1990, Liana Borghi – La lesbica come donna liminale

Liana Borghi, 1990. “La lesbica come donna liminale”, Bollettino del CLI: collegamento fra le lesbiche italiane, anno IX, numero 74 (novembre 1990), pp. 6-13. 

E’ la relazione letta durante la presentazione degli Atti del Convegno dell’Impruneta (5-7 dic 1987), avvenuta a Firenze, Palagio di Parte Guelfa, il 23 marzo 1990. La premessa alla relazione è in risposta ad una lettera di polemiche che era stata pubblicata sul Bollettino del CLI dopo la presentazione. Trascrizione e note di N. M.

 



LA LESBICA COME DONNA LIMINALE
LIANA BORGHI

Premessa

Cara Dada Knorr, cara Michela Liebig,
posso solo dire grazie di (non) aver ascoltato e risposto. Ma a questo punto forse è opportuno dare alle altre lettrici le informazioni necessarie per partecipare a questo scambio di opinioni. Il testo che segue è stato letto a Firenze, il 23 marzo 1990. Parla per sè e non ha bisogno di chiose, eccetto che nel testo scritto la parola “soglia” non c’è: spiegai a voce che limen in latino vuol dire soglia, e il concetto venne poi brevemente dibattuto con Sandra. Da allora ho continuato a pensare alla lesbica come “donna liminale” e prima o poi vi farò sapere a che punto sono. Al dattiloscritto ho aggiunto la frase con la citazione di Wittig che avevo scritta ai margini, e la precisazione su Donna Haraway. Chi era presente ricorderà che ad un certo punto, prima di cominciare la mia propria riflessione, ho letto dei passi da un saggio recente di Adrienne Rich, “The Politics of Location”, tradotto, con un po’ di incertezza, come “la politica della località”. L’incertezza deriva dal fatto che il termine significa sia il luogo di provenienza sia la posizione in cui ci troviamo in un dato momento, e quindi vuol dare il senso delle coordinate spazio-temporali, socio-politiche, razziali ed esistenziali di chi parla, includendo la scelta sessuale. Un’altra incertezza era se tradurre i pronomi delle prime tre frasi al femminile; in inglese il genere non era indicato. Ho idea che Rich non parlasse solo alle donne.

Due pensieri: non c’è liberazione che sappia dire solo “io”; non c’è movimento collettivo che parli fino in fondo per ciascuna di noi. E così persino i semplici pronomi diventano un problema politico.

Noi che non siamo le stesse. Noi che siano molte e non vogliamo essere le stesse.

I sentimenti sono inutili senza i fatti, ogni forma di privilegio ha come sua essenza l’ignoranza. [fine p. 6]

E ancora, parafrasando accuratamente:

Quando il distintivo lesbico diventa solo una decorazione, quando chi lo porta smette di chiedersi cosa ci fa su questa terra, dove la sta portando l’amore per le donne, anche il lesbismo diventa un’astrazione, e perde contatto con la nostra vita… Non dobbiamo isolarci “dagli altri grandi movimenti per l’auto-determinazione e la giustizia dentro i quali e in rapporto ai quali noi donne ci diamo definizione”.

E’ stato affidato a me il compito di presentare questo primo volume dell’Amandorla, cosa che faccio con enorme piacere. Ci sono stati molti cambiamenti, dal convegno dell’Impruneta ad oggi, nella mappa del lesbismo in Italia, e spero che siate venute a questo incontro anche per raccontarceli. Io non farò una presentazione tradizionale degli atti. Potete immaginare che chi si é occupata della redazione li ha letti e riletti, tanto che frammenti di discorsi hanno segnato addirittura mesi interi, riaffiorando più o meno esplicitamente nelle nostre riflessioni. Entrare in dialogo con tante donne insieme non é certo facile, e anziché fare un riassunto dei punti salienti, già riassunti nei documenti dei vari gruppi, farò invece un attraversamento delle loro parole con una mia riflessione.

D’altronde, la prefazione di Moira e Rosetta, che forse avete già letto, spiega molto meglio di quanto potrei il formato degli atti e gli incidenti di percorso. Aggiungo solo, poiché non é rimediabile, che tra le redattrici manca il nome di Lilia che [fine p. 7] invece dovrebbe esserci, e ringrazio a nome di tutte i nostri aiuti “esterni”: le donne che hanno sbobinato le cassette, incluse due anonime studentesse di Bologna, Simonetta, che ha fatto gran parte della prima revisione delle sbobinature, e Sandra che ha ricostruito, dalle registrazioni, tutta la parte del seminario sulle Amanti.

Pubblicare gli atti é stato uno degli impegni che il gruppo del mercoledì[1] si era assunto, ed é stato ereditato dall’Associazione che abbiamo costituito subito dopo il Convegno. Del cambiamento di identità che ha comportato diventare Associazione spero ci sarà modo di parlare in un’altra occasione. Come riunire riflessione politica e attività aggregative, culturali e ricreative non é solo un problema nostro; dovremo trovare tempi e modi di discuterne insieme. Quello che sto per dire rispecchia il mio desiderio di un miglior collegamento fra tutte noi e di un uso più efficace delle nostre risorse.

E a questo proposito, per spiegare in parte la collocazione del mio discorso, accenno brevemente alla difficoltà che continua ad esistere nell‘Amandorla di dare spazio agli interessi delle singole donne e allo stesso tempo di riportare le energie all’interno del gruppo a vantaggio di tutte. L’anno scorso ci siamo date un ordinamento modulare, autorizzando (lo dico scherzosamente) autonomie di piccoli gruppi di lavoro o di interesse purché le iniziative e i percorsi trovassero poi modo di riallacciarsi a un percorso unitario. Questo perché i gruppi lesbici fiorentini mi sembra abbiano seguito un modello di sviluppo organico simile a quello di tanti altri (e spero mi correggeranno quelle che più e meglio di me hanno lavorato su questo aspetto del lesbismo). Tutta la nostra storia comune mi appare segnata da una fase di ricerca di visibilità politica e aggregativa, di tematiche comuni, di forme di consenso che talvolta sono state sentite da molte come omologanti.

La fluidità è una caratteristica della “società lesbica”; ci saranno sempre, penso, per chi arriva, chi ritorna e chi viene per condividere certe cose e non altre, problemi di accesso al linguaggio politico, e/o di far sentire la voce individuale all’interno di un discorso “forte”, meglio strutturato. Riguardo a questo, voi conoscete la mia posizione personale: é il desiderio che deve condurre alla partecipazione, e solo l’accettazione e il rispetto dei tempi delle differenze possono muovere il desiderio. E tra i tempi delle differenze io includo quello che viene chiamato silenzio e che per me vero silenzio non é, se mai a‑fasia [fine p. 8] nel senso di essere relativamente fuori fase e di usare, per esprimersi, altri linguaggi a cui viene attribuito scarso valore rispetto al nostro bisogno delle parole di tutte.

Quando sento montare l’intolleranza, ricordo sempre quella frase di Wittig in “The Straight Mind”, tradotto sul Bollettino: “ci impediscono di parlare se non parliamo come loro”. Wittig parlava di come il patriarcato censura il lesbismo, ma noi siamo capaci di fare altrettanto tra di noi. In questi ultimi mesi, guardando quel che succede su e giù per l’Italia, mi sembra che siamo entrate nel tempo delle autonomie, che considero una fase di crescita, in quanto assunzione individuale o in piccoli gruppi di percorsi spontanei e necessari, con modi propri di impegnare le forze, di interagire, di aggregarsi. Si sono aperti così una quantità di spazi che penso dovremmo imparare ad usare meglio, per coordinare le realtà locali e per far circolare esperienze e sapere.

Penso che anche in questa fase, ma forse più che nelle precedenti, si giochi la nostra capacità di costruire sulle differenze tra donne lesbiche. E che la situazione richieda un ripensamento della nostra politica, uno studio sulle modalità di usare le differenze per arricchire la nostra visione di come e dove viviamo e vorremmo vivere. E magari, permettetemi di insinuare questo dubbio, non nuovo per me, una riflessione sulle gerarchie che strisciano proprio nelle differenze tra di noi. Perché se é vero quello che dice Giovanna nel suo testo “Appunti per un ‘impossibile’ convegno”, pubblicato sul Bollettino, e cioè che al lesbismo non servono gerarchie perché non ci sono poteri da giocare né rappresentatività, c’è anche un’ineluttabilità dei più e dei meno che subiamo anziché gestire.

Mi sono spesso trovata in situazioni di “consumo scopico” – a guardare situazioni in cui mi trovavo sentendomi profondamente assente, perché non sapevo se ero io in eccesso o in difetto ma certo ero in una situazione di “illegittimazione” rispetto a quello che avveniva, tanto da sentirmi incapace di interagire: appunto, fuori fase. Penso che questo sempre più mi succederà man mano che la nostra società si allarga e si differenzia, come già avviene ogni volta che il mio percorso é lontano da situazioni che incontro.

Un rimedio per quelle esperienze di esclusione e solitudine l’ho trovato riflettendo sulle false simmetrie che costruiamo tra di noi e sulla necessità di stabilire quello che una donna che stimo, Kate Stimpson, ha chiamato “un’etica della [fine p. 9] correzione; un’etica che evita l’imposizione di essere nel giusto, e cura invece la risposta, la chiarezza di linguaggio, e una coscienza dei principi e delle pratiche; un’etica che rispetta la singola persona”, che non pratica l’esclusione dell’o/o, ma usa invece come congiunzione la “e”, o il “sia… sia”.

Un altro rimedio credo sia coltivare un giusto orgoglio lesbico. Dico “giusto” sia perché misurato, cosciente del meno e del più, sia perché é misura di una “identità” di appartenenza che continuo a scegliere.

Leggendo gli atti del convegno mi sentivo ricca perché ci siamo, e mi confermavo l’investimento nella sopravvivenza e nell’affermazione del lesbismo. Credo che siamo una società (scelgo questa parola anziché aggregazione, movimento o tendenza) che di necessità è politica, se non altro nel tentativo di affermare un habitat – non solo una città – dove possiamo pensare, dire, e vivere insieme quel cambiamento che consiste nell’agire in connessione, attivamente i nostri progetti di vita.

Per me ormai é chiaro, rileggendomi dopo questi mesi, che al tempo del convegno attraversavo una crisi di identità lesbica connessa alla caduta di tutta una serie di certezze. Le questioni che dibattevo allora avevano a che fare con la mia messa in crisi di certi tratti collegati alla personalità “femminile”, e più o meno direttamente al rapporto tra lesbismo e femminismo, in particolare alle teorie sulla differenza sessuale, sulla cui impostazione continuo a nutrire profonde riserve. Il convegno ha segnato per me lo spostamento dell’ attenzione dall’identità al soggetto lesbico: “una posizione che può essere occupata in certe condizioni da “donne molto diverse tra loro, per razza, classe, vissuto e situazione”, lo ha definito Teresa de Lauretis. E sebbene non abbia né allora né dopo messo in dubbio che la figura dell’amante fosse centrale a qualsiasi formulazione di una teoria sul lesbismo, allora come ora mi interessa di più pensare al processo di formazione del soggetto lesbico in una “ecosfera”: sia in relazione primaria con altre donne sia come coscienza interattiva e critica rispetto “al dato e al creato” (nell’infinita relatività di tutti i confini, dice Myriam Dìaz-Diocaretz), includendo in questo linguaggi, situazioni storiche, e un simbolico dominante in cui, se la donna é “altra”, la lesbica é ancora più efficacemente il non detto. Al punto che se [fine p. 10] non ci sono nei loro discorsi vuol dire che sono lesbica. Che il mio esserci nel discorso dipende dal mio non dirmi. Che posso esistere solo dove non mi dico.

Ma si sa che la nascita di un soggetto lesbico solo in parte coincide con l’esperienza erotico-sessuale con un’altra donna. I suoi attributi vengono assunti sotto la minaccia della discriminazione sociale e talvolta politica. E tra questi attributi, quelli che noi cerchiamo di coltivare sono reattivi e propositivi rispetto ad una subalternità che sentiamo come un sopruso. E’ questa esperienza contraddittoria, sia di libertà nel nostro corpo attraverso e con le amanti, sia di costrizione sociale, che costruisce la nostra soggettività, semioticamente e storicamente.

Al di là di un’affinità di percorso, resta per tutte noi la necessità di chiedersi da dove parlo e da dove penso, e perché questo luogo è “intollerabile” – nel senso di chiedere che cosa c’è di intollerabile per la nostra società nella formazione di un soggetto lesbico; nel senso di chiedere che cosa c’é che un soggetto lesbico può, e deve dire, e può, e deve fare per esistere altrove.

Vedermi come soggetto lesbico così definito implica per me un vasto rispetto delle differenze tra di noi. E mi pone concretamente il problema di riproporre un atteggiamento aggregativo, filosofico, culturale, domestico che sia anche politicamente impegnato. Perché non é affatto detto che questi atteggiamenti, insieme o separati, siano visti come frutto di una identificazione politica. Una politica (non solo di riflessione) su come far incidere il nostro desiderio nel sociale per cambiarlo.

Per me la donna lesbica è una figura liminale – che sta sulla soglia, che si colloca in apertura. E’ un soggetto che nasce dal divario tra la donna che ha come referente gli uomini e la donna che si riconosce autonoma e portatrice di un erotismo e di un immaginario erotico indirizzato ad altre donne.

Nel concetto di io in relazione di Monique Wittig, l’io femminile alienato si scrive come j/e diviso da una barra, ma viene riproposto come io vincente al plurale femminile, elles: donne che si sentono parte di un continuo di donne centrate in loro stesse, di amazzoni-guerriere, e in questo continuo riconoscono la propria genealogia e continuità. Un soggetto in relazione primaria con altre donne, quindi, ma allo stesso tempo un soggetto in cerca di parole che dicano la sua peculiarità e [fine p. 11] integrità: quella di aver scelto e di continuare a scegliere altre donne come soggetto/oggetto d’amore; e che insieme dicano la sua propria visione, forse simile ma mai identica a quella delle altre.

Politicamente, la donna lesbica che si dichiara e si im/pone rompe gli schemi di una società basata su una definizione di soggetti complementari (donne e uomini) non autonomi (nel caso delle donne), finalizzata ad una struttura riproduttiva con scopi sociali (la famiglia eterosessuale) che certo non incoraggia le donne ad esistere per loro stesse anziché al servizio degli uomini.

Se ancora una volta mi chiedono perché sono separatista, di nuovo risponderò che le mie lotte le faccio con le donne, perché non scelgo di dare le mie energie agli uomini, per quanto solidale io possa dimostrarmi con certe loro idee politiche, scelte sessuali, discriminazioni ed oppressioni che subiscono. Faccio questo per una logica che forse é perversa: cioé che l’unica zona legittima di differenza é, tutto sommato, quella tra uomini e donne. Una differenza che non abbiamo scoperta ora. Le donne la conoscono da sempre perché, come dice la nota poeta nera Audre Lorde, gli oppressi devono saper riconoscere la differenza dei padroni per sopravvivere. Esplorare questa differenza all’interno di una ulteriore distinzione patriarcale, quella etero ed omosessuale, mi interessa poco. Preferisco dedicare le mie energie all’esplorazione delle differenze tra simili, le donne, e trovare modo di usare quelle differenze per nutrire le nostre visioni e le nostre lotte comuni.

La cosa che mi sembra assolutamente necessaria per farlo é vederci come donne legate l’una alle altre tramite un senso di coalizione e di affinità. Non dico più di identità perché (come ben spiega Donna Haraway) mi sembra che dobbiamo resistere all’imperativo di ricreare la sacra immagine della “medesima” e porci invece come soggetti che si riconoscono un’affinità dovuta a scelte coscientemente assunte. Le attività culturali, ricreative, politiche che scegliamo di fare insieme vanno a formare il tessuto di questa affinità. Arrivo a dire che per quanto fondanti siano le categorie sessuali, essere etero o essere lesbiche sono posizioni soggette al cambiamento e all’evoluzione storica. Con ciò non dico che dobbiamo smettere di pensarci come donne lesbiche, ma che il nostro lesbismo deve essere rinegoziato, per fare chiarezza dentro di noi e tra di noi.

Queste per me non sono dichiarazioni di principio, ma [fine p. 12] riflessioni sulle mie esperienze che conducono a una dichiarazione di intenti. Vorrei che trovassimo il tempo e il luogo per pianificare meglio la nostra socialità – da città a città, da proposte politico-culturali a proposte ricreative – per chiederci come possiamo rafforzare il nostro tessuto, renderlo più efficace, come lavorare più e meglio insieme, come usare creativamente le risorse. E vorrei soprattutto che ci fossero più occasioni allargate per pensare una “politica della località”, che esprima, nel rispetto delle nostre differenze e delle nostre necessità di autonomia, questa società lesbica che stiamo costruendo.

[fine p. 13]

NOTE

[1] NdR: Il “Gruppo del Mercoledì” era il gruppo lesbico che si riuniva ogni mercoledì presso la Libreria delle donne di Firenze e che successivamente si costituì nell’associazione culturale lesbica L’amando(r)la


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