“Nicole Brossard: Parole per rinascere. Intervista di Rosanna Fiocchetto a Nicole Brossard”, Tuttestorie n. 1, dicembre 1990.
Ripubblicata sul sito del gruppo lesbico bolognese “Fuoricampo”. E’ ancora consultabile allo
https://web.archive.org/web/20081014095808/http://www.fuoricampo.net/brossard/bros_fioc2.html
Quali eventi o consapevolezze hanno generato la tua passione politica?
Ho fatto i miei primi interventi politici a scuola, protestando contro “la santa Chiesa cattolica” e il potere dei preti. Poi, da giovane adulta, come molti della mia generazione, mi sono battuta per un Québec di lingua francese, indipendente, socialista e laico. Appartengo a una generazione che ha avuto la fortuna di vivere i suoi vent’anni partecipando alla “rivoluzione tranquilla” che ha consentito al Québec di trovare la propria identità e di inscriversi come moderna società francofona nord-americana. In seguito, verso il 1973, tutta la mia energia politica è andata dalla parte delle donne. Fenomeno interessante: nello stesso momento, per la prima volta, ho investito la mia passione politica nella mia scrittura. Prima avevo sempre dissociato il mio impegno politico dalla mia pratica di scrittura; con il femminismo, la passione politica e il corpo della scrittura si sono sincronizzati.
Hai detto che scrivere, per te, è un atto di desiderio, di passione. Ma hai aggiunto che scrivi per “seminare il dubbio”. Rispetto a quali certezze?
Ho detto che scrivo soprattutto per “seminare il turbamento” nel lettore e nella lettrice. Per seminare il dubbio nelle certezze borghesi che, per me, rappresentano la noia, la banalità, la linearità. In effetti, scrivo per rifiutare la stupidità, la mediocrità e l’incoscienza. Questo ha avuto un particolare riflesso a livello stilistico nei testi che ho scritto tra il 1968 e il 1974. Credo che le difficoltà di un testo (sintassi non abituale, rottura del significato, sovversione dei generi) creino un disagio di lettura che costringe i lettori e le lettrici a fermarsi e ad interrogarsi. Questa pausa può modificare la coscienza. Tra l’altro, scrivo per seminare il dubbio e il turbamento perché tollero a malapena i libri che rafforzano lo status quo, i luoghi comuni, l’incoscienza. Per me, i libri sono spazi di riflessione.
Nei tuoi testi tendi ad abolire i confini tra i generi tradizionali con la tecnica della fiction théorique, che fonde poesia, romanzo, filosofia, autobiografia, immagini. La semiologia Teresa de Lauretis la definisce “una pratica di scrittura-al-femminile sperimentale” mirante a creare “nuove mediazioni discorsive tra il simbolico e il reale, tra linguaggio e corpo”, e individua la sua genesi nella ricerca di Virginia Woolf. Sei d’accordo?
Si’, si può affermare senza dubbio che Virginia Woolf è stata la prima e non per caso: il fatto che sia stata femminista ha creato una grande differenza. Non sono certa che generalmente la scrittura delle donne faccia esplodere i generi. Invece sono certa che la coscienza femminista, come l’emozione lesbica, facciano esplodere i generi tradizionali. Perché nella misura in cui la coscienza femminista modifica la nostra lettura della realtà, integra gli elementi biografici nella trama del discorso e ci obbliga a rivalutare il nostro rapporto con il mondo e il nostro posto nel mondo, questa coscienza ci obbliga a ricorrere a rituali e strategie di scrittura che trasgrediscono e modificano l’uso che facciamo del poetico, del narrativo e del teorico. Nella misura in cui la coscienza femminista interviene radicalmente nel simbolico, nell’immaginario e nel reale patriarcali, noi non possiamo più comportarci nello stesso modo nel linguaggio. La coscienza femminista forza in noi delle “rivelazioni” che non possono essere enunciate rispettando la convenzione dei generi. Sapendo che il linguaggio ci intrappola, poiché il femminile è sempre marginalizzato, interiorizzato o cancellato, dobbiamo fare ricorso a strategie e posizioni di scrittura che ci permettano di inscriverci come soggetti nel linguaggio. Dobbiamo nello stesso tempo: ripulire il linguaggio dalle sue menzogne sulle donne, inscrivere la nostra versione della realtà, esplorare le dimensioni impensate dell’umano.
Quali sono le scrittrici e gli scrittori del passato che ti hanno trasmesso la passione per le parole? E quali scrittrici contemporanee senti più vicine?
Mallarmé, Blanchot e Barthes hanno certamente nutrito la mia passione delle parole e la mia passione per la scrittura. Gertrude Stein, Djuna Barnes e James Joyce mi hanno ispirata, stimolata, provocata. Clarice Lispector mi affascina ancora per l’estraneità e la bellezza della scrittura. Più vicino a me nel tempo, direi che in generale chiunque mostri la lingua alla letteratura, chiunque accarezzi la lingua con la sua lingua di scrittura, chiunque esplori, s’interroghi e muoia un poco ogni volta per la complessità della vita, m’interessa. Amo essenzialmente le poete e le filosofe, le ludiche e le esploratrici, coloro che sanno che in una lingua ci sono parole per rinascere.
Cosa vuoi dire quando affermi: “Se non c’è gioco nella scrittura, c’è ideologia”?
Ho semplicemente voluto dire che una scrittura che pretende di dire senza tremare, senza scherzare, senza giocare, senza far esplodere la lingua, non può che ripetere l’ideologia dominante, o al meglio proporre qualche variante a questa ideologia. E’ proprio delle ideologie non rimettersi in questione. Le ideologie sono come poesie estinte. Per esempio, preferisco di gran lunga l’espressione “pensiero femminista” a “ideologia femminista”, perché nel pensiero c’è movimento, creazione; nell’ideologia c’è ridondanza, rigidità, slogan.
Ciò che colpisce in modo primario nella tua scrittura è l’intensità. Da dove viene questa energia, e attraverso cosa passa?
Energia, intensità, desiderio sono per me parole chiave. Sono parole che associo alla creatività. E per me la creatività è la capacità che abbiamo di elaborare attraverso il linguaggio il nostro sapere, le nostre certezze, la nostra memoria, le nostre energie mentali e sessuali, in modo da avere e da dare accesso ad angoli inediti della realtà. La questione del desiderio per me è essenziale, perché il desiderio è movimento, progetto. Stimola l’immaginazione, acuisce le nostre sensazioni, provoca emozioni forti, tiene all’erta il pensiero. L’energia del mio desiderio ha il suo medium nelle donne, nei libri, nella stessa creazione e soprattutto in una instancabile ossessione di voler comprendere le leggi che distribuiscono una parte dei nostri desideri nella finzione, l’altra nella realtà.
Ne L’Amèr del 1977, hai avvertito le lettrici con una chiarezza veramente insolita: “Se non fosse lesbico, questo testo non avrebbe senso”. Perché?
Credo che ci siano, in ciò che organizza la coerenza del nostro discorso, una intenzione, delle immagini e una identità primaria da cui derivano tutte le nostre proposizioni e la rappresentazione che facciamo del mondo. L’Amèr non sarebbe lo stesso libro se fosse stato scritto da una prospettiva eterosessuale. E’ la questione del valore che è in causa. Per esempio, la prospettiva lesbica è cosi’ sovversiva perché focalizza simultaneamente l’attenzione sulle donne come soggetti d’identità, d’interesse e di desiderio, e ciò ha l’effetto di valorizzare le donne in generale, di renderle significanti e presenti allo spirito qualunque sia il contesto.
Hai espresso spesso un radicale rifiuto del legame patriarcale madre/figlia. In particolare, hai scritto: “L’origine non è la madre, ma il senso che io do alle parole; e, originariamente, io sono una donna”. E’ un rifiuto di simbolizzare la genealogia femminile?
Sappiamo molto bene che in un contesto patriarcale la madre è uno strumento di trasmissione dei valori patriarcali, e che questi stessi valori non solo interdicono una genealogia femminile, ma contribuiscono ad isolare ogni figlia nel labirinto dei valori patriarcali. Anche ogni donna è obbligata ogni volta a scegliere tra la genealogia maschile o inventare la sua propria donna simbolica e anche diventare nello stesso tempo figlia-madre. Donne come Virginia Woolf, Monique Wittig, Mary Daly o Louky Bersianik possono essere considerate madri perché da esse ha origine un significato che ci riguarda tutte. E’ questo legame a essere vitale per noi, ed è il solo che possa dare inizio a una continuità feconda.
Ne La lettera aerea hai rappresentato la cultura al femminile come una spirale che rischia di chiudersi se rispetta le frontiere del significato. Hai l’impressione che in questa fase storica la spirale si stia aprendo o chiudendo?
E’ una questione difficile. Da un lato, le femministe sono finalmente andate al di là delle rivendicazioni consentite dalle società liberali (uguaglianza e giustizia sociale). Penso anche che abbiamo bene identificato i meccanismi di alienazione e di dominazione delle donne e che, nel corso degli anni, ci siamo date una biblioteca di madri, spazi di lavoro e di celebrazione. Se dipendesse solo dalle femministe radicali e dalle lesbiche femministe, la spirale si amplierebbe sempre di più. E’ anche certo che molte delle donne che non sono femministe non accetterebbero più di tornare indietro su alcune questioni, come l’aborto, l’educazione, il lavoro. Tuttavia, trent’anni di femminismo radicale sono pochi nel tempo patriarcale e niente è stato veramente cancellato della misoginia, del fallocentrismo e del sessismo. Inoltre, si constata in generale che i discorsi e gli atti anti-femministi aumentano proporzionalmente al successo del femminismo, il che non è affatto rassicurante. Ciò detto, sono convinta che l’apertura della spirale dipende innanzitutto dall’energia che le donne si scambiano tra loro, oltre che dal riconoscimento e dalla legittimazione che ci accordiamo reciprocamente.