1986, Liana Borghi – Cara Moira

Liana [Borghi], 1986. “Cara Moira”, Bollettino del CLI, anno V, (luglio-agosto), 1986. pp. 10-13.

E’ la risposta alla lettera polemica “Di più” (sulle cene organizzate ogni 15 del mese dal Gruppo del Mercoledì a Firenze) che Moira Ferrari le aveva inviato tramite il Bollettino  (Bollettino del CLI, anno V, (luglio-agosto), 1986, pp. 8-10). Entrambi gli scritti, sia nel formato DOCX che in PDF, sono scaricabili dal link in fondo alla pagina.


Cara Moira, ho letto la tua lettera alla manifestazione di Roma, mentre camminavo dietro lo striscione di Vivere Lesbica. Rispondo volentieri. Non ho qui una copia della lettera, ma se ben ricordo mi chiedi tre cose: perché le cene; perché invece non facciamo un gruppo (anzi perché non ne organizzo uno io); cosa ho da raccontare su Linea Lesbica.
Rivolgendo proprio a me queste domande tu ovviamente mi consideri parte in causa e capace di una analisi della situazione a Firenze. Anzi, vuoi che mi assuma la responsabilità di questa analisi; che non faccia finta di essere anch’io una lesbica di passaggio nella mia città, una presenza leggera – come amo ripetere a me stessa. Vuoi che rinunci a vedermi ai margini. Esito, purché la marginalità è la mia treccia d’aglio appesa in cucina. Un ironico esorcismo, quando le streghe siamo noi. Possiamo permetterci i margini, noi che siamo ai margini?
Comunque, tutt’al più sono una strega, non una fata. Non sarò io ad esaudire i tuoi desideri di appartenenza ma posso guardare nel mio specchio per te. Interpretare ciò che vedo sarà la mia analisi.

In treno, andando alla manifestazione, e poi al ristorante, noi di Firenze abbiamo parlato soprattutto di cibo. Cosa mangiare in questi giorni pericolosi [NdLesWiki: l’esplosione della centrale atomica di Chernobyl (26 aprile 1986) aveva contaminato terreni e coltivazioni anche in Italia], cosa ci manca, cosa ci piace, cosa significa il cibo per noi. Cucina toscana, romana, macrobiotica, naturista, vegetariana. Ascoltandoci parlare, mi convinco sempre più che noi lesbiche abbiamo un rapporto squisitamente orale con il mondo (e quindi quale luogo più adatto per un ritrovo di lesbiche del ristorante?).
Ho l’impressione che il cibo sia diventato il simbolo più tangibile del rapporto io/non-io, per noi. Un sintomo del nostro rapporto con la natura e con la nostra natura. Ci serve per ascoltarci, sentirci, riconoscerci, rivedere le nostre abitudini, assuefazioni, indulgenze, perversioni. Lo usiamo per confrontarci.
Rispetto alla radioattività abbiamo avuto la reazione di smarrimento tipica delle donne e in particolare di quelle donne che si riconoscono nella tradizione popolare segnata dal lavoro della preparazione del cibo, dalle sue valenze rituali, dalle valenze culturali che ha la manipolazione femminile del [p. 11] spensione [sic, nel testo sembra mancare una riga] di incredulità che richiede?), il cibo è la nostra magia. Ma siccome dubitiamo che sia nera, e non bianca, ci sentiamo ulteriormente disorientate. Cosa fa una strega senza le sue erbe?
Ma non è solo questo. Nell’accezione più complessa di “nutrimento”, il cibo si carica di una tensione di significati affettivi che spaziano dall’estetico all’erotico al politico. Inevitabilmente, anche noi operiamo sostituzioni simboliche pericolose. Quante volte, come le nostre madri, facciamo passare l’amore attraverso il cibo? Quante volte ti hanno dato da mangiare invece di soddisfare le tue richieste affettive? E’ più facile cibare il corpo che nutrire lo spirito; lenire la fame del corpo quando è quella delle emozioni che morde; ricorrere a riti di propiziazione. Noi lesbiche non siamo più brave degli altri ad evitare spiazzamenti e sostituzioni. Quante volte sono uscita da una cena più affamata di quando soro arrivata?

Le nostre cene del 15 sono anche per me, come per te, una periodica delusione. Io però non mi sono mai aspettata che nutrissero nel profondo. Non era per questo che sono state pensate. In un certo sense sono un rito propiziatorio e sostitutivo. In un altro senso sono una mossa strategica in considerazione dell’umore della comunità in questo momento. C’è un sottofondo di abulia e di disperazione nel nostro ritorno al privato che soltanto la sollecitazione alla gioia e al godimento riesce a toccare. Non serve richiamare ai doveri sociali. Tutt’al più possiamo far leva sui piaceri conviviali. Ma dato che la premessa per l’esistenza di una comunità è che ci contiamo per poter contare l’una sull’altra, anche la convivialità è un’attività politica, per quanto rudimentale.
E’ importante che le cene siano riuscite a creare nuovi legami tra gruppi separati. Questo ha significato una mescolanza di linguaggi che apprezzo molto. Ma non è un caso che la forza per questo non sia venuta dalle donne di Linea Lesbica, all’inizio, ma da persone esterne ad essa. E’ stata Nerina, che aveva fatto parte del primo gruppo lesbico, quello della Casa delle Donne, ma che rifiuta l’etichetta politica, a chiedere lo spazio in Libreria per il servizio telefonico lesbico. Sono state le donne, lesbiche e non, della Libreria ad aprire lo spazio. E’ stata di nuovo Nerina a pensare che se il servizio telefonico non funzionava (per mancanza di informazione o altro), le cene potevano essere un appuntamento non-denominazionale, aperto a vecchie e nuove. Ed è stata ancora lei ad insistere che la gestione delle cene rotasse in modo da coinvolgere attivamente il maggior numero di donne. Se le ex-LL ci sono, ci sono anche tante altre e questo è molto bello.
Permettimi qui di insinuare che non era affatto assente in questo piano una intenzione largamente condivisa: che oltre ad allargare la comunità, estendere la comunicazione, moltiplicare le occasioni di incontro, le cene avessero
uno scope esogamico. Se il sesso non fa una lesbica, una lesbica fa sesso – cosa che necessita di altre lesbiche. Migliore è il ricambio, credo, migliore sarà la qualità della vita delle donne che si scelgono. Dopo tutto, la nostra è una comunità di provincia dove questo problema è cruciale. Cibo e feste rendono più facile l’inserimento per chi e nuova. Si crea un clima ambiguo, a meta fra il desco familiare e i misteri eleusini, che scioglie quel node di immense e indifferenziate aspettative di chi cerca appartenenza. Diventa più agevole viversi l’occasione più in un senso o nell’altro, a seconda delle nostre propensità immaginative.
Quanto a me, confesso che le cene mi frustrano. Non sono gli aneddoti che voglio dalle donne. Anche quelli ma non solo quelli. Mi guardo intorno, conoscendo il valore delle compagne, la forza di ciascuna. Penso a cosa potremmo essere se questi talenti venissero spesi per pensarci diversamente da come ci lasciamo esistere; se riuscissimo a comunicare meglio; se sapessimo mettere in circolo, a nostro vantaggio, le nostre grandi risorse. E alle feste mi sento a disagio. Mi piace vedere e sentire l’atmosfera erotica. Ma non mi diverte [p. 12] facciata: [sic, anche qui manca una riga] le conversazioni monogamiche, le censure, il senso di disperato possesso, le gelosie e le infedeltà che costituiscono le reali dinamiche fra chi balla, chi beve, chi .guarda, chi aspetta. Non dico che saprei fare di meglio. Solo che il mio erotismo non si libera in questa atmosfera di convenzioni e imperativi trasgrediti na non messi in questione, Ammetto: talvolta anch’io riesco a fare “quasi come se”, e mi diverto, Ma vorrei altro.
Un secolo fa credetti che Linea Lesbica potesse essere quel “di più” che anch’io, come te, desidero. E forse per un periodo lo è stato. Deve essere nata allora questa mia sensazione: che scelgo di rimanere fra le donne perché Linea Lesbica è successa; che le compagne di allora sono “famiglia”; e che nutro per alcune di loro un affetto profondo che rifiuta di essere etichettato come sentimentalità. E nonostante io non le conosca “veramente” e non abbia un’idea chiara del loro quotidiano, né loro del mio – o così mi è stato rimproverato. Ma LL è stata una cosa diverse per ognuna delle partecipanti. Chiedi e vedrai. Qui vorrei rispondere alle tue domande dicendoti concisamente quello che ho imparato sui meccanismi distruttivi del gruppo.
Comincio dalle fine. Alcuni mesi fa, con molta riluttanza e grandi ma inutili precauzioni, ho chiesto ad alcune compagne ex-LL se volevano aggregarsi su un progetto molto limitato e circoscritto. In questa occasione, il primo errore è stato di credere che la mia necessità di quel momenta (o scelta che fosse), potesse essere anche la loro. E che la scadenza molto ravvicinata del progetto servisse a concentrare la nostra attenzione su cose concrete; evitandoci così la valanga di richieste che di solito riversiamo in un gruppo più o meno di “autocoscienza”. Il mio secondo errore e stato di ritenere che la lezione di LL avrebbe impedito che si riproducessero certe dinamiche note a noi tutte. Non è stato cosi. Ho quindi avuto modo di verificare che la memoria non mi tradiva.
Si fa una leader e poi la si sbrana secondo un elaborate rituale “femminista” che ormai riconosco, come riconosco i sintomi più subdoli e precoci delle mie emicranie.
Dato che non ho pix la fiducia, l’idealismo, il bisogno, che mi hanno immobilizzata per mesi ad osservare impotente il pasto delle mia persona a LL e l’abbattimento di altre vittime designate, questa volta me la sono cavata con qualche morso e lacerazione. E, ormai veterana, mi sono potuta permettere una certa saggezza.
Ho riflettuto che la responsabilità è sempre ampiamente condivisa. Che queste dinamiche si costruiscono di soppiatto fino a diventare organismi che hanno vita propria e sfuggono al controllo. Che io non posseggo la capacità di deviare il loro corso verso canali meno distruttivi per la mia persona. E che ho la tendenza ad occupare una posizione portante all’interno del gruppo per la quale non ho forze sufficienti, come non ho l’eccesso di energia necessario a sopravvivere nel gruppo.
Ergo. Sono diventata una manager. Organizzo cene, feste, mostre, occasioni di incontro. Ho imparato che anche le cene sono un mio linguaggio, e che quell’ “altro” linguaggio, che può sembrare più mio, non è né egemone né imponibile.
E’ soltanto un altro linguaggio. E se non comunica, non serve. Dobbiamo imparare, noi tutte, ad usare l’uno, l’altro e molti altri a modo nostro – una lingua franca che ci cambierà, che si va formando e già ci cambia.
Io vado alle cene sperando che vengano donne come te che hanno voglia di fare un gruppo. Le cene, chiaro, sono anche un rito di passaggio. E se ora mi scrivi perché non ti bastano e vuoi di più, hai superato l’ordalia.
Lo spazio del più ti spetta.

LIANA

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