1997, Liana Borghi – Insegnare il queer

Liana Borghi, 1997. “Insegnare il queer: marginalità, resistenza, trasgressione”. Relazione pubblicata in: Gigi Malaroda e Massimo Piccione (a cura di), Pro/posizioni. Interventi alla prima università gay e lesbica ‘Otia Labronica’, Livorno 24-30 agosto 1997. Stampato in proprio presso Pisa: Industrie grafiche Pacini, 2000, pp. 68-80.

Relazione presentata a Livorno nel 1997 e pubblicata nel 2000 negli atti di “Otia Labronica”. In fondo alla pagina il link ai file PDF e RTF relativi alla pubblicazione;  qui di seguito, invece, il testo corretto dall’autrice nel dicembre 2020.

Insegnare il queer: marginalità, resistenza, trasgressione

Liana Borghi

 

Un problema didattico?

Mi occupo di letteratura anglo-americana, con particolare interesse per la teoria lesbica, specie se collegata alla letteratura. Dal punto di vista metodologico e teorico, faccio riferimento a un poststrutturalismo femminista coniugato abbastanza tipicamente con gli studi postcoloniali (che studiano i sistemi di oppressione), con quelli dei subordinati (che studiano il rapporto tra dominandi e dominati), e con quelli della diaspora (che studiano l’impatto della “razza” nel mondo) – strategie culturali utili a mettere a fuoco le diversità, spiazzare antiche egemonie, indagare su luoghi di pregiudizio e di oppressione, e vedere come si costruiscono narrative di inclusione ed esclusione.             Il mio progetto lesbico, per quanto non sia né facile né possibile, e nemmeno forse desiderabile, tenerlo sotto controllo, riguarda ogni aspetto della mia vita. Lavoro come insegnante, e da quando mi sono identificata con il lesbismo mi pongo il problema di come insegnare da lesbica. Non entro nella gamma di accezioni della parola “lesbica”, la cui storia è di per sé un progetto di “potere” ideologico e politico. Qui intendo il posizionamento di una persona che si identifica con una storia di genere femminile segnata dalle divergenze tra la prospettiva eterofemminista e quella lesbica; che per il sesso e gli affetti preferisce le donne, e che eticamente si sente responsabile di una pratica di non violenza e solidarietà condivisa con altri soggetti “marginali”. La definizione che trovo più consona alle mie aspirazioni, è il “soggetto eccentrico” — lesbico, ibrido, e in/appropriato — descritto da Teresa De Lauretis: una forma di soggettività “raggiunta attraverso pratiche di spostamento politico e personale, attraverso confini, identità e comunità sociosessuali, tra corpi e discorsi”.[1]

Per vari anni, in un periodo di forte politicizzazione lesbica, ho insegnato corsi di women’s studies. I pochi uomini interessati, sentendosi poco considerati in un discorso che si indirizzava sempre alle donne presenti, non frequentavano. Era un modo indolore per creare un ambiente separatista. Ma ultimamente ho molti studenti di vari indirizzi e di ambedue i sessi. Così mi è sembrato importante cercare un approccio che costruisca ponti su e attraverso il genere, affrontando il tema dell’omosessualità come una forma, specifica ma sempre una, tra le tante forme di discriminazione che pratichiamo quotidianamente, spesso senza nemmeno rendercene conto. Pur continuando a vivere una vita “lesbica”, ho deciso perciò di provare a insegnare il queer.

            La parola Queer, secondo l’Oxford Dictionary, fin dall’Ottocento significa strano, eccentrico, sospetto, guasto, e nel Novecento viene a significare, per traslato, omosessuale.[2] Dalla fine degli anni Ottanta, il termine è stato politicizzato, in America e in Europa. Nell’aprile del 1990 l’Associazione Queer Nation fu fondata a New York per reazione ai pestaggi dei gay nell’East Village e come strategia antiassimilazionista che però insisteva sui diritti civili. Da un lato, etimologicamente, la parola resta contrapposta a “normale”, indicando una zona di coatta e violenta normalizzazione omofobica da parte della società; dall’altro, come vedremo in seguito, vuole significare differenze fondamentali rispetto al movimento gay e lesbico del ventennio precedente, e una rottura dei “radicali del sesso” nei confronti del femminismo. Come dice Mary McIntosh, il queer e’ una forma di resistenza, un rifiuto di etichette, patologie e moralismi.”[3] Opposto alla politica dell’identità, non separatista, convinto dell’illusione del gender, il queer sostiene il polimorfismo sessuale e de-genere, sottolinea attraverso la parodia e la performance il rifiuto dell’assimilazione e del sistema eterosessuale, e cerca alleanze per affinità con tutti i soggetti oppressi.[4]

Progettando il corso, cercavo modi di integrare un’analisi del sommerso gay nei romanzi dello scrittore inglese E. M. Forster con un discorso lesbico su autrici moderniste e post-moderniste.[5] La chiave giusta mi sembrava il tema del passaggio, variamente definito intrecciando soggettività e posizionamento storico-geografico, e per entrare nel vivo del queer avevo incluso Passing (1929), il romanzo della scrittrice nera Nella Larsen che dà il titolo al saggio di Anna Camaiti Hostert dove la questione dell’identità nera viene collegata alle nuove identità mutanti.[6] Nel corso, queste e altre forme di passaggio intersecavano la flânerie lesbica presente in vari testi, tra cui La foresta della notte di Djuna Barnes, e La passione di Jeannette Winterson.

Preparando le lezioni, mi rendevo conto che trasmettere a circa 150 studenti i rudimenti del pensiero postmoderno tagliato sulla letteratura gay e lesbica di lingua inglese richiedeva qualche accorgimento. Da una parte dovevo evitare un’insurrezione di cattolici popolari in classe; dall’altra sapevo che era necessario dare a persone giovani in massima parte eterosessuali (o auto-presunte tali) abbastanza appigli eteropatriarcali da creare un percorso di differenze. Così avevo incluso nel programma Abraham Cahan e Jean Rhys, due scrittori affascinanti e per niente innocui, con tematiche collegate all’ebraismo e all’identità caraibica, e speravo che la popolarità del film “Passaggio in India” di David Lynn potesse mantenere Forster sul filo del rasoio dell’eterosessualità, grazie anche alla controversa storia dello stupro nel romanzo e nel film. In altre parole, mi preparavo ad annodare saldamente il discorso lesbo-femminista a un discorso vasto e vario sulle diversità piuttosto che sulle differenze, quindi a fare un discorso storicamente costruzionista (termine che spiegherò meglio in seguito) e ideologicamente queer. Due presupposti mi venivano comunque dal femminismo poststrutturalista: che la soggettività (come insegna Teresa De Lauretis) si costruisce attraverso molteplici intersezioni di identificazioni e differenze, e che l’identità deve essere concepita come un processo di continua dis-identificazione.[7] Un altro presupposto foucaultiano mi veniva da Homi Bhabha e Diana Fuss: che l’omosessualità, come la razza, è un segno che rivela la distanza tra chi ha il potere e chi non ce l’ha,[8] è una categoria che denota in negativo quello che non sta nella “norma”. Noi ci siamo riappropriati in positivo di questo marchio e pratichiamo la visibilità per diventare culturalmente e politicamente “intel-leggibili”.[9]

Nel corso collegavo omosessualità e multiculturalismo, evidenziando la non-omogeneità delle nostre culture (internet, tecnologia, migrazioni, diversità nei movimenti – come nel caso dei senza fissa dimora o dei nomadi), la molteplicità delle nostre appartenenze, e il rapporto inclusione-esclusione che struttura l’emarginazione. Il concetto di multiculturalismo era usato con cautela, avvertendo quanto inevitabilmente sottenda l’identità, e tenda ad occultare i meccanismi di potere che stratificano le culture.[10] Mi sembrava cio’ nonostante un approccio utile perche’ aperto ad altri, come gli studi sulla diaspora, gli studi transnazionali, postcoloniali, e quelli sull’economia globale, attraverso i quali impariamo a leggere il mondo con gli occhi di chi é stato colonizzato, o si trova in posizione subordinata. Abbiamo tutti esperienza di egemonie di vario tipo, ma serve capire e sentire la specificità materiale di ciascuna di esse. Il multiculturalismo del mio programma (dove gli autori rappresentano l’inglese della diaspora postcoloniale, e non solo quello dei testi canonici) si coniugava inoltre con un approccio queer per mostrare come si possano leggere diversità culturali e differenze, evidenziando allo stesso tempo l’egemonia dell’eterosessismo. Come spiegherò meglio, applicavo un metodo critico di lettura incentrato sulla sessualità il queering, usato da Judith Butler per destabilizzare e destrutturare certi testi, tra cui Passing di Nella Larsen.[11] Il termine incrocia programmaticamente la forma progressiva di un verbo che significa mettere a disagio, imbarazzare, con l’aggettivo queer che come sappiamo significa strano, sospetto, gay.

Questioni di genere

Il queer permette di usare un approccio interdisciplinare che includa gli studi di e su lesbiche, gay, bisex, trans, ecc., dalla cui posizione marginale, “eccentrica”, teorizzare e valutare la produzione e circolazione di sessualità basata sulla diade etero/omosessuale che sta al centro delle culture occidentali. In questo, secondo Jacquelyn Zita, il queer corregge parzialmente un’omissione delle femministe nei confronti delle lesbiche, che le vede sessuate al femminile, ma non riconosce loro il fatto di essere oppresse sia in quanto donne, sia in quanto “pervertite omosessuali”. Va detto però che a sua volta il queer crea un problema inverso, perche’, leggendo la sessualità lesbica ma cancellando la specificità femminile rivendicata dalle teorie del genere, non vede quanto sia differente la costruzione del maschile e del femminile, non considera i processi e i meccanismi che producono l’oppressione delle donne e la supremazia degli uomini, e non riconosce quanto sia sbilanciato il potere dei due sessi. [12]

Ora, per quanto il discorso queer mi interessi e mi intrighi, non posso non nutrire riserve su uno strumento teorico che attribuisce così scarsa importanza al genere, che è poi la storia del nostro corpo di donne, lesbiche e non, su cui si è fondata per un paio di decenni la pratica lesbo-femminista. Il genere, categoria socialmente instabile, prodotta tramite la sovrapposizione di razza, sesso, classe, religione e altre variabili, è per noi la categoria primaria per significare il potere. Il discorso sul genere è un terreno di contestazione riconosciuto e rispettato nell’alleanza tra movimento lesbico e gay, a cui e’ sempre stata prestata attenzione politica, ma nel queer è diventato un punto di attrito, come spiega bene sempre Jacquelyn Zita. Se il lesbismo femminista sussume la sessualità nel genere, il queer sussume il genere in una nozione dilatata della sessualità, poiché considera primaria la produzione di etero/omo-sessualità. Il genere, nella teoria queer, è analizzato come performance, secondo modelli interazionisti e liminali; diventa una questione di cultura e simbolico sessuale, e quindi perde la sua materialità specifica, dovuta al conflitto di potere tra sessi, razze e classi.[13]

Che il movimento queer possa non tener conto della misoginia, della supremazia maschile, della costruzione di genere in rapporto alla razza, alla classe e altre situazioni materiali e simboliche, da un lato mi sembra incredibile, dall’altro totalmente plausibile. In una frase di Marilyn Farwell, “Quando il genere viene disconnesso dalla sessualità, come succede nelle teorie postmoderne, si reinventa la centralità dei maschi”.[14] Ma non voglio prendermi l’ultima parola su questo argomento. Mi sembra giusto, anzi, dare un’altra interpretazione ancora di queste divergenze politiche tra lesbiche e queer. Nel suo attacco a certe posizioni dell’establishment omosessuale, che non appare datato nonostante sia del ‘92, l’attivista inglese Cheryl Smyth sostiene che il lesbismo femminista poggia più su una identificazione politica che sull’identità sessuale (e questo e’ stato vero anche per noi in Italia); si affida troppo al concetto di somiglianza tra donne e a una certa qualità androgina e desessualizzata delle lesbiche; prende dal femminismo la richiesta di una uguale rappresentazione delle lesbiche e pari accesso alle risorse, ma costruisce gerarchie usando costantemente una retorica dell’oppressione che spara a zero, indistintamente, su tutti gli uomini; e, last but not least, non sa articolare il desiderio.[15]

Al corrente del dibattito, non mi restava che verificare di persona, sperimentando ma anche evitando di cancellare le marche di genere nel mio posizionamento di lettrice e insegnante. Del queer mi piace l’attenzione che viene data alla lettura, rilettura, dislettura, alla decostruzione (anche se ad alcuni sembra che ciò distolga dalla politica[16]) perché in questo mi sento coinvolta come donna e lesbica che quotidianamente legge la propria differenza sessuale, facendo sul proprio e sui corpi altrui l’analisi dell’eteropatriarcato; e mi piace la libertà che mi dà il concetto di performance. Certo, fare del genere un sommerso (per quanto visibile) mi richiedeva una significativa revisione teorica. E poiché la teoria costruisce orizzonti discorsivi, influenza il modo in cui viviamo, e ci porta a leggere diversamente il mondo, sapevo che studiare il queer, usarlo e insegnarne gli elementi fondamentali avrebbe cambiato sia me che gli studenti. Ma dopo tutto, il corso voleva essere proprio questo, un “passaggio”. Intendevo autorizzarmi a cercare nei testi scelti forme di resistenza e forme di trasgressione, esaminando con attenzione la frattura apparente tra eterosessualità e omosessualità, e facendo comunque emergere le differenze tra maschile e femminile.

È ovvio che il lavoro fatto con la mia classe “etero” non è il lavoro che potrei fare in una situazione di relazione ottimale con altri studiosi di cose lesbiche, gay, queer. Alcuni interrogativi, però sono gli stessi, primo tra questi il rapporto tra omosessualità e genere. Racconto un episodio.

Alla fine dello scorso anno accademico il gruppo femminista Cassandra, formato da studenti universitari, invitò Maria Nadotti a presentare il suo testo Sesso e Genere.[17] Nadotti mostrò un video su una donna albanese, la quale, venendo a mancare il capofamiglia, era stata investita di questo ruolo da parte del clan cui apparteneva e quindi era diventata, a tutti gli effetti, il maschio di casa. Il video fu molto efficace per portarci a discutere della costruzione dei ruoli sessuali e del lesbismo, e inoltre, in una frase di De Lauretis, del modo in cui le istituzioni determinano i soggetti sociali. Durante il dibattito emerse una domanda, “in cosa consiste la trasgressione in una situazione del genere?”. La risposta pressoché unanime fu che in questo caso la trasgressione non c’era. Una donna che assume lo status di uomo non rappresenta una trasgressione, non interferisce con il sistema, ma anzi è ammessa nel sistema, dal quale viene supportata al punto da cancellare il suo ruolo “naturale” e rafforzare quello sociale che non è più di essere donna ma di essere uomo. In quella coppia lesbica di matriarca-moglie la trasgressione non c’era né nel letto né fuori di esso, con buona pace di coloro (e ce ne sono tante) che ritengono che un rapporto lesbico sia di per sé trasgressivo. Alcune di noi continuarono comunque a chiedersi quanta trasgressione avrebbe invece prodotto una coscienza politica lesbica.

Come ci raccontiamo: marginalità, resistenza, trasgressione

 

Il video sottolineava un fatto noto: che nonostante sembri facile trasgredire, il potere in realtà si trasmette ugualmente attraverso assi di differenziazione molto sottili, ridistribuendosi lungo l’asse formato dagli sconvolgimenti delle opposizioni binarie. Giustamente Nadotti si chiede se de-significare il sesso attraverso una politica dell’ambiguità può incrinare la linea di potere, e conclude la sua postfazione al libro L’apartheid del sesso di Martine Rothblatt, una transessuale, dicendo che

il punto non è solo di far esplodere le opposizioni binarie che tendono a organizzare e mistificare l’identità sessuale e di genere, quanto di porre resistenza a tutte le mistificazioni che portano all’oppressione di chi già è criminalizzato, marginalizzato”. [18]

Da questo mio racconto emergono tre termini cruciali per la politica delle donne: marginalità, resistenza, trasgressione. Così come noi lesbiche e gay ci siamo riappropriati di un nome, di una situazione che ci avevano insegnato a disprezzare, riappropriarsi della marginalità è una delle strategie raccomandate dal pensiero post-coloniale, e dal pensiero lesbico come dal queer. Per esempio, in una sua recente finzione teorica, Nicole Brossard si racconta in terza persona dicendo che lei,

una donna sarebbe rimasta inferiorizzata nella sua marginalità fintanto che non avesse trovato le parole che la rendessero ancora più marginale ma questa volta avendo piena coscienza e controllo della propria marginalità.[19]

Per la scrittrice nera bell hooks la marginalità è un luogo di resistenza da abitare come spazio di massima apertura, il luogo dove immaginare e studiare alternative alla cultura dominante.[20] Purché, naturalmente, la marginalità non diventi un altro ghetto ancora. Sentirsi al margine ma in una rete di connessioni (come avviene nelle nostre comunità) ci aiuta a capire quanto siano mobili i confini, e quanto sia relativa la contrapposizione di margine e centro: siamo sempre e comunque implicati in trame di potere, in forme di connivenza. Magari proprio come avviene nel caso dei transex, secondo il mio punto di vista lesbico. Mi spiego, concedendomi una digressione. Un gruppo sociale come il nostro — impegnato da anni o secoli in una ludica o tragica performance del gender, analizzandolo, destrutturandolo, imitandolo a morte (come nel caso delle butch e femme), trasgredendo in senso androgino, riappropriandosene, cancellandone le polarità, e così via — che alleanze intreccia con un altro gruppo sociale come il/le trans che paga letteralmente con il proprio corpo l’irreversibile (almeno per ora) transito di appartenenza da un genere all’altro?

Eppure, come ho già detto, questo scollamento fondamentale per il lesbo-femminismo, non è altro che una veniale differenza per il queer. Gay, lesbiche e trans, dal profondo delle loro differenze, dovrebbero avere almeno un obiettivo comune: quello di analizzare attentamente i processi (psicologici, sociali, culturali, politici) che producono e fissano le nostre identità, che producono e riproducono egemonia, quindi disagio. In questa indagine è importantissimo il come. In Rothblatt, infatti, per quanto fondamentali i passaggi di sesso e genere, la messa a fuoco è abitare il trans, e come abitare il trans — un processo che ci fa osservare attentamente quale sutura ci sia tra i nostri corpi e i significati che vengono loro attribuiti. Parlare di significati da dare ai corpi non è linguaggio corrente nel nostro movimento omosessuale. La questione di come contano i corpi, come li facciamo contare, come vengono trasmessi il potere, l’informazione ecc., non fa parte degli studi lesbici e gay che ci sono familiari, ma di quell’ambito che il mondo anglosassone definisce appunto studi queer.

Torno un attimo a “Pablok”, il video sulla donna albanese presentato recentemente da Nadotti, per puntualizzare il concetto che il ruolo non corrode necessariamente la struttura. Il fatto di essere significati in un certo modo, di chiamarsi/definirsi lesbiche, gay o omosessuali non corrode la macro-struttura di potere chiamata “eterosessualità obbligatoria”: in questa struttura certe storie si possono raccontare e certe no. Se dirsi lesbica e gay rappresenta un atto di quotidiana resistenza, questo interferisce col sistema e serve se non altro ad evidenziarne le contraddizioni. Se invece il sistema se ne appropria e lo omologa, non serve più. Per questo è importante chiedersi cosa mette in contraddizione da una parte il destino di genere, maschile e femminile, e dall’altro la nostra scelta anatomica, la nostra scelta sessuale, il nostro corpo. Quali intrecci dobbiamo scrivere o ripensare rispetto alla nostra vita? Come possiamo raccontare le nostre storie di vita, come possiamo chiederci quale potere sia stato agito su di noi?

La ricerca di narrative che possiamo raccontare, scambiarci, che ci possano servire, e creino comunità è fondamentale. Gli storici dell’omosessualità come i nostri Daniela Danna e Giovanni Dall’Orto lavorano su frammenti di informazione per ricostruire un filo di senso che colleghi i testi del nostro passato in una narrativa plausibile. Ma è importante riconoscere come le storie che servono agli uomini spesso non siano le storie che servono alle donne. Agli uni e alle altre serve comunque raccontare una storia partendo da sé, ridefinendo il proprio posizionamento; serve cioè chiarire chi siamo dove. Per Adrienne Rich, nel suo famoso testo “Politica del posizionamento”, il punto di partenza è sempre e comunque il corpo.[21] Posizionarsi, diventare sensibili alla miriade di differenze di cui viviamo, aiuta a formare nuove e diverse catene di significazione.

Per questo cerco di insegnare ai miei studenti a essere coscienti del potere mitopoietico che possediamo. Cerco di mostrare come riconoscere, costruire e decostruire diversi tipi di narrativa, inventare nuove storie, scrivere le nostre trame, frugare negli scarti, negli interstizi di senso, cercare quello che De Lauretis ha chiamato ‘il fuori campo’, ricordando che nell’immagine non c’è solo ciò che si vede, ma anche ciò che non si vede. Essere coscienti di come costruiamo e veniamo costruiti dalle storie che raccontiamo serve ad affinare la percezione, e a capire la necessità di praticare forme di identità meno rigide, cambiando e scambiando punti di vista e posizionamenti. La scrittrice e regista vietnamita Trinh-Minh-Ha ha usato un assioma che mi piace molto: “la mia diversità è la mia identità”, dice in un passo, e in un altro, “la mia ‘ibridità’ è la mia identità”.[22] Siamo tutti degli ibridi, provvisti di identità varie e mobili che possiamo leggere come un resoconto su come ci situiamo e posizioniamo in un mondo in continuo cambiamento. Identificarsi con il prossimo è una forma di responsabilità; ci serve a capire che siamo immersi in un perpetuo dialogo tra somiglianza e differenza, una forma particolare di travestitismo che giochiamo su piani diversissimi — genere, razza, classe, sessualità — che aiuta noi e gli altri a scoprire nuovi punti di attrito, punti dove può nascere il nuovo, e anche strategie e fattori utili a bloccare, non solo simbolicamente, ingranaggi oppressivi.

Il processo di identificazione e posizionamento dipende anche da un buon ascolto dei corpi — le loro necessità, le insoddisfazioni, il benessere. Ci serve imparare a dis-sentire, cioè non solo a dire no, ma a sentire diversamente, perché ciò spesso ci consente di capire che cosa sentiamo in più e diversamente dalle nostre aspettative. Ovviamente, l’approccio teorico al corpo è tutt’altro che univoco tra le critiche e teoriche contemporanee. Per esempio, per Rothblatt (che fa un discorso centrato sul corpo transex) e per Camaiti, sembra quasi che i corpi di per sé non contino, mentre conta l’uso che di essi si vuole e si può fare. Invece, per altre — Donna Haraway, Teresa De Lauretis e Judith Butler — sembra che i corpi contino, e, come spiega Maria Nadotti, che la questione si articoli nel senso di quali corpi contino, di chi li fa contare, e come possiamo farli contare. Se personalizzo la questione, mi viene da chiedermi come conti il fatto che siamo omosessuali, quanto e come contino i nostri corpi; e poi quali strategie siano state usate per marchiare i nostri corpi, cioè quali nomi ci sono stati dati, e come possiamo usare questi nomi, questi significanti, per cambiare la nostra situazione.

Un approccio costruzionista di questo tipo sostiene, è chiaro, che le nostre identità sessuali sono costruite così come noi le costruiamo. In questa logica, per esempio, la bisessualità, considerata politicamente scorretta da tanti gay e lesbiche, è invece un’opzione reale per chi accetta la scala Kinsey sulla sessualità, che è un po’ come lo spettro delle radiazioni elettromagnetiche, con tutte le sfumature possibili, dall’etero al bi all’omo al trans — posizionamenti mai soltanto circoscritti al sesso, poiché la sessualità investe ogni ambito della nostra vita.

Il termine “costruzionista” che ho appena usato di nuovo fa da spia a una controversia storico-filosofica, nonché politica, che contrappone essenzialismo — omosessuali si nasce, gli omosessuali ci sono sempre stati — a costruzionismo — dove si parla di azioni, di “atti” omosessuali presenti in tutte le società, tra uomini come tra donne, che definiscono una posizione sociale; e dove si contrappongono “atti” ad “attori”. Gli attori, e saremmo noi, hanno uno stile di vita e un’identità organizzati intorno a desideri erotici per lo stesso sesso che sono culturalmente specifici.[23] In quest’ottica, l’identità non è più quello che uno è, ma una serie di differenze che hanno corpo, situate in corpi diversi, marcati in modo diverso. Quindi l’identità, per quanto fluida, ibrida e nomadica, è situata, culturalmente specifica; è un processo; non è qualcosa di scambiabile e intercambiabile, ma viene costituita dai significati che una persona attribuisce a se stessa in quanto oggetto di certe aspettative di comportamento in un dato contesto sociale. Nel pensiero postmoderno e nel queer, l’identità si costituisce all’interno del binarismo omo-eterosessualità, fittamente annodate, uno dei tanti sistemi binari su cui si fonda il pensiero fallogocentrico occidentale, una massa critica che deve essere destabilizzata.[24]

In passato l’identità non veniva considerata fluida, come adesso, ma un dato acquisito eppure stabile, da agire e rappresentare. Penso in particolare alla performance (nel senso di mostrare, far vedere, agire) dell’identità sessuale che per anni ha segnato (e continua a farlo) la differenza di abito e comportamento tra una lesbica e una etero; oppure tra una butch e una femme. Non si tratta soltanto di un discorso di costume, ovviamente, ma anche di un discorso politico che valica i confini delle singole comunità, assumendo le caratteristiche di un’identità collettiva. Le geografie omosessuali mostrano forme di omologazione dovute ai media e alle mode. La cosa curiosa è che sebbene siamo per definizione una società di trasgressori, siamo pieni di regole a volte ferree che dobbiamo trovare il modo di rompere e ripensare.

La nuova scena di aggregazione queer è variopinta e dirompente, una nuova performance, molto mobile e varia, di alleanze diverse, con linee di frattura e confini nuovi che non si basano più sull’identità, ma che anzi mettono in questione la natura stessa dell’identificazione. Se prima l’omosessuale era “chi non era etero”, ora il queer è chi trasgredisce, chi non sta più nella società, chi combatte la normalizzazione dell’eterosessualità che ha “costruito” i gay e le lesbiche. Nel raccontare la sua storia del Queer come una ricerca di un nuovo posizionamento politico-sociale, Cherry Smyth spiega che contrapporre etero e omosessualità come si fa d’abitudine, senza riflettere, finisce per azzerare la gamma di posizioni sessuali intermedie esistenti. Sessualità è un plurale. E in nome di un pluralismo ad arcobaleno rifiuta qualsiasi categoria normativa aprendosi anche agli eterosessuali e bisessuali anti-omofobici.

La visione mutante dell’identità non è un’esclusività queer, ma è tipica del postmoderno. Adottarla ha portato a una critica di precedenti concezioni politiche e a un’allargamento di prospettive. Come spiega Michael Warner, il discorso che ‘il personale è politico’ (fondamentale negli anni’70-’80 e tuttora valido perché ovviamente tutto è politico) si è spostato da una politica dell’identità personale alla politica della significazione, chiedendosi “quale tipo di politica” convenga, come si significano certe cose, quali significati vengono attribuiti, come vengono marcati discorsivamente i corpi, come decostruire il codice omo-eterosessuale

che struttura il testo sociale della vita quotidiana…. L’autocomprensione queer, il modo di vedersi, di sentirsi queer ha a che fare col sentirsi connessi col genere maschile e femminile, con la famiglia, con nozioni di libertà individuale, lo stato, il consumismo, il consumo, il desiderio, la natura e la cultura, i processi di maturazione, la politica della riproduzione, le fantasie razziali e nazionali, all’identità di classe, alla verità e alla fiducia, alla censura, alla vita intima e alla vita sociale, al terrore e alla violenza, alla cura della salute e alle profonde norme culturali che hanno a che fare col corpo. Essere queer significa lottare continuamente per queste cose…[25]

Il queer aspira a essere un punto di vista, una posizione assunta rispetto a tutto ciò di cui si compone la nostra esistenza; non c’è niente che esuli dallo sguardo queer, in campo e fuori campo.

Il discorso queer emerso fino ad ora è un discorso di grande diversità e mobilità, di culture non omogenee, basato su un movimento sempre doppio e sempre da negoziare — quello dell’inclusione e dell’esclusione — che ci porta a chiedere come possiamo essere inclusi nella società, ma allo stesso tempo restarne esclusi, dato che ciò significa essere inclusi tra di noi, significa essere chi siamo. Inclusione ed esclusione sono pratiche che noi stessi usiamo continuamente. Mi viene in mente l’espisodio dell’espulsione della trans, Monica, dalla seconda Settimana Lesbica, esempio tipico delle stratificazioni di culture e potere che esistono anche tra di noi, le quali, anziché servirci per crescere singolarmente e collettivamente, vengono troppo spesso egemonizzate, idealizzate, mistificate, occultate.

L’identità non è più quello che uno è, ma una serie di differenze che hanno corpo, situate in corpi diversi, marcati in modo diverso. Quindi l’identità, per quanto fluida, ibrida e nomadica, è situata, culturalmente specifica; è un processo; non è qualcosa di scambiabile e intercambiabile, ma viene costituita dai significati che una persona attribuisce a se stessa in quanto oggetto di certe aspettative di comportamento in un dato contesto sociale. Così, prevedibilmente, in classe insegno strategie di immedesimazione e dis/identificazione, partendo dai testi ma coinvolgendo le persone presenti in una critica dei ruoli di genere che non si ferma a quello. Per esempio, indico nella narrativa l’eterno conflitto femminile tra etica della “cura” e desiderio di auto determinazione, e trovo il modo di mostrare come la violenza sia troppo spesso un problema di autocontrollo maschile di cui le donne finiscono per doversi fare carico. Mi piace sempre molto portare gli studenti a leggere non solo “come” uomini o donne, ma “da” lesbiche o “da” gay, cosa che avviene di solito verso la fine di un corso, opponendo resistenza altesto eterosessuale, trasgredendo con lo sguardo e l’immaginazione. Se la pratica queer implica muoversi oltre le identità, l’uso dell'”ottica spostata” è una forma di trans-gressione nomadica che va oltre il semplice atto di lettura.

Tra testo e testo, il desiderio

Non è questo il luogo per una lunga discussione letteraria, ma vorrei comunque mostrare come queste premesse culturali incidano su una lettura di testi narrativi. Come spiegavo all’inizio, il testo gay di riferimento, nel mio corso, era Passage to India di E. M. Forster – un testo completamente velato, come è velato Passing di Nella Larsen. Ambedue i romanzi trattano, se pure in modo molto diverso, la questione della razza e del desiderio.

Passaggio in India racconta un incontro coloniale, evidenziando i meccanismi di potere che inchiodano i soggetti in certe posizioni, all’interno della società in cui vivono. Il romanzo ha varie trame, tra cui una palesemente eterosessuale — il fidanzamento di Adela Quested e il suo presunto tentativo di stupro — e una velatamente omosessuale giocata sul desiderio interrazziale non agito tra Azim e Fielding, un’amicizia minata dai fraintendimenti culturali. Un’interpretazione queer può smontare la lettura in chiave quadratamente eterosessuale fattane da David Lynn nel film omonimo, e portarci a interrogare la naturalità delle categorie di genere negligentemente incastonate nel testo.[26] Nel romanzo, il binarismo etero-omo viene interrotto da significanti erotici e altri elementi che mostrano come l’intreccio eterosessuale sia una falsa pista, anche nell’episodio dello “stupro”, fatto non tanto (etero)sessuale quanto politico. Uno dei risultati interessanti di una lettura che incroci sesso-razza-genere è la revisione dell'”erotismo imperiale”, dove la razza è visibile ma la preferenza sessuale rimane invisibile.[27] Ovviamente, la differenza razziale non è mai estranea a un rapporto (omo)sessuale. In questo caso, nel rapporto coloniale io/altro, dove l’altro è sempre assimilato e sottomesso, non vi è ibridazione possibile. L’altro è codificato al femminile, oggetto di consumo erotico ed esotico anche se maschio: la razza viene sessualizzata (il posizionamento del “nero” è femminile, quello del “bianco” è maschile) e l’intersezione tra sesso e razza crea una serie di varianti leggibili sia nel contesto globale dell’oppressione coloniale sia nel contesto locale di una ingarbugliata situazione politica. Il desiderio tra due persone di diversa appartenenza per classe e razza non elimina l’ineguaglianza; né di per sé l’omosessualità sovverte il sistema.

L’episodio clou del sottotesto omosessuale, riportato anche nel film, è quello in cui Aziz, il protagonista indiano, presta a Fielding, il protagonista inglese, il suo bottone del colletto. In italiano si perde il malizioso gioco di allusioni contenuto nella parola “stud” che in inglese non vuol dire solo bottone, ma anche stallone. Mi sembra appropriato rileggere l’episodio attraverso una frase di Félix Guattari, che anticipa una delle strategie del queering. È nell’indagine attenta e sospettosa della situazione, infatti, che emerge la contraddizione ineludibile del sistema, soglia per un nostro possibile intervento destabilizzante, per un’analisi trasformativa. Scoprire il sistematico decentramento sociale del desiderio, scrive Guattari, “ci porta a morbide sovversioni e rivoluzioni impercettibili che alla fin fine cambieranno la faccia del mondo, rendendolo più felice”.[28]

Sentiamoci dunque autorizzati a posizionarci “da” lesbiche di fronte al prossimo romanzo, lettori/lettrici sospettose, portate all’indagine di qualsiasi segnale di non-eterosessualità, pronte a pazienti reperimenti di palinsesti omoerotici, e a gratificanti operazioni di spericolati “outing”. Ciò non ci esime, peraltro, da un buon ascolto dei nostri desideri e aspettative, indicatori di condizionamenti che ci fanno accettare sia la simbolizzazione eterosessuale nella grammatica e nelle trame, sia l’ingiunzione razziale che le persone non bianche debbano occuparsi per forza di questioni razziali. Una maggiore attenzione può aiutarci a dis-identificarci resistendo a codici e poteri omologanti, e a compiere migliori esplorazioni.

Passing si presta bene a un esercizio di lettura queer, anche soltanto per il titolo che, abbiamo visto, viene ormai letto all’incrocio di sesso e razza, e quindi non a caso viene usato come esempio da Judith Butler per un esercizio di svelamento della repressione a cui va soggetta la parola. Ne faccio un breve riassunto per chi non ricorda il romanzo.

Irene Redfield e Clare Kendry sono due amiche cresciute nel ghetto nero di Chicago che si rincontrano dopo molti anni a New York, in un caffè di Harlem dove ambedue stanno “passando” per bianche. Mentre per Irene questa è una rara trasgressione, per Clare è un modo di vivere: allevata dalle zie senza un cenno al fatto di essere in parte nera, ha sposato un bianco razzista e vive da ricca borghese. Irene è invece sposata a un medico, vive a Harlem ed è impegnata nell’emancipazione dei neri. Incontrare Irene suscita in Clare un grande, e pericoloso, desiderio di appartenenza e ritorno alle origini che certo in parte la induce a diventare l’amante del marito di lei, Brian. Anche nella vita ordinata di Irene, tutta routine, la ricomparsa di Clare crea scompiglio, non solo per la gelosia, ma anche per il desiderio che lei sente per l’amica. Nella scena finale Jack, il marito di Clare, vedendola in mezzo ai suoi amici neri, capisce che è nera anche lei. A questo punto Clare cade dalla finestra, non è chiaro se di sua propria volontà o spinta da Irene. Il romanzo si chiude con lo sconcerto causato dalla sua morte.

Butler sottopone il testo a una lunga indagine per far emergere ciò che rompe, rovescia, espone la reticenza del testo – operazione che lei chiama queering e che certo vale la pena studiare direttamente dal suo saggio. Io mi limiterò a osservazioni più generiche che comunque non possono dimenticare ne’ la sua interpretazione, ne’ quella di Anna Camaiti, ne’ altri saggi critici. La struttura palese del racconto si basa sulla corrispondenza tra il mutismo riguardo al desiderio omosessuale che circola tra le due protagoniste e l’illeggibilità della ‘negritudine’ di Clare. Abbiamo un’esemplare dimostrazione di come razza, preferenza sessuale, e classe non siano sfere analitiche separate, e di come rappresentino modalità di potere convergenti. Toni Morrison dice che non siamo bianchi senza il pensiero del nero, e si può dire una cosa simile rispetto all’etero/omo sessualità. Il sottotesto lesbico emerge dunque dal non detto, dalla reticenza, ma il testo offre di continuo segnali di possibile disturbo: il desiderio di evasione, o di appartenenza, di Brian che vorrebbe emigrare in Brasile; il razzismo delle zie che crescono Clare come bianca; il gioco sessuale di Jack che ha bisogno del nero per sentirsi bianco, e chiama “negretta” la moglie, erotizzando l’abietto; il fascino eccessivo di Clare, descritto nei minuti dettagli sempre attraverso lo sguardo di Irene che la divora con gli occhi.

Clare e Irene sono figure complementari, e tipologicamente lesbiche (ma questa definizione non ne esclude altre) in quanto soggettività, deterritorializzate, abituate a forme di resistenza che portano a nascondere parti vitali di sé. L’attrazione che provano (anche se è Irene il soggetto desiderante di questo sottotesto) emerge poco a poco dal contrasto tra di loro: Irene, così repressa nella sua bellezza signorile, nel suo diniego della passione, con la sua etica “maggioritaria”, il suo ancoraggio sociale, il bisogno di sicurezza e permanenza; Clare, esotica, ambigua, sessualmente audace, con le sue “grandi labbra come un fiore scarlatto sull’avorio della pelle”, la sua inquietudine e la sua passiva irrecuperabilità di oggetto del desiderio.

Ma ciò che è nascosto è un nodo instabile che minaccia sempre di emergere – come nella rabbia di Irene, apparentemente diretta contro i vincoli della femminilità e delle convenzioni che la incatenano, contro la propria incapacità di costruire alternative visionarie, ma in realtà suscitata anche dalla rivalità con il marito, nel suo ruolo “legittimo” di etero-amante, e dall’incapacità di correre quel rischio di cui Clare vive, ma che per lei resta solo una tentazione. Figure liminali che sconfinano, portatrici di un conflitto di non/appartenenza non solo rispetto al sociale ma rispetto al desiderio, Clare e Irene rappresentano forze trasformative ancorate a esperienze diverse del corpo, e suggeriscono soluzioni politiche diverse. Non è un caso che il romanzo si chiuda in una situazione di completa indecidibilità dove riaffiora, quasi incongrua, la trama della detection, spostata dall’incrocio tra sessualità e razza all’ambito più banale e meno pericoloso del giallo, o del sensazionale, con un richiamo alle storie di tragiche mulatte: come è morta Clare?

Ma noi lettori/lettrici accorte possiamo anche trovare altre trame intertestuali. Stranamente, queerly, a me questo finale ricorda più di ogni altro la conclusione di un famoso racconto di Katherine Mansfield, “Bliss” /”Felicità”, un altro racconto reticente che ha come tema un triangolo, il desiderio, e un albero di pero in fiore, bianco come la neve su cui giace il corpo di Clare Kendry alla fine di Passing. E cosa accadrà ora?

Per concludere

La scrittrice e attivista nera americana bell hooks considera la resistenza una produzione contro-egemonica, un insieme di atti di vigilanza e intervento critico dentro le strutture di dominio che abitiamo, un impegno di trasformazione culturale che parla il (nostro) desiderio di giustizia e libertà. La pedagogia della resistenza praticata nelle scuole del ghetto è stata cancellata con l’integrazione, ma va invece recuperata, trasgredendo i confini tracciati per i neri, evitando l’omologazione, riconoscendo che i confini assegnati vanno attraversati, e dobbiamo ascoltare cosa dicono le nostre voci in dialogo con il mondo.[29]

Il parallelo con la nostra popolazione lesbica e gay credo sia ovvio. Anche noi lesbiche, nel “ghetto” delle nostre comunità glocali[30] pratichiamo la vigilanza critica e cerchiamo la trasformazione; e anche per noi l’omologazione significa una perdita di visione e progettualità che singolarmente di rado riusciamo a compensare. Anche perché la nostra aggregazione per una “polis” diversa e migliore è fondata su un progetto etico e sociale basato sulla solidarietà nel rispetto delle differenze – un progetto di aggregazione assolutamente collegato a forme di comprensione e accettazione di noi stessi e il nostro stare nel mondo dove il dentro e il fuori di necessità coesistono.

Anche per bell hooks questi progetti non sono disgiunti, la resistenza e la trasgressione hanno come fine una trasformazione della società, ma non sono l’unico mezzo. Il progetto non può essere differito, e secondo lei già prende collettivamente corpo attraverso la scelta dell’amore come pratica di libertà. E mi sembra una coincidenza felice che la nostra scelta gay, lesbica, e queer, in tutte le sue differenze, sia invece di configurare la pratica d’amore come pratica di libertà.

Negli anni del mio lesbismo ho visto molti cambiamenti – storici, politici, individuali, di coscienza. La comunità lesbica fiorentina e italiana nella quale ho investito le migliori energie non è più una comunità, pur mantenendo caratteristiche diasporiche di riferimento a una sua storia collettiva. È ormai una società rizomatica. Dentro e fuori di essa, sento di avere una mia comunità composta da tante persone sparse per il mondo con alcune delle quali comunico faccia a faccia, mentre con altre comunico virtualmente – in rete o attraverso i libri che leggo. In quest’ultimo caso non c’è feedback diretto, eccetto nel riciclaggio divulgativo e immaginativo che faccio di questi testi lesbici. Ma verso questa comunità reale, virtuale, e ideale, sento la responsabilità non solo di mantenere un dialogo, la cui intensità e ricchezza dipendono molto dalle mie forze, ma di divulgarne la presenza, fare in modo che interagisca con altri discorsi, e crei cultura.

BIBLIOGRAFIA

Per una bibliografia sugli studi lesbici e gay in italiano, rimando al saggio di Marco Pustianaz. Vorrei comunque aggiungere i testi seguenti a quelli che io stessa cito in nota: AA.VV., E l’ultima chiuda la porta. L’importanza di chiamarsi lesbiche. I Quaderni Viola, n. 4, Nuove Edizioni Internazionali, Milano, 1996;

AA.VV., M@iling Desire. Conversazioni di una comunità lesbica virtuale. Il dito e la luna edizioni, Milano, 1999; AA.VV., Meduse Cyborg. Antologia di donne arrabbiate. Shake, Milano, 1997; L. Borghi, “Liminaliens and Others – But Mostly Vamps, Dragons and Women’s SF”, in Critical Studies on the Feminist Subject, a cura di Giovanna Covi, U. di Trento, Trento, 1997; D. Danna, Amiche, compagne, amanti. Storia dell’amore tra donne. Mondadori, Milano, 1994 e Matrimonio omosessuale. Erre emme, Pomezia, 1997; T. De Lauretis, Soggetti eccentrici. Feltrinelli, Milano, 1999; P. Lupo, Lo specchio incrinato. Storia e immagine dell’omosessualità femminile. Marsilio, Venezia 1998; B. Pomeranzi, “Differenza lesbica e lesbofemminismo”. Memoria n. 13, 1985; A. Rich, “Eterosessualità obbligatoria ed esistenza lesbica”. nuova DWF n. 23-24, 1985; S. Stone, Desiderio e tecnologia. Il problema dell’identità nell’era di internet. Feltrinelli, Milano, 1997.

NOTE

[1] Teresa De Lauretis, “Excentric Subjects: Feminist Theory and Historical Consciousness”, Feminist Studies 16, 1, Primavera 1990, p. 145.

[2] Tra le molte formulazioni del queer alcune delle quali citate in seguito, vorrei segnalare qui l’introduzione di Anna Livia e Kira Hall, “It’s a Girl! Bringing Performativity Back to Linguistics”, in Queerly Phrased. Language, Gender, and Sexuality. Oxford U. P, Oxford, 1997, pp. 3-18, ma soprattutto vorrei segnalare il saggio di Marco Pustianaz, “Teoria gay e lesbica” in Teoria della letteratura. Prospettive dagli Stati Uniti. La Nuova Italia Scientifica, Roma, 1996.

[3] Mary McKintosh, “Queer Theory and the War of the Sexes” in Activating Theory: Lesbian, Gay and Bisexual Politics. Lawrence & Wisehart, London, 1993, p. 31.

[4] I queer perseguono attivamente il cambiamento sociale: rifiutano l’invisibilità e qualsiasi forma di separatismo, e chiedono i diritti civili, tra cui, a livello europeo, l’abbassamento dell’età del consenso, la non-discriminazione, le unioni civili, l’accesso legale alla riproduzione assistita.

[5] I testi in programma per il corso “Cartografie del soggetto e spazi immaginari nella narrativa di lingua inglese” sono The Imported Bridegroom [and Other Stories] (1898) Signet, New York/ Penguin, London, 1996. (Trad. it. Lo sposo importato. Sugarco); E. M. Forster. A Passage to India. (1924) Penguin, London (Trad. it. Passaggio in India. Mondadori); Nella Larsen. Quicksand & Passing. (1928-29), Serpent’s Tail, London, 1989. (Trad. it. Passing. Sellerio); Djuna Barnes, Nightwood (1936) New Directions, New York. (Trad. it. Foresta della notte. Bompiani / Bosco di notte. Adelphi); Jean Rhys. Wide Sargasso Sea (1966) Penguin, London, 1996. (Trad. it. Il grande mare dei sargassi.); Jeannette Winterson. The Passion (1997). Penguin, London, 1997 (Trad. it. La passione. Garzanti)

[6] Anna Camaiti Hostert, Passing. Dissolvere le identità, superare le differenze. Castelvecchi, Roma, 1996,

[7] Vedi in particolare “Eccentric Subjects” di De Lauretis, citato.

[8] Homi Bhabha, The Location of Culture, Routledge, New York, 1994, p. 45.

[9] Diana Fuss, Inside/out. Lesbian Theories, Gay Theories, Routledge, New York, 1995, pp. 4-5.

[10] Polly Pagenhart, “‘The Very House of Difference.’ Toward a More Queerly Defined Multiculturalism” in Tilting the Tower. Lesbians Teaching Queer Subjects, a cura di Linda Garber. Routledge, New York, 1994, p. 178.

[11] Judith Butler, Bodies That Matter, New York: Routledge, 1993 (trad. parz. Corpi che contano, Milano, Feltrinelli, 1996). Non è tradotto il capitolo che mi interessa specificamente, su Nella Larsen, intitolato “Passing, Queering. Nella Larsen’s Psychoanalytic Challenge”, pp. 167-86 dell’originale.

[12] Jacquelyn N. Zita, “Gay and Lesbian Studies: Yet Another Unhappy Marriage?” in Garber, pp. 259-62. Per un’ottima discussione su quest’argomento rimando al testo gia’ citato di Mary McIntosh, in particolare p. 49, e più generalmente a Straight Studies Modified. Lesbian Interventions in the Academy, a cura di Gabriele Griffin e Sonya Andermahr. Cassell, London, 1997.

[13] Zita, p. 262.

[14] Marilyn R. Farwell, Heterosexual Plots & Lesbian Narratives, New York UP, New York, 1996, p. 18.

[15] Cherry Smyth, Lesbians Talk Queer Notions. The Scarlet P., London, p. 20, pp. 25-27.

[16] Vedi in particolare Judith Butler, “Merely Cultural” Social Text 52/53, vol. 15, aut.-inv. 1997.

[17] Maria Nadotti, Sesso & genere, Il Saggiatore, Milano, 1996.

[18] Martine Rothblatt, L’apartheid del sesso, Introduzione, traduzione e cura di Maria Nadotti, Il Saggiatore, Milano, 1997 (corsivo mio).

[19] Nicole Brossard, She would be the first sentence of my next novel=Elle serait la première phrase de mon prochain roman. Trad. Susanne de Lotbinière-Harwood. The Mercury P., Toronto, 1998, p. 36.

[20] Il saggio di bell hooks a cui faccio riferimento qui, “Choosing the Margin as a Space of Radical Openness”; è tradotto da Maria Nadotti in bell hooks, Elogio del margine, Feltrinelli, Milano, 1998.

[21] Adrienne Rich, “A Politics of Location” in Blood, Bread and Poetry, Norton, New York, 1984. Trad. it. in Mediterranean (III, 2, giu-dic.1996).

[22] Di Trinh T. Minh-Ha sono stati tradotti in italiano due scritti: un breve saggio da me tradotto e introdotto, “L’altro inappropriato”, su Tuttestorie, pp. 21-24; e un saggio più lungo, tradotto da Marina Raggini, “Vertigine orizzontale. La politica dell’identità e della differenza” su Critiche femministe e teorie letterarie, Clueb, Bologna, 1997, pp. 185-202.

[23] Vedi l’Introduzione dei curatori a Hidden from History: Reclaiming the Gay and Lesbian Past, a cura di Martin Duberman, Martha Vicinus & George Chauncey, Jr., Meridian, New York, 1989.

[24] Per una spiegazione chiara e concreta di questo dibattito, vedi Kristin G. Esterberg, Lesbian & Bisexual Identities. Constructing Communities, Constructing Selves, Temple UP. Philadelphia, 1997.

[25] Michael Warner, “Introduzione”, in Fear of a Queer Planet. Queer Politics and Social Theory, a cura di Michael Warner. U. of Minnesota P., Minneapolis, 1993, p. viii (corsivo mio).

[26] Marilyn Farwell, p. 12.

[27] Nel corso abbiamo lavorato in particolare su testi critici di Firdous Azim, Gayatri Spivak e Sara Suleri. Il termine qui citato e’ tratto da Sara Suleri, “Forster’s Imperial Erotic” in The Rhetoric of English India. Chicago UP, Chicago, 1992.

[28] Félix Guattari, manoscritto inedito tradotto da Chet Wiener, “Entering the Post-Media Era” in Soft Subversions, a cura di Sylvère Lotringer, Semiotext(e), New York, 1996, p. 111.

[29] bell hooks, Yearning: Race, Gender, and Cultural Politics. Between the Lines, Toronto, 1990 e Teaching to Transgress. Education as the Practice of Freedom. Routledge, New York, 1994. Ho gia’ citato la raccolta dei saggi in italiano.

[30] Questo termine, di cui ho assistito all’origine e di cui rivendica la maternità Rosi Braidotti, sta per globale+locale.

http://www.leswiki.it/repository/testi/1997borghi-insegnare-il-queer.rtf

http://www.leswiki.it/repository/testi/1997borghi-insegnare-il-queer.pdf