2002, Liana Borghi – P come pioggia

Liana Borghi, 2002. “P come pioggia, pratica, parole, percorsi, performance”. Towanda! Rivista lesbica, anno VIII, n. 7, (settembre/novembre 2002), pp. 28.29.

Il primo articolo della rubrica “In teoria” – condivisa con Simonetta Spinelli  – su Towanda!

IN TEORIA 1.
P come Pioggia, Pratica, Parole, Percorsi, Performance
di Liana Borghi

Piove. L’ennesimo temporale estivo in una zona dove non piove quasi mai. È forse la teoria della globalizzazione a tradursi in pratica in questo acquazzone, nei fulmini assassini, i tetti scoperchiati, le alluvioni, le vacanze rovinate dalla metereopatia dell’amante? Potenza delle ricadute teoriche. Performatività metereologica della teoria. Sento incombere un attacco di nostalgia per un tempo prima dei funghi avvelenati da Chernobyl.

Eravamo lesbofemministe allora, e si rompevano le amicizie per questioni di teoria. La parola “lesbo/femminismo” (con o senza barra), frutto di violente scazzature teoriche, stava scritta sui nostri volantini ben prima che Bianca ne rivendicasse il maternage. Nel nostro gruppo (c’era un gruppo allora) eravamo tutte preparate a spiegare cosa significasse in teoria, perché in pratica avevamo capito che teoria e pratica erano come le labbra di Irigaray (prima che diventasse etero): l’una non si muove senza l’altra. Questo ce lo eravamo ampiamente mostrate e dimostrate. Ammetto: poteva esserci qualche problema di linguaggio, ma non certo di lingua. Sapevamo come muoverci, noi donne che si identificavano con le donne e amavano le donne. Mi ricordo ancora di quando desiderio, identità, recupero della storia e pratica politica si saldavano in un continuum di identificazioni aperto su un destino di ®esistenza eroica. Il femminismo è la teoria, il lesbismo è la pratica. Sotto ogni donna c’è una lesbica. L’eterosessualità è un obbligo a cui si può resistere: Hetero? Nein danke! Oppure è una disgrazia: Hetero? Mit Brille wàre es nicht passiert! (con gli occhiali non sarebbe successo). Un’armata di amanti potrebbe conquistare il mondo, se solo si alzassero dal letto.

Ma non stavamo sempre a letto. Anche se ricordo che la ricerca collettiva del punto G (di cui avevamo studiato la teoria) fu una cosa lunga. La nostra generazione lesbica di allora si era riconosciuta nel femminismo, tanto che molte, troppe, non hanno voluto o saputo rompere con una solidarietà politica che le costringeva a starsene velate a giocare fort da dentro il Movimento. E chi, come noi, si era separata dal contenzioso riproduttivo che impegnava tante donne, passava comunque troppo tempo a negoziare la grande finzione eterosessuale, fosse essa in forma di discriminazione legislativa, di omofobia, sessismo, o di quell’amore romantico che insidiava il nostro immaginario.

Dentro l’involucro protettivo delle comunità ancora non sapevamo che non era necessario identificarsi con le donne per teorizzare il lesbismo. Prima di arrivare a capirlo ci è toccato un bagno di teoria nelle varianti lesbiche del pensiero della Differenza. Non è una storia che sono in grado di raccontare. Mi è passata sopra e accanto come una grande nuvola di misticismo erotico o di erotismo mistico. Era teoria in forma di una nebbia di parole parole parole interagenti per assonanza con un pensiero dove il mio corpo non trovava ormeggi. Né possibili identificazioni. Né sballo. Ma c’erano altri percorsi. Uno in particolare mi offriva coordinate sostenibili. Avevo sentito Adrienne Rich leggere a Utrecht un testo che fu poi riconosciuto come una svolta cruciale nel pensiero lesbico. “Note per una politica del posizionamento” ragionava sull’identità a partire dalla nostra geografìa più [p. 29] prossima, che è un corpo marcato dalla sua costruzione (razza, classe, sessualità…) in un dato spazio-tempo. Era un momento di grande fermento. Le teorie non coprivano la difformità di esperienze, discriminazioni e lotte. Il femminismo anni Settanta veniva contestato dal poststrutturalismo e in Italia dal pensiero della differenza, quello delle donne bianche veniva accusato di razzismo dalle donne nere, di classismo dalle donne povere, di omofobia dalle lesbiche. A molte il femminismo sembrava una trovata neo-imperialista, bianca, eurocentrica.

La sorellanza è globale? Ripensateci. Certo in Sud Africa c’era scarsa sorellanza tra native e coloniali. E tra noi lesbiche? Non molto dopo uscì il libro che da tempo Gloria Anzaldua, un’autrice chicana, andava scrivendo e leggendo qua e là. Borderlands, terre di confine, solo ora tradotto in italiano, è un grande canto corale sullo sradicamento di chi sente la propria non-appartenenza, come nativa migrante e come dissidente. Era anche una rivendicazione identitaria: un nuovo soggetto abitava la periferia sud al cuore dell’Impero, ed era una mestiza, mulatta e lesbica.

Nel dopo Chernobyl anche le donne bianche teorizzavano i nuovi soggetti dell’assetto globale postmoderno: Teresa de Lauretis parlava di soggetti eccentrici, Rosi Braidotti di soggetti nomadi, Judith Butler di Queer. Una concertata dialettica socio-spaziale? Certo lo spazio, proprio ora che stavamo entrando in quello virtuale, rientrava da protagonista nella teoria: luoghi e posizioni, frontiere e spostamenti, margine e centro tornavano ad essere coordinate primarie della soggettività. Chi di noi era d’accordo con Monique Wittig che lesbiche non si nasce ma si diventa, approvava il costruzionismo di queste teorie del posizionamento. Presto però ci trovammo costrette ad andare oltre: “Una identità lesbica non è data, ma si produce e si mantiene attraverso la ripetizione di performance”, diceva Butler nel suo libro sul genere, introducendo il concetto di performatività. In altre parole, lesbica è chi lesbica fa, con buona pace di chi è convinta che la lesbica sia una copula (cioè è, e basta). Dall’interno dello schieramento teorico queer, Butler non solo separava sesso e genere, considerando parziale qualsiasi identificazione, ma dava spazio a ogni sessualità “altra”, e studiava la costruzione della normalità nel sistema eterosessuale. Si apriva così la possibilità di un nuovo associazionismo trasversale, tra gay, lesbiche, trangender, transex e altri, apparentemente risanando fratture politiche che sembravano irrecuperabili. Non ho spazio qui per continuare il discorso, ma vorrei osservare che  Butler, epitome del postmoderno in quel momento, si illudeva rispetto al ruolo politico della nuova generazione. “Nel suo divenire”, aggiungeva, la lesbica “usa tattiche che disturbano e destabilizzano”. Purtroppo, le “nuove” lesbiche non destabilizzano un gran che. Siamo entrate a far parte della cultura di massa. Autoidentifìcate e catalogate come specie appartenente alla categoria “homo consumator” siamo un target lesbo-chic da sfruttare, quindi, paradossalmente, siamo diventate una specie protetta.

Ma se abbiamo perso il fascino della trasgressione eroica e del martirio, ci rimane pur sempre la teoria. Sì perché il queer ci ha restituito la teoria e il parlar difficile come legittimo ambito di discorso. Dai sociologemi del movimento gay ai filosofemi del queer? Quale nuova performance linguistica? Quale pratica teorica?

E intanto ancora piove. Piove sulle tamerici deserte della Lecciona, piove nel monolocale del marocchino qui sotto, sul suo orto e i giocattoli dei figli, sulla cava di pietra che si mangia la collina perché si costruisca un’altra autostrada, piove sul gay pride di Amsterdam, sulle gouines parigine, sulle lesbianas di Ibiza, piove sui miei riposizionamenti esistenziali e teorici. Piove, mondo c-queer!

http://www.leswiki.it/repository/testi/2002borghi-p-come-pioggia.pdf