1989, Diane Fuss – La questione della politica dell’identità

Diane Fuss, 1989. “La questione della politica dell’identità”. E’ il capitolo VI di: Essentially Speaking: Feminism, Nature and Difference. London: Routledge. Traduzione di Liana Borghi

p. 97
…. Nell’uso corrente, il termine politica dell’identità si riferisce alla tendenza a basare la politica su un senso di identità personale, per esempio gay, ebreo, nero, femmina…. Gli attivisti gay hanno preso la politica dell’identità quasi come uno stimolo della coscienza personale e dell’azione politica. Sia dagli uomini gay che dalle lesbiche l’hanno accettata come base operativa teorica su cui costruire una comunità politica coesiva e visibile. Questo mio studio sulla politica dell’identità non vuole minimizzare o negare la sua ovvia utilità in quanto strumento di aggregazione politica, ma vuole però interrogare gli assunti analitici inerenti al concetto, e investigare il ruolo che l’essenzialismo ha avuto nel mantenerlo in circolazione. Mi propongo di tracciare brevemente la costruzione storica e culturale della politica dell’identità, e in particolare di decodificare la nozione astratta e confusa di identità che spesso la sottende. “Storicizzare” l’identità sembra un progetto particolarmente appropriato ad investigare il termine “omosessuale,” dato che la categoria “omo” è spesso definita l’identico o lo stesso. Il post-strutturalismo femminista di solito liquida l’identità — insieme all’uguaglianza, l’unità, l’unicità — come concetto fallocratico, ma qui sosterrò che l’identità raramente è identica a se stessa, ed ha invece significati multipli e talvolta contraddittori. Un’altra tendenza complementare è di sovrapporre “identità” con “essenza” come se fossero immagini speculari l’una dell’altra–essenzialmente le stesse, essenzialmente identiche. Ma naturalmente l’identità ha una sua storia filosofica e intellettuale che, per quanto spesso si sovrapponga alla storia occidentale dell’essenza, altrettanto spesso prende direzioni completamente diverse.
Sarebbe opportuno chiarire subito che sebbene la politica dell’identità è stata adottata sia dalla teoria gay che da quella lesbica, non è detto che i soggetti gay e lesbici, nel modo in cui li associo qui, si preoccupino delle stesse cose o rappresentino necessariamente una coalizione politica compatta. Anzi, non possiamo ignorare che c’è, specie a livello teorico, un certo rapporto avversario tra di loro, una tensione a cui tornerò a fine capitolo. Per ora azzarderò una generalizzazione tentativa che spiega in parte l’organizzazione di questo capitolo. In genere, la teoria lesbica è meno incline a mettere da parte il concetto di “essenza lesbica” e una politica dell’identità basata su questa essenza condivisa. D’altra parte, i teorici gay, seguendo Foucault, hanno subito appoggiato l’ipotesi del costruzionismo sociale e sviluppato analisi puntuali della costruzione sociale delle sessualità. Il fatto che gli studi lesbici tendano, tutto sommato, ad essere più essenzialisti di quelli gay non significa che la teoria lesbica è poco sofisticata o reazionaria; significa solo che se l’aderenza all’essenzialismo misura il grado di oppressione culturale subita da un gruppo politico (come questo studio sostiene), allora il più forte investimento lesbico nell’identità e la politica dell’identità probabilmente indicano la maggiore precarietà e la minore sicurezza della posizione del soggetto lesbico rispetto a quella degli uomini gay. In altre parole, le lesbiche possono permetersi l’essenzialismo perché hanno meno da perdere. Ecco forse perché ci sono così poche analisi Foucaultiane sulla sessualità lesbica e ce ne sono così tante sul soggetto maschile gay — Jeffrey Weeks (1977, 1985, 1986), David Halperin (1986), Gary Kinsman (1987), John D’Emilio (1983), e Simon Watney (1987) tra gli altri. ….

La politica della “politica dell’identità”

Una delle prime adesioni lesbofemministe all’idea di una politica dell’identità si trova nel manifesto della Combahee River Collective, un gruppo di attiviste lesbiche nere mobilizzato su questioni di oppressione sessuale, razziale, economica ed eterosessuale:

Il concetto di politica dell’identità mette a fuoco la nostra oppressione. Noi crediamo che la politica più profondamente e potenzialmente più radicale nasce direttamente dalla nostra identità, contrariamente a quanto avviene se si lavora per porre termine all’oppressione altrui (“A Black Feminist Statement” 1982, 16)

Sei anni dopo, la teorica chicana Cherrìe Moraga revisionava ed espandeva quel concetto per includervi il riconoscimento nascente nelle comunità femministe del fatto che un soggetto oppresso può a sua volta essere, simultaneamente, un soggetto che opprime: “la femminista radicale deve estendere la sua ‘politica dell’identità’ fino ad includere anche ‘l’identità’ dell’oppressore” (1983, 128). La politica dell’identità trova le sue radici in un femminimo radicale che attinge forza e durata dalla ricettività alle differenze culturali. Non è affatto casuale che l’appoggio forse più entusiasta all’idea della politica dell’identità venga dalle donne di colore: “In quanto donne nere abbiamo una identità e quindi una politica che richiede fiducia nell’essere nere e nell’essere donne. Sfidiamo la concezione che i maschi bianchi hanno dell’umanità per dimostrare che umane siamo noi e non loro.” Questa dichiarazione di Barbara Smith chiarisce la precisa natura del rapporto tra identità e politica: “abbiamo un’identità e quindi abbiamo una politica.” La connessione tra identità e politica è definita sia per casualità sia teleologicamente; per chi pratica la politica dell’identità, l’identità necessariamente determina un particolare tipo di politica.
La relazione di casualità stabilita tra “identità” e “politica” applica una certa pressione sul soggetto lesbico affinché “rivendichi” o “scopra” la sua vera identità prima di elaborare una “politica personale.” Negli scritti sia lesbici che gay emerge una tensione tra l’identità come qualcosa che c’è sempre (ma è sepolta sotto gli strati di repressione culturale) e l’identità che non è mai stata permessa nel sociale (ma rimane da formare, creare, raggiungere). Alcune scrittrici si muovono da una posizione all’altra con relativa facilità, senza rendersi conto che la contrapposizione di due assunti radicalmente diversi genera contraddizioni:

Solo le donne possono darsi un nuovo senso di sé. Dobbiamo sviluppare quell’identità in relazione a noi stesse e non in rapporto agli uomini…. Insieme, dobbiamo trovare, rafforzare e dare valore al nostro autentico sé. (Radicalesbians 1973, 245)

Questa tensione tra lo “sviluppo” dell’identità e il “ritrovamento” di una identità rivela una più generale confusione rispetto alla definizione stessa di “identità” e al significato preciso di “lesbica.” Abbiamo già discusso nel terzo capitolo alcune delle molte, creative ma spesso incompatibili, definizioni di “lesbica;” quello che mi interessa ora sono i problemi lasciati in sospeso dall’appello apparentemente naturale a una identità lesbica, piattaforma già sanzionata e sicura per una politica lesbica.
Ciò che manca in molte discussioni sull’identità lesbica è il riconoscimento dello statuto precario dell’identità e una piena coscienza dei complicati processi di formazione dell’identità, sia psichici che sociali. Qualsiasi discussione sulla politica dell’identità pone una serie di domande senza risposta. La politica si basa sull’identità, o l’identità si basa sulla politica? L’identità è una costruzione naturale, storica, psichica, o linguistica? Che implicazioni ha la decostruzione dell'”identità” per chi abbraccia una politica dell’identità? I soggetti gay o lesbici possono fare a meno del concetto di identità unificate e stabili, o dobbiamo cominciare a costruire la nostra politica su qualcosa che non sia l’identità? Che cos’è in altre parole la politica della “politica dell’identità”?
Per Jenny Bourne, la politica della “politica dell’identità” è sempre reazionaria — reazionaria perché alimanta un punto di vista apolitico, non-materialista e soggettivo. Bourne ci dà l’accusa più inesorabile, appassionata e indicibilmente coraggiosa mai fatta alla politica dell’identità in un clima politico che ha elevato a liberazione il conseguimento dell’identità:

La politica dell’identità è di moda. Lo sfruttamento è fuori moda (è estrinsecamente determinista). L’oppressione è di moda (è intrinsecamente personale). Ciò che deve essere fatto è stato rimpiazzato da ciò che io sono. La cultura politica ha ceduto il passo alla politica culturale. Il mondo materiale si è trasformato nel metafisico. (1987, 1)

Secondo Bourne, il problema della politica dell’identità è la fede cieca che la sinistra ha nella massima femminista “il personale è politico.” Bourne scrive: “la relazione organica che abbiamo tentato di costruire tra il personale e il politico è degradata al punto che ora l’unica area politica ritenuta legittima è il personale.” (2) Trovo la critica rigorosa di Bourne alla politica dell’identità convincente e persuasiva per quanto a volte un po’ forte: “la tendenza della pratica femminista a personalizzare e interiorizzare le tematiche politiche… ha creato una ‘politica’ storpia, autolegittimante, che guarda solo dentro e volta la faccia alla politica del mondo reale (18-19).”
Non dobbiamo tuttavia perdere di vista l’importanza storica di uno slogan che ha galvanizzato e energizzato un intero movimento politico. Inizialmente, la rivendicazione “il personale è politico” ha funzionato da punto gravitazionale per attirare l’attenzione su quei problemi dei gruppi di minoranza che prima venivano etichettati come lamentele personali o rimostranze isolate. Dimostrare che il malcontento di questi gruppi non aveva origine in un fallimento personale o comunitario ma in una concreta oppressione sociale necessitava che si allargasse il senso del politico fino ad includere una più vasta gamma di esperienze di vissuto. Ma il problema dell’attribuire un significato politico ad ogni azione personale risiede nel fatto che il politico è presto svuotato di ogni significato o specificità e che il personale è paradossalmente depersonalizzato. Mentre ritengo che vivere come persona gay o lesbica in una società postindustriale eterosessista ha certi risultati politici (sia che io desideri o non desideri che la mia sessualità ne venga politicamente investita) ritengo anche che il semplice diventare gay o lesbica non è sufficiente a costituire attivismo politico. Una riduzione severa dal politico al personale conduce al dilazionamento degli obiettivi, a limitare l’attività rivoluzionaria al progetto di auto-scoperta e di trasformazione personale. “Il personale è politico” riprivatizza l’esperienza sociale al punto che una persona può impegnarsi nella pratica politica senza mai lasciare i confini della camera da letto. Il desiderio sessuale stesso viene investito di un significato macropolitico. Il personale, sto ipotizzando, non è politico, in alcun senso letterale o equivalente. Potrebbe essere più utile vedere la relazione tra questi due termini come una complessa coimplicazione piuttosto che come una semplice equazione. Tuttavia rifiutare la riduzione del politico al personale è un primo passo necessario alla rifondazione e ripoliticizzazione della “politica dell’identità.”

Teorizzare l’identità

La questione della formazione dell’identità non può essere facilmente messa da parte, per quanto si desideri sospendere o differire tale questione nell’interesse di puntellare le nostre posizioni politiche spesso arroccate e in stato d’assedio. Infatti in nessun altro periodo della storia della teoria femminista l’identità è stata contemporaneamente così disprezzata e santificata; non sembra esservi piano intermedio tra lo status contemporaneo dell’identità e la sua importanza nella nostra teoria e nella nostra politica. Ciò che io, in effetti, propongo qui è di riteorizzare l'”identità” della politica dell’identità attraverso una nuova storicizzazione della politica di diverse teorie dell’identità. In altre parole potrebbe essere possibile rivedere la concezione comune della relazione tra identità e politica ripensando il divario filosofico e linguistico tra di loro. Se rifiutiamo di basare la politica su una nozione di identità unitaria, stabile e coerente, può essere imprudente trattare l’identità come una costruzione fondamentalmente o unicamente politica. La mia posizione si baserà sulla concezione lacaniana dell’identità come finzione e alienazione e mirerà all’utilità di vedere tutte le rappresentazioni dell’identità come simultaneamente possibili e impossibili.
Le questioni di uguaglianza e differenza stanno al centro delle ricerche metafisiche tradizionali sul problema dell’identità. In una filosofia analitica, per esempio, collocare l’identità di un oggetto comporta determinare sia se quest’oggetto è se stesso e non un’entità differente sia se quest’oggetto rimane invariato nel tempo. Nella logica aristotelica l’essenza e l’identità sono strettamente correlate ma non sono affatto sinonime: una persona o oggetto possiede un’essenza che determina la sua identità, ma l’identità più che operare come un sostituto dell’essenza funziona come suo risultato. Il recente tentativo di Derrida di decostruire l'”essenza” rende più cruciale questa distinzione poiché permette di porre una domanda più interessante, e cioè se è possibile fondare l’identità su qualcosa che non sia l’essenza. Mentre i filosofi analitici continuano a cercare vari criteri di identità, lo spostamento che Derrida fa dell’identità (come oggetto stabile di un’analisi metafisica) sovverte la effettiva possibilità di trovare questi criteri. La decostruzione disloca la concezione di identità come presenza di sé e offre invece una visione dell’identità come differenza. Dato che l’identità contiene sempre lo spettro della non-identità al suo interno, il soggetto è sempre diviso e l’identità è sempre conseguita al prezzo dell’esclusione dell’Altro, della repressione ovvero del ripudio della non-identità.
Lacan, naturalmente, ci offre una spiegazione più psicoanalitica del soggetto diviso, come è stato discusso nel capitolo 2. La cosa importante nella teoria lacaniana della costruzione del soggetto (l'”io”) nel linguaggio è che sposta le basi del dibattito lontano dalla considerazione dell’identità delle cose in se stesse verso un’analisi delle affermazioni di identità. Infatti, una visione semiotica pone l’identità come effetto non dell’essenza ma del linguaggio, e l'”io” nel linguaggio è sempre contingente, sempre provvisorio. Il termine “contingente” e “provvisorio” attualmente sono di moda nella teoria poststrutturalista, e non a caso ricorrono con maggior frequenza nelle discussioni sull’identità. Questa nuova valutazione dell’identità spesso assume due forme: o viene sostenuto che ogni soggetto è composto di identità multiple spesso in competizione e conflitto fra di loro, oppure si afferma che queste identità sono soltanto costruzioni politiche, perciò storicamente provvisorie e persino sostituibili (Penley 1986, 144-45). Ciò che mi preoccupa rispetto a questi tentativi di ripensare la questione dell’identità da un punto di vista poststrutturalista è che la differenza viene spostata da uno spazio all’interno dell’identità agli spazi fra l’identità. La differenza è vista come un prodotto della frizione fra componenti dell’identità facilmente identificabili e unitari (sessuali, razziali, economiche, nazionali…) che competono per dominare all’interno del soggetto. L’identità postmoderna è spesso teorizzata come atomica, fratturata e disseminata in un campo di energie disperse. Il richiamo a metafore derivate dalla fisica moderna è suggestivo: si visualizza il soggetto come un campo elettronico altamente carico di particelle di identità multipla che rimbalzano l’una contro l’altra, combinate e ricombinate, catturate in un interminabile processo di movimento e rifigurazione. Ma queste metafore, mi sembra, in quanto pongono la differenza fuori dall’identità, negli spazi fra identità, ignorano la radicalità della visione poststrutturalista che colloca le differenze dentro l’identità. In conclusione ipotizzerei che le teorie delle “identità multiple” non mettono efficacemente in questione la concezione tradizionale metafisica dell’identità come unità.
La decostruzione dell’identità come unità pone certi irritanti problemi per le femministe poststrutturaliste. Come dice Julia Kristeva, “che cosa può significare ‘identità,’ anche ‘identità sessuale,’ in un nuovo spazio teorico e scientifico dove la nozione stessa di identità è negata?” (“Women’s Time,” 1987, 209). Mary Ann Doane esprime un concetto simile: “In un’era post-autoriale, post-soggetto cartesiano, in cui l’ego è visto soprattutto come illusorio nel suo dominio, qual’è lo status di una ricerca di un’identità femminile?” (1987, 9) La paura è che nel momento in cui avremo decostruito l’identità non ci resterà niente, (niente, cioè di stabile e sicuro) su cui costruire una politica. “Una politica di non-identità” è rifiutata velocemente come qualcosa di meno eccitante e sicuro su cui organizzare un attivismo collettivo. Una alternativa più attraente sta nell’oscillare dall’identità a le identità, ma questo tentativo di pluralizzazione sposta le questioni collegate di identità e di politica dell’identità ma non le affronta. Un approccio più fruttuoso al problema, secondo me, è quello posto dalle critiche psicoanalitiche lacaniane che riconoscono come se da una parte non c’è un’identità femminile stabile e semplice, dobbiamo però resistere ai tentativi di rimpiazzare l’identità con qualcos’altro, specialmente con una “nuova identità.” L’articolazione più esaustiva di questa posizione si può trovare in The Daughter’s Seduction di Jane Gallop:

Io non credo in una “nuova identità” che possa essere adeguata e autentica. Ma io non cerco liberazione dall’identità. Ciò porterebbe soltanto a un’altra forma di paralisi — l’oceanica passività dell’indifferenziazione. L’identità dev’essere continuamente assunta e immediatamente posta in questione (1982a, xii).

La decostruzione dell’identità allora non è necessariamente la sua sconfessione come è stato occasionalmente suggerito. Elaine Marks articola la posizione che io vorrei sostenere qui, e cioè che “ci deve essere un senso di identità anche se sarà finzione” (1984, 110). Va sottolineato che le finzioni dell’identità non sono meno potenti per il fatto di essere finzioni (il potere della fantasia connota una delle più radicali intuizioni di Freud). Non è tanto il fatto che noi possediamo delle identità contingenti ma che l’identità stessa è contingente: “l’inconscio costantemente rivela il ‘fallimento’ dell’identità. Visto che non c’è continuità nella vita psichica, non c’è stabilità della identità sessuale, non c’è mai il semplice conseguimento di una posizione per le donne (o per gli uomini). Jacqueline Rose continua ricordandoci che il ‘fallimento’ dell’identità continua all’infinito, senza promessa che cessi, poiché “vi è una resistenza all’identità nel cuore stesso della vita psichica” (“Femininity and Its Discontents” 1986, 91). Una tale visione dell’identità come instabile e potenzialmente distruttiva, come alienata e incoerente, potrebbe alla fine produrre una politica dell’identità più matura, che combatte contro la tendenza a cancellare le differenze e le inconsistenze nella produzione di soggetti politici stabili. Il problema di basare le identità politiche su una politica della identità è che la politica dell’identità raramente prende in considerazione il potenziale sovversivo e destabilizzante dell’Inconscio. Nella misura in cui l’identità diviene una forza radicalmente destabilizzatrice e non diviene affatto una garanzia stabile di coerenza politica, bisogna ripensare radicalmente la tendenza corrente a fondare la politica su una nozione vaga e imprecisa di identità. La posizione che qui sostengo — che una teoria essenzialista dell’identità (che sutura le operazioni di dislocazione della psiche) non è in fondo una base sicura per la politica — chiama in causa la visione, propria di molte femministe poststrutturaliste, che almeno le identità politiche debbano essere sicure, che la finzione della loro coerenza debba essere mantenuta a tutti i costi affinché possiamo fare il nostro lavoro politico. Essa mira a fare saltare l’idea che la politica debba essere ferma e localizzabile, non disturbata da conflitti psichici o da disordini interiori — una posizione che mi sembra porti facilmente alla disaffezione, alla faziosità politica.

Teorizzare politica

Che dire della politica (il secondo termine valorizzato nella congiunzione politica-dell’identità)? La politica, suggerisco, rappresenta l’aporia nella maggior parte delle teorizzazioni politiche contemporanee; ciò che significa attivismo viene interrogato meno. “Pone tutte le domande,” si lamenta giustamente Bruce Robbins, “ma non viene mai interrogato a sua volta” (1987, 88, 3). In questo modo, paradossalmente, la politica occupa spesso una posizione apolitica nel nostro pensiero, una posizione incontestata di potere e privilegio. Noi forse siamo stanche della valanga di scritti, libri e conferenze intitolate “La politica di X” e certamente abbiamo cominciato a interrogare il più sacro di tutti gli slogan politici della sinistra, “tutto è politico.” Ma il crescente malcontento per il fallimento di storicizzare la politica stessa non dovrebbe condurci al dilemma di collocare “la vera” identità della politica. Sospetto che la ragione per cui la formula “la politica di X” ha circolato tanto è che la sua “identità” è stata così elusiva; non sappiamo veramente cos’è la politica (anche se a volte ci piace far finta che il suo significato sia ovvio). Senza dubbio questo è inchiodato nel vero nome — politica — che all’opposto di — identità — è irriducibilmente collocato nel plurale [in inglese]. Il fatto che “politica” linguisticamente connoti la differenza in un modo che l’identità non fa, frustra incommensurabilmente i nostri tentativi di collocare e di anatomizzare l’identità della politica. E così, secondo l’opinione di un importante critico marxista, “dare una definizione riduttiva e univoca della funzione che ha ‘il politico’ è peggio che fuorviante, è paralizzante.” (Jameson 1982, 75). Eppure, ciò che voglio enfatizzare è che l’indeterminatezza confusa che circonda il segno “politica” normalmente non ci impedisce di evocare frequentemente il suo potere retorico al fine di mantenere la “teoria” al suo posto.
Per esempio, gli essenzialisti ritengono che la lettura faucaltiana della sessualità come costruzione sociale più che essenza naturale, deve inevitabilmente minacciare una politica basata sulla continuità di una condivisa tradizione omosessuale. Si dice che un rigoroso approccio costruzionista “ci nega una storia che permette di nominare Platone, Michelangelo e Saffo come nostri avi” (Gallagher e Wilson 1987, 27), e questa teorizzazione accademica non interpreta le esperienze di vissuto e delle concezioni di sé della maggioranza delle comunità lesbica e gay. Usando le parole di Steven Epstein, “la gente che fonda la sua richiesta di diritti sociali sulla base di un’identità di gruppo non apprezzerà il fatto che gli venga detto che quell’identità è solo una costruzione sociale” (1987, 22) . La critica di Epstein dei “limiti del costruzionismo sociale” ci fornisce un esempio particolarmente chiaro del modo in cui “la politica” viene chiamata a sfidare, se non a screditare, la posizione antiessenzialista. Per esserci “utili,” scrive Epstein, queste teorie “devono darci i mezzi per valutare le strategie politiche concrete.” La politica diventa l’unità di misura per valutare l’utilità presente delle teorie dell’identità gay, quindi la loro rilevanza finale.
Ma questo in parte prevedibile appello alla politica per colpire le manovre antiessenzialiste di Foucault non potrà mai essere interamente efficace nella struttura del pensiero proprio di Foucault, perché Foucault vede la politica come una serie di effetti e non come causa prima o determinante finale. Vedere la politica come una “serie di effetti” piuttosto che come un motore nascosto che aziona tutte le relazioni sociali impedisce di reificare la politica e di mistificare le sue operazioni “dietro le quinte.” Cosa ancora più importante, lavorerebbe contro la tendenza dell’attuale teorizzazione a cercare “la politica nascosta” in un dato testo, di ricercare il sotto-testo segreto che contiene le “vere” intenzioni o le “reali” motivazioni di chi scrive. Tali progetti oscurano ciò che secondo me può dimostrarsi la questione più importante, cioè perché e come accade che la critica contemporanea è giunta ad elevare la politica allo stato di determinante finale dei nostri dibattiti teorici, e di autorizzatrice insindacabile delle nostre produzioni materiali? Confesso che sono sempre più sospettosa di fronte al ricorrente appello “alla strategia politica” o “alla necessità tattica” nelle recenti dispute critiche, anche se io stessa ho fatto ricorso a tale argomentazione per riaprire la discussione femminista sull’essenzialismo. La mia preoccupazione è che la deferenza verso la supremazia e l’onniscienza della Politica possa patrocinare l’ideologia del pluralismo, dato che per quanto reazionaria e pericolosa sia, un concetto può sempre essere recuperato e mantenuto in circolazione grazie ad un appello alla “strategia politica.” (Anzi, lo stesso pluralismo può essere tenuto in gioco facendo appello all’urgenza storica del suo uso tattico.) Non sto suggerendo di spazzare via del tutto quelle argomentazioni di necessità tattica, ma ritengo che il facile ricorso a uno stratagemma politico debba essere ora ripensato. Forse l’interrogativo che dobbiamo sempre tenere presente è: “strategie politiche per chi?”
Tutto ciò non significa che tutti gli assunti politici taciuti che governato un dato testo non meritino di essere interrogati, ma solo che tali sforzi spesso poggiano sull’importanza autoevidente della politica, su un essenzialismo della politica. In un certo modo lo stesso Foucault, malgrado i suoi tentativi iniziali di storicizzare il segno del politico, è colpevole di aver permesso alla politica di riassumere una certa autorità insindacabile nella Storia della sessualità. Una sospensione critica della questione della politica sessuale permette a Foucault di evitare il confronto con le sue stesse omissioni sintomatiche e con sue sviste critiche. Giustamente le lesbiche femministe hanno ripreso Foucault per la sua incapacità di rendere conto della specificità del piacere delle donne, per il suo rifiuto a misurarsi direttamente con gli studi femministi sulla sessualità, e, in breve, per la sua non volontà di sapere sulle donne. Come Teresa de Lauretis descrive il problema, nel lavoro di Foucault “la sessualità non è intesa come qualcosa che appartiene al genere, come qualcosa che ha una forma maschile e femminile, ma è valutabile come unica e la stessa per tutti — e di conseguenza è maschile” (1987, 14). Dobbiamo tenere ben presenti queste difficoltà quando valutiamo la forza critica e gli svantaggi delle recenti interpretazioni foucaltiane del “ruolo omosessuale.”