Roberto Calasso, 1991. Le nozze di Cadmo e Armonia, Milano: Adephi, 1991, pp. 98-99 . Segnalato e trascritto da “Balpa”
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L’innominabile erotico, per i Greci, era la passività nel coito. Se gli amanti (eromenoi) devono usare tante attenzioni e obbedire a tante regole perché il loro comportamento si distingua senza possibilità da quello dei prostituti che, “pur avendo corpo di maschio, peccano i peccati femminili”, non è soltanto per l’indegnità che colpisce chi accetta la parte della donna, così stravolgendo il proprio rango sessuale. Ma è il piacere stesso della donna, il piacere della passività che è sospetto in sé, e forse cela una malvagità profonda. Quel piacere ingannatore incita a infierire su quella certa bruttura che appartiene alla fisiologia e all’anatomia di questi esseri esteticamente inferiori, costretti ad ostentare “seni informi e prominenti, che tengono legati come prigionieri” proprio perché si avverte che quella bruttura potrebbe celare un potere irridente, che fugge alla presa del maschio. Molto evasivi su questo punto furono gli Ateniesi, che pure non si stancavano di esporre la casistica dell’amore per i ragazzi.
Intorno a ciò che le donne possono fare, quando sono sole e inosservate dall’occhio maschile, sembra regnare un riverente ed ominoso silenzio. Dell’amore fra le donne non si osa talvolta dire il nome, ed è penoso constatare come in certi passi del genere il traduttore moderno traduce con “lesbismo” quella parola proibita, senza percepire l’incongruità. “Lesbismo” non significava nulla per Greci, mentre il verbo lesbiazein significava il “leccare le parti sessuali”, e la parola tribades, “strusciatrici”, indicava le donne che amano altre donne, come se nella furia dei loro amori volessero consumarsi la vulva.
Ma non era tanto l’amore fra donne ad indignare – difficili erano i Greci, per loro grazia, a indignarsi-, quanto il sospetto, insediato nella mente, che le donne avessero una loro indecifrabile autosufficienza erotica di cui forse erano il segno quei riti e quei misteri che celebravano escludendone gli uomini.
E, dietro a tutto, il sospetto più grave riguardava il piacere del coito. Solo Tiresia aveva saputo intravedervi la verità, e proprio per questo era stato accecato. Un giorno, Zeus e Hera si bisticciavano e chiamarono Tiresia per chiedergli chi, fra l’uomo e la donna, avesse più piacere nel coito. Tiresia rispose che, se il piacere ha dieci parti, la donna ne riceve nove, e soltanto una l’uomo. A queste parole, Hera si infuriò e volle accecare Tiresia. Ma perché Hera si infuriò? Non poteva gloriarsi di quella superiorità, che la distaccava persino da Zeus? No, qui si toccava un segreto, di quelli che i veggenti sono chiamati a custodire più che a svelare. Quel pettegolezzo sessuale, comunque, continuò a circolare. Secoli dopo lo si ripeteva, come sempre un po’ deformato: dicevano che il piacere della donna era soltanto il doppio rispetto a quello dell’uomo. Ma tanto bastava: era quella la conferma di un antico dubbio, vecchio almeno quanto la sfrenatezza delle figlie del Sole.Forse la donna, quell’essere sequestrato nei ginecei, dove “non entra una particella del vero eros”, sapeva molto di più del suo dominatore, sempre in giro fra palestre e portici.
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