Nerina Milletti, 1994. “Calavrisella mia, facimmu ‘amuri? La storia delle lesbiche contadine italiane attraverso le tradizioni orali”, Quir: mensile fiorentino di cultura e vita lesbica e gay, e non solo…, n. 11, pp. 23-26.
Ripubblicato su Babilonia e vari siti web. Qui anche nella traduzione inglese, cortesia di Nina Peci, e in pdf (poco leggibile, però).
Per quanto riguarda la storia lesbica e gay, in Italia la cultura e le tradizioni popolari sono un campo di studio quasi del tutto inesplorato e che perciò può riservare molte sorprese. Sappiamo qualcosa delle lesbiche celebri, aristocratiche od artiste appartenenti ad una determinata classe sociale perchè hanno potuto lasciare documenti scritti, e conosciamo le descrizioni delle “invertite” ricoverate in manicomio grazie al fatto che gli psichiatri ne descrissero i casi clinici, ma non sappiamo quasi nulla delle esperienze e della vita sessuale e affettiva della stragrande maggioranza delle donne, in particolare di quelle che vivevano lontane dalle città, appartenevano a comunità contadine, agrarie e pastorali e non avevano accesso alla scrittura. La loro storia può essere invece, almeno in parte, recuperata attraverso lo studio delle tradizioni orali: credenze, valori e atteggiamenti morali venivano diffusi e trasmessi di generazione in generazione attraverso canti, proverbi, riti magici e favole.
Così possiamo scoprire che in comunità relativamente isolate dalla cultura dominante i rapporti sessuali tra donne erano considerati comuni, e che potevano anche essere accettati grazie ad una strategia che considerava questa (ed altre) trasgressioni come la conseguenza di strani accadimenti o di malie che in qualche modo giustificavano la donna che ne era oggetto e ne impedivano la condanna totale.
Giovanni de Giacomo[1] nel 1889 ascoltò da Teresa Sarsale – anziana vedova di un ricco pastore (che cioè possedeva greggi proprie) e nata a Cerchiara in provincia di Cosenza – alcuni canti erotici delle comunità pastorali del basso Pollino, un massiccio montuoso ai confini della Basilicata.
In essi si afferma il primato dell’appagamento fisico rispetto alla tensione del desiderio e si rispecchiano norme diverse da quelle esistenti nella cultura dominante che sono qui messe in parola e socializzate dalle donne. Questa letteratura erotica femminile fortemente trasgressiva fece sicuramente parte della cultura delle donne che ascoltarono i canti e li tramandarono ma certamente essa dovette godere anche del consenso della comunità (che altrimenti l’avrebbe censurata o cancellata), per sopravvivere attraverso generazioni fino quasi ai giorni nostri, quando fu “interamente distrutta quasi senza essere stata notata”.
Leggendo questi testi si può rilevare che le donne anziane ritenevano la sessualità un loro diritto, e la praticavano in tutti i modi possibili, dai rapporti con uomini, adolescenti e donne, alla masturbazione e ai rapporti con gli animali. Ed erano loro, le anziane, a trasmettere i principi della morale sessuale e ad avere una conoscenza approfondita delle tecniche sessuali che controllavano anche tramite pratiche magiche.
Una ragazza sarebbe stata destinata ad amare le donne se il suo primo sangue mestruale non fosse stato mescolato al becchime e fatto mangiare alle galline e se, in seguito, un galletto non avesse beccato dei chicchi di grano posti sul pube della giovane. Nello sfortunato caso in cui questa serie di eventi non si fosse realizzata allora: “chi fuocu ardenti, fimmini ccu fimmini! chi furori!” (“che fuoco ardente donna con donna! che furore!”).
Un rapporto sessuale tra donne, seppure ingannevole e strumentale al matrimonio, faceva calmare la collera di Dio suscitata da un rapporto eterosessuale prematrimoniale. La ragazza colpevole poteva infatti riacquistare la verginità perduta, ma per ottenere che il marito “trove chiusa la porta ch’è stata aperta e la collira di Dio è carmata”, doveva penetrare col pollice della mano destra un’amica ancora vergine e raccoglierne il sangue in una pezzuola.
Il curatore del libro in cui è riportato questo rito ci rassicura dicendoci che l’amica troverà poi modo di vendicarsi della malvagia che per salvare sè stessa le ha fatto perdere la verginità, e descrive una scena di seduzione in cui è evidente la partecipazione erotica di entrambe le donne: la prescelta “folle, accecata, dimentica delle parole di avvertimento della mamma [!], perduto ogni pudore, eccola nelle braccia di lei, sotto il nudo convulso petto”, mentre la mano dell’altra “dapprima lieve come fiocco di neve, diventa nel momento opportuno, quando cominciano a scorrere brividi nelle ossa ed un fremito corre nelle carni, forte e crudele…”
L’esistenza di rapporti sessuali tra donne era quindi ben nota anche sui monti più isolati della Calabria del 1850-1890, dove le leggi civili e religiose che li condannavano non erano un deterrente sufficiente ad impedirli. Su queste montagne abitavano anche dei singolari personaggi, le sbraie, che a noi appaiono come la versione montana e selvaggia delle “lesbiche maschili”. Queste donne eccezionali, che non avevano rapporti sessuali con uomini, erano infatti:
“alte, secche, tutte nervi, forti ‘cumi Luciferu’; giovani querce con pochi rami e poche foglie; la voce grossa di maschio, gli occhi che incantano, la bocca che ha parole senza sorriso; pochissimi e ispidi capelli sulla testa; bassa la fronte; le carni brune e senza mammelle… Molte donne sono destinate a mettere sotto, ad esse istigando sfrenate passioni. Una notte ed un giorno, per quanto fossero lunghe le ore, non basterebbero al loro amplesso furente, mai soddisfatto”.
Il loro destino era stato deciso alla nascita, quando erano cadute battendo la testa e la placenta nella quale erano avvolte era stata mangiata da un gatto e da un cane. Così si diventava sbraie, donne maledette (“le sbraie vicini e luntani… chi moranu accisi!”) ma che erano utili alla comunità perchè il sangue raggrumato che si diceva producessero dopo il rapporto sessuale aveva la proprietà di guarire convulsioni e malattie di nervi: “sangu acquagghiatu di zitella sbraiata da malanni e matruni t’ha sarvatu” (il sangue cagliato di vergine sbraiata ti ha salvato da malanni e isterismo).
Potevano anche guarire “‘u mali asciuttu” (una grave malattia che colpiva gli organi genitali delle donne), attraverso una curiosa procedura: la sbraia e la malata, entrambe nude e in stretto contatto pube contro pube, dovevano rimanere a letto insieme per otto giorni, bevendo latte e mangiando peperoni ‘brucenti’. Il liquido – non meglio identificato – emesso dalla sbraia in questa occasione faceva guarire l’inferma:
“è simenta fuornici sbraiata, è acqua chi sane e chi ristore, è iazzu chi stute lu furori, è fuocu chi l’acqua ti addissicche; biniditta chini l’ha criata, biniditta ‘a donna chi la tene” (“è seme di sbraia, è acqua che sana e che ristora, è gelo che spenge i furori, è fuoco che l’acqua dissecca; benedetta chi l’ha creata, benedetta la donna che ce l’ha”).
In base alle loro caratteristiche fisiche e al comportamento sessuale esplicito ed attivo, le sbraie avrebbero potuto essere facilmente classificate dai medici positivisti come “invertite”. Ma queste definizioni allora ancora non esistevano e le isolate comunità di montagna delle quali queste donne facevano parte non avrebbero comunque potuto venirne a conoscenza. Donne che hanno rapporti sessuali con altre donne vengono cioè percepite come un gruppo di individui con caratteristiche proprie, che meritano un nome particolare e alle quali dunque viene attribuita una specifica identità, quella di sbraia. La distinzione non è basata sulle pratiche sessuali (perché, come abbiamo visto, anche donne “normali” potevano avere rapporti sessuali con altre donne), ma riconosce l’esistenza di un persistente e determinato orientamento sessuale, considerato una categoria specifica della loro esperienza.
Le sbraie sono quindi un esempio di come – contrariamente a quanto affermato dalla corrente “invenzionistica” o “nominalistica” della storiografia gay e lesbica – una categoria di individui caratterizzati dalla trasgressione di genere e dal comportamento omosessuale (come nel caso di queste protolesbiche calabresi), era già esistente e riconosciuta prima che ciò venisse stabilito e ratificato come “konträre Sexualempfindung” (Carl Westphal, 1869; in italiano: “inversione dell’istinto sessuale”, Arrigo Tamassia, 1878) [2].
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NOTE:
1. Giovanni de Giacomo, 1972. La farchinoria: eros e magia in Calabria. A cura di Raffaele Sirri. Napoli, De Simone. Su Giovanni De Giacomo vedi ad esempio Valentina De Lorenzo e Francesco Capalbo. Giovanni de Giacomo inviò nel 1914 “La farchinoria. Pervertimenti sessuali, credenze, usi e canti tradizionali erotici di alcuni pastori della Calabria”, alla rivista Anthropophyteia (1904-1914, 10 più 7 volumi monotematici) ma non fu pubblicata perchè nel frattempo la rivista cessò. Fu pubblicata postuma nel 1972 su richiesta del figlio che la trovò tra le carte del padre. Oltre alla summenzionata rivista, erano dedicate al folklore erotico anche: Kryptádia (1883-1911 in 12 volumi); Contributions au folklore érotique (1906-1909, in 4 volumi). Vedi anche Domenico Scafoglio, 1984. Norma e trasgressione nella letteratura. Roma, G. Gangemi e per la parte generale sui lavori storici: 1996, Racconti erotici italiani, vol 1, Roma: Meltemi, pp. 9-60.
2. Carl Friedrich Westphal, 1869. “Die conträre Sexualempfindung, Symptom eines neuropathischen (psychopathischen) Zustandes”. In: Archiv für Psychiatrie und Nervenkrankheiten; 2(1): 73-108; Arrigo Tamassia, 1878. “Sull’inversione dell’istinto sessuale”. Rivista sperimentale di freniatria e medicina legale in relazione con l’antropologia e le scienze giuridiche e sociali, 4: 97-117.
As far as gay and lesbian history, in Italy the popular culture and tradition are an unexplored field of study that may hold many surprises. We know something about famous lesbians, aristocrats or artists belonging to a determined social class because they left written documents. And we know the descriptions of the “inverts” recovered in the madhouse thanks to the fact that the psychiatrists described clinical cases. But we know almost nothing about the experiences and the sexual and emotional life of the huge majority of women, in particular those that lived far away from the city, that belonged to the farming, agrarian and shepherding communities and did not have access to writing.
Their story might, at least somewhat, be salvaged by the study of oral traditions: beliefs, values and moral attitudes were diffused and transmitted from generation to generation through songs, proverbs, rituals, magic, fables, etc. We can thus discover that in communities relatively isolated from the dominant culture sexual relations between women were considered commonplace, and could even be accepted thanks to a strategy that considered this (and other) transgressions caused by strange occurrences or spells that in some way justified the actions of the woman that was effected and avoided total damnation.
In 1889 in the home of Teresa Sarsale – elderly widow of a rich shepherd (that is, he owned his own flock) – who was born in Cerchiara in the province of Cosenza – Giovanni de Giacomo listened to some erotic songs of the shepherd community of the basso Polliuo, a mountainous mass at the border of Basilicata. Those songs affirmed the primacy of the physical gratification with respect to the tension of desire and reflect different norms from those existent in the dominant culture, put into words and socialized by women. This strongly transgressive feminine erotic literature was surely a part of the culture of the women that listened to the songs and handed them down, but to survive through the generations, it must have enjoyed the consent of the community (that otherwise would have censured or erased it) up until almost our day, when it was “wholly destroyed almost without being noticed.”
Reading these texts, one can observe that the elderly women held their sexuality as their right and practiced it in every possible way, from relationships with men, adolescents and women to masturbation and relations with animals. And it was they, the elderly, that transmitted the principles of sexual morale and had a thorough knowledge of sexual techniques, exercised by even magical practices. A girl would have been destined to love a woman if her first menstrual blood was not mixed with feed and fed to the chickens, and if afterwards a rooster did not peck some grain placed on the pubes of the girl. In the unfortunate case: “what impassioned fire, woman with woman! what a rage!”
A sexual rapport between women, even if deceitful and instrumental to marriage, calmed the wrath of God incited by a premarital heterosexual relationship. A girl could, in fact, regain her lost virginity, but to obtain that her husband could “find closed the door that was opened and the wrath of God calmed,” she must penetrate with the thumb of his right hand a female friend that is still a virgin, and collect the blood in a rag. The editor of the book in which this ritual is told reassures us that the friend will find a way to vindicate herself from the wicked who, to save herself, would make her lose her virginity, and describes a seduction scene in which it is evident that both of the women are participating: the chosen girl
“crazy, blinded by passion, forgets the words of warning of the mother [!], lost in every modesty, there she is in her arms, under the nude convulsive chest” while the hand of the other “at first light as a snowflake, becomes, at the right moment, when chills begin to run in their bones and throbbing runs through the flesh, strong and cruel…”
The existence of sexual rapports between women was therefore well noted also in the most isolated mountains of Calabria in 1850-1890, where the civil and religious laws that condemned them were not a sufficient deterrent. And on these mountains there also lived some singular characters, the sbraie, that appear to be the wild mountain version of the “masculine lesbians”. These exceptional women, that did not have sexual relations with men, were in fact:
“tall, thin, all nerves, strong as the devil, young oaks with few branches and few leaves; voice thick with masculinity, eyes that enchant, mouth that words with no smile, very thin and bristly hair, low foreheads, brown skin without breasts… Many women are destined to succomb to these women, instigating the most wildest of passions. A night and a day, however long the hours were, it would not be enough to ever satisfy their furious embraces.”
Their destiny was decided at birth, when they fell hitting their heads, and the placenta in which they were wrapped was eaten by a cat and a dog. They were cursed: “sbraie near and far… that they die killed!” but at the same time they were helpful to the community, since the clotted blood that, so it was said, they produced after a sexual relationship had the properties to cure convulsions and nervous disorders: “the curdled blood of the virgin sbraiata saved you from the misfortunes and hysteria.”
They could also cure “‘u mali asciuttu”, grave desease that affected the genital organs of women through a curious procedure: the “sbraia” and the sick one, both nude and touching pubes, had to stay together in bed for eight days, drinking milk, and eating “burning” peppers. The poorly identified liquid emitted by the “sbraia” in this case healed the sickness:
“It is the seed of the sbraia; it is the water that heals that restores; it is the ice that puts out the fire; it is the fire that the water dries; blessed he that created her, blessed the woman that has her.”
Sexuologists could have easily classified the sbraie as “inverts”, but in that period these definitions did not yet exist and anyway they would have been ignored by the isolated communities in the mountains of which these women were a part of. This is a case where women who have sexual relationships with other women are understood as a group of individuals with their own characteristics, that deserve a particular name and to which thus is attributed a specific “identity”, that of sbraia.
The distinction here is not between sexual practices (as we have seen, even “normal” women could have relationships with other women) but between people with a persistent and determined sexual orientation, considered a specific category of their experience. This is therefore an example of how – contrary to the affirmations of the “inventionalist” and “nominalist” trends in gay and lesbian historiography – a different type of individual, characterized by general transgression and by the homosexual behavior (in our case that of these Calabrese “protolesbians”), was already existent and recognized before it was established by scientists at the end of the 1800’s.
http://wwww.leswiki.it/repository/testi/1994milletti-calavrisella.pdf