Morton, ormai libera dei suoi movimenti, Steven porta vestiti a tailleur, ha le dita macchiate di nicotina e i capelli «cortissimi»:
Presa da un senso di sfida, una bella mattina era andata dal parrucchiere e se li era fatti tagliare cortissimi, come un uomo. Quello stile le stava magnificamente… Liberata dai tormenti che le erano stati inflitti, la sua fitta capigliatura [p. 98] color mogano poteva finalmente muoversi e respirare liberamente, ed era diventata cara a Steven …
Anche Joan Ogden aveva desiderato le prerogative maschili e aveva rifiutato alcuni elementi della femminilità tradizionale. Anche lei portava i capelli corti. La novità di Steven è nel fatto che Radclyffe Hall si serve del suo travestimento e del suo corpo androgino per simbolizzare la sua sessualità lesbica. Questa sessualità lesbica, insiste l’autrice, definisce il vero io di Steven. Se, come fa notare Foucault, la vera identità è nell’io sessuale, allora Radclyffe Hall, nel personaggio di Steven ha creato la vera Donna Nuova.
Ciò che rende così pericolosa la lesbica in The Well è la sua rivendicazione dei privilegi maschili, sentita dagli uomini, fin dalla sua giovinezza, come «un’incosciente presunzione… Essi erano querce che preferivano l’edera femminile.., vivevano male Steven; in lei sospettavano una fibra troppo densa per il loro gusto…». E, nell’universo fittizio di Radclyffe Hall, la prerogativa maschile per eccellenza, è il godimento dell’amore erotico delle donne. La lesbica maschile mitica minaccia di prendere il posto del figlio nel triangolo edipico.
Radclyffe Hall aveva cominciato molti anni prima a descrivere una relazione eroticizzata fra madre e figlia; in The Unlit Lamp, in cui forse il contesto familiare non sessuale del romanzo nel suo insieme le aveva permesso di farlo senza rischio:
Ora la madre e la figlia trovavano ben poche cose da dirsi; quando erano insieme, le loro manifestazioni d’affetto erano impacciate, come quelle fra persone che condividono un nero segreto… Joan sapeva che non avevano trovato quello che cercavano e che ormai non lo avrebbero trovato più… ella avrebbe voluto amare la signora Ogden, priva di questo amore si sentiva vuota e inconsolabile, avrebbe voluto ritrovare lo slancio immediato che una volta sua madre suscitava in lei quando si chinava per abbracciarla, il fascino infinito della sua vicinanza. Era come una drogata alla quale è stato tolto all’improvviso ogni stimolante; la mancanza era intollerabile, pericolosa per il corpo quanto per lo spirito. [p. 99]
The Lamp è un romanzo indirettamente lesbico solo sotto questo aspetto. Radclyffe Hall si rifugia dietro il linguaggio abituale per descrivere la fonte emotiva, erotica della sessualità lesbica: la relazione madre-figlia. Ma per quanto audace fosse l’autrice non poteva trattare direttamente l’erotismo madre-figlia in The Well; invece di far questo, capovolge la situazione. Una volta che la sua sessualità è chiara, Steven è a disagio con tutte le donne, in modo particolare con sua madre. Lady Anna non è una donna sensuale che può, come la signora Ogden, provare «una felicità colpevole» quando sua figlia l’abbraccia, «come se un amante le cingesse la vita». Anna è una madre asservita al sistema patriarcale; l’ambiguità morfologica e sessuale della figlia le ispirano repulsione. Steven, da parte sua, condanna il ruolo e i valori della madre e preferisce identificarsi nel padre. Gli rassomiglia tanto da riprodurne la sessualità.
Come succedeva spesso per i ragazzi della classe media, il dramma edipico si libera con la cameriera che sostituisce la madre. A sette anni l’intenso erotismo di Steven si sveglia vicino a Collins (alla quale non è mai dato il nome di battesimo). Questo episodio è impregnato di significato sessuale.
Collins è descritta come «rubiconda, le labbra carnose e un grosso seno»; questo poteva ricordare ad un lettore esperto il postulato di Ellis secondo il quale la bellezza del corpo per l’«invertita congenita» conta più di un viso grazioso. Quando la bambina affascinata tende «una mano esitante… per accarezzare la manica» della cameriera, Collins esclama: «Oh che brutte unghie sporche!» La mano dell’invertita è uno strumento sessuale ma è infetta. Docile, Steven corre a spazzolarsi a fondo le unghie. Dopo questo episodio, il solo pensiero di Collins le «fa correre un brivido lungo la schiena» e quando la donna l’abbraccia con slancio, Steven resta sbalordita per qualcosa di «immenso che a sette anni non sapeva definire».
Questo qualcosa di «immenso», fa che Steven si senta un ragazzo. Si veste come «Nelson bambino», provocando così l’osservazione di Collins: «A vedere la signorina Steven non si direbbe che è un ragazzo?». Al che questa replica: «Ma io devo esserlo, perché mi sento esattamente così»; quando si fa sgridare da Collins, «sprofonda», si veste con i vestiti da ragazza che odia e si accanisce contro le sue bambole, «martellando il loro viso inoffensivo».
Quando la bambina vede Collins farsi brutalmente baciare da un domestico, è la fine. Furiosa lancia un vaso di fiori rotto e colpisce l’uomo su una guancia. Il padre, comprensivo e protettore, mette i domestici alla porta per risolvere la situazione. [p. 100]
Per i lettori di oggi, la natura di quel che prova Steven sarebbe chiara. Ma la Hall insiste in tutti i modi possibili. Ci mostra Sir Philip che legge il sessuologo Karl Heinrich Ulrich e scrive «delle noticine» in margine. Nelle ultime pagine del secondo libro, dopo che la sua disastrosa passione per un’intrigante americana l’ha costretta fuggire da Morton, Steven, leggendo Krafft-Ebing nella biblioteca del padre morto nel frattempo, arriva alla conclusione che è «mal fatta».
Certo è caro pagare per aver rivendicato la propria identità sessuale. Ma a quelli che vorrebbero rimproverare alla Hall di aver preso a prestito il discorso dai sessuologi, domanderemo come si sarebbe dovuto procedere per fare della Donna Nuova un essere sessuato? Malgrado i riferimenti espliciti che lei fa all’«inversione», il suo avvocato pensava che avrebbe avuto una possibilità di convincere il tribunale che «le relazioni tra donne descritte nel libro rappresentano un’amicizia normale», tutto ciò per risparmiare la censura ufficiale a The Well. Durante un pranzo, dopo un’udienza del processo per oscenità, Radclyffe Hall
l’attaccò violentemente per aver adottato questa linea di difesa, che, secondo lei, minava la forza delle convinzioni in base alle quali sosteneva la sua posizione. Questa arringa le sembrava, così come la relazione in seguito del suo avvocato, fosse «il taglio più crudele di tutti» e durante il pranzo, non poté reprimere lacrime di disperazione .
Come poteva la Donna Nuova fondare il suo diritto ad una piena sessualità che le appartenesse? Non esisteva un «linguaggio sessuale femminile»; in materia di sessualità delle donne, c’era solo il discorso maschile, pornografico, letterario e medico. Per aver esplicito accesso ad una sessualità, la Donna Nuova era dunque obbligata a passare attraverso l’universo maschile, sia in quanto eterosessuale, alle condizioni poste dagli uomini, sia in quanto lesbica in un corpo virile. Adottando la teoria dei sessuologi dell’«anima fuorviata» e il loro linguaggio, la Hall fa scoppiare il circolo ristretto delle relazioni sentimentali fra donne, che aveva escluso queste ultime da ogni esplicita affermazione della loro sessualità.
Idee, metafore e simboli possono ugualmente servire per disegni conservatori o progressisti. La donna vestita da uomo può venir usata in una visione reazionaria dell’ordine sociale; ma può anche incarnare [p. 101] una radicale concezione di cambiamento. In The Well, prendere in prestito il vestito maschile manifesta la sessualità «anormale» di Steven, che lancia una sfida alla femminilità (sentimentalismo e rispettabilità) della prima generazione, alla volontà normativa del discorso medico maschile ed esprime la lotta ostinata della Donna Nuova per la sua autonomia. Ma Steven è obbligata a sacrificare la sua legittimità. La sua appartenenza a una classe superiore sottolinea tutto ciò che perde nell’esilio. The Well studia l’odio di sé il dubbio che minacciano colei che si definisce «deviante sessuale». Il prezzo da pagare è alto anche sul piano interpersonale: Steven perde Mary, la sua amante, e Anna, sua madre. Poiché definendosi come lesbica, ha accettato di distinguersi dalle donne eterosessuali e di essere così privata della facilità, della semplicità d’accesso alle forme antiche, ammesse dalla società, d’amore fra donne, da dove quelle attingevano il loro nutrimento affettivo.
La separazione fra donne eterosessuali e omosessuali che è riconosciuta e forse, o ironia, perpetuata in The Well, ha assunto per loro un pesante significato. Per coloro che si dichiaravano lesbiche, la superiorità del personaggio di Steven eclissò immagini più ambigue, come la donna decadente di René Vivien o la bisessuale di Colette. C’è da notare che queste ultime due erano più femminili. Femminili, le conquiste di Stephen lo sono anche nel senso convenzionale, ma sebbene vengano sedotte da Steven, Radclyffe Hall 1e definisce «normali», cioè eterosessuali. Come personaggi non hanno niente di indimenticabile. Questo è il lato più debole del romanzo. Havelock Ellis stesso assegnava più dignità, un carattere più definito alla donna omosessuale. Ma per quanto riguarda il significato simbolico delle lesbiche, esse dovevano restare poco marcate, poiché in quanto donne, in loro c’è inversione. Contribuiscono perfino a consolidare le discriminazioni esistenti nell’ordine patriarcale.

The Well è un romanzo inquietante perché associa la devianza in quanto metafora alla devianza vissuta. Mettendo in discussione la relazione necessaria tra il sesso e la scelta sessuale, e contestando così che questa sia dettata dalla natura, la lesbica virile dipinta nei tratti di Steven Gordon estendeva la contestazione ad ogni categoria del sistema patriarcale.. Nel contesto storico dell’epoca, a partire dal momento in cui ella voleva far ammettere il carattere sessuale dell’amore fra donne, Radclyffe Hall non aveva altra scelta che far di Steven una deviante. Fino al movimento femminista contemporaneo, la donna che amava le donne si configurava nello stesso tempo nella devianza, in un sesso intermedio, si condannava all’esilio eterno dal [p. 102] mondo della legittimità, rimaneva presa nella trappola di una marginalità sempre più ristretta. Il parallelismo ironico del percorso di Steven, esclusa dall’universo maschile di Morton, e di Radclyffe Hall, anche lei esiliata, dopo l’interdizione del suo romanzo, sottolinea il prezzo che la lesbica dichiarata ha dovuto pagare quando il patriarcato ha ristabilito l’autorità del suo potere nei giorni tristi degli anni Trenta e Quaranta. La prova sofferta da Steven è diventata quella della Hall e quella di molte generazioni di lettrici di The Well.