Liana Borghi, 2003. “Elogio della diversità”, Towanda! Rivista lesbica, anno IX, (settembre/novembre 2003), n. 11, pp. 12-15.
Un intervento in vista del Social Forum Europeo di Parigi
Elogio della diversità
di Liana Borghi
Mi rendo conto di voler fare una cosa pericolosa, perché voglio parlare di una diversità che non azzeri lo specifico delle nostre differenze, dei nostri corpi, delle nostre condizioni esistenziali, e non so se ci riuscirò.
Non so se troverete che avrei dovuto insistere sulla discriminazione e la violenza che attirano e subiscono quelli che non hanno la pelle giusta e non praticano una sessualità normativa. Ma non lo farò, e me ne assumo la responsabilità.
Anche se parlerò poco di razzismo, questo voglio dire come premessa: 1) Che per razza, come per lesbismo, intendo un processo storico e ideologico, qualcosa che varia nel tempo anche all’interno delle culture nazionali (nel secolo scorso gli irlandesi in America, come gli ebrei in Italia non erano considerati parte della popolazione “bianca”; per motivi molto diversi il lesbismo non era ancora una categoria sociale); non intendo quindi una categoria biologica o transistorica. 2) Che per razzismo intendo un processo che non è solo un fatto culturale rafforzato dall’ignoranza, ma è un problema politico. Lo stato e il capitale internazionale hanno un ruolo non indifferente nel creare e mantenere le differenze tra bianchi e non bianchi, e nel demonizzarle. 3) Che non riesco a vedere la donna come una categoria universale e la sorellanza come globale. Un tempo ci ho creduto, ora non più. Ricordo le parole della poeta caraibica Audre Lorde che nel 1980 diceva, “Quando le bianche chiedono ‘unità’, usano il termine per significare omogeneità” [e spero che quello che dirò non sembri fare altrettanto]
Vorrei invece sapere cosa opprime le donne in condizioni, luoghi e paesi diversi? Come si costruisce la loro identità? Quali sono i loro problemi? Come vivono? Come (si) amano? Cosa vogliono? Quali lotte combattono? E ancora, cosa distingue le lesbiche nere dalle lesbiche non nere? Quali incroci tra razza, classe, pratiche sessuali? È possibile trovare un percorso comune se come lesbica io metto a fuoco la sessualità e combatto l’omofobia che non mi lascia vivere, mentre una donna nera per prima cosa pone la razza, e combatte il razzismo che non la lascia vivere? Cosa significa essere lesbica e nera? Io so di essere implicata nel razzismo; so di essere implicata nell’omofobia: la nostra vita è fatta di storie incrociate, lesbiche e etero, bianche e non bianche. Noi diciamo, viviamo in uno stato eteropatriarcale e lesbofobico: la norma è eterosessuale. Le donne nere dicono, viviamo in uno stato razzista e patriarcale: la norma è bianca. L’omofobia e la resistenza lesbica, così come il razzismo e la resistenza delle donne di colore costituiscono forme di biopotere che a loro volta ci costituiscono come soggetti. [p.13]
Esistiamo strutturati da incroci di razza, classe, sessualità, e altro che contemporaneamente noi stesse strutturiamo, e si tratta di discorsi in competizione tra loro. Il genere non significa la stessa cosa se non hai i soldi per pagare le bollette o per dare da mangiare ai bambini, se nella tua zona c’è l’acqua per la doccia o non c’è nemmeno per bere. Voglio parlare ancora della costruzione razziale e sessuale dei nostri corpi per arrivare a spostare il problema fuori dalla logica binaria della contrapposizione nero/bianco, omo/etero, norma/devianza, perché se non ne usciamo non potremo lavorare insieme.
Ricomincio dunque facendo una dichiarazione di principio di cui forse non c’è bisogno, ma la faccio per chiarezza: ho un approccio materialista e costruzionista al mio lavoro e alla mia pratica politica (studio e insegno la scrittura delle donne). Credo nella natur-cultura, cioè che il nostro concetto di natura e naturalità sia costruito. Quindi, che secoli di indottrinamento religioso, appoggiato e applicato dalle istituzioni, condizionino quello che riteniamo naturale e “normale”, specie per quanto riguarda la sessualità.
Viviamo in relazione con il mondo che ci circonda e con altre persone: la “normalità” è lo standard che usiamo per costruire rapporti. Vige tuttora (anche se in odore di obsolescenza) un sistema secolare secondo il quale gli uomini (o per lo meno la stragrande maggioranza di essi) controllano la riproduzione attraverso lo scambio delle donne tra loro, quindi attraverso il corpo delle donne, diventato oggetto della loro narrativa principale: un logos (logica, parola, legge) basato sulla normalizzazione del fallocentrismo, anzi del fallogocentrismo, quindi sull’eterosessualità normativa, istituzionale, obbligata.
L’altra trama, quella dello scambio di donne tra donne [che non è solo lo scambio di sé delle donne tra loro] da secoli è stata soppressa come quella dello scambio di uomini tra uomini e messa fuori legge [Ève Sedgwick]. Riaffiora nelle narrative come un vago erotismo adolescenziale da superare, forme di vampirismo, come perversità in libri messi all’indice, nei racconti trash, nella pornografìa. Il lesbismo non ha valore di scambio in questo sistema, ma è comunque materiale erotico che indica dove sta il desiderio. E in quanto rimosso e non-detto, dà fastidio, è scomodo, e fa anche paura, genera insofferenza verso chi ne è portatrice: insofferenza verso l’altro/a, verso ciò che è diverso e ingovernabile dentro e fuori di noi. Questo si chiama omofobia o meglio, lesbofobia se vogliamo darci specificità.
In generale, l’omofobia è quindi anche il prodotto collaterale delle tecniche di normalizzazione che ci controllano. L’eterosessualità è un regime politico, una tecnologia biopolitica per creare corpi sessuali eterodiretti [Wittig/Preciado]. Assistiamo però, prima in parallelo allo sviluppo post-fordista, e ora nel regime neo-liberista, a una proliferazione della sessualità, e alla deterritorializzazione dell’eterosessualità nella narrativa come nei media e nell’immaginario informatizzato. Il pensiero postmoderno prende atto della diversità e ne fa oggetto di discorso mostrando come la sessualità e i suoi ALTRI — razza, etnia, classe, età, religione, e cento altre categorie che esistono qui tra noi, si intreccino creando variabili di stile di vita e comportamento che tutte e tutti facciamo fatica a considerare, ma che costituiscono invece un valore e una ricchezza di risorse che possiamo, anche se non facilmente, condividere. Voglio portarvi per un momento con me in America, in viaggio nel tempo fino al 1977 quando le femministe nere della Combahee River Collettive pubblicarono un documento dove si diceva:
“Siamo impegnate attivamente a combattere contro l’oppressione razziale, sessuale, eterosessuale, e di classe. Noi consideriamo nostro compito particolare quello di sviluppare un’analisi e una pratica integrata basate sul fatto che i maggiori sistemi di oppressione sono collegati… Spesso ci riesce diffìcile separare la classe dall’oppressione sessuale, perché nella nostra esperienza le viviamo simultaneamente” [All the Women Are White, 1982: 13].
Molti anni dopo Barbara Smith, una delle donne del collettivo, scriveva di non capire perché l’omofobia sia sempre l’ultima ad essere menzionata e a essere presa sul serio, nonostante sia una cosa serissima e spesso fatale [“Homophobia: Why Bring It Up?” in Abelove, Barale, Halperin 1993: 99-102]. Sono nera, lesbica, femminista e attivista, dice. Non ho nessun problema a capire come si connettono i sistemi di oppressione, su quali gerarchie si basano, e perché ci fanno scegliere un’oppressione principale e mettere da parte le altre. Innanzitutto l’oppressione degli omosessuali non è considerata seria come tante altre e comunque è vista come una cosa privata. Poi si dice che i gay sono maschi, borghesi e ricchi, e questo fa dimenticare quanti invece siano donne, persone di colore, proletari, povere/i, disabili, e vecchi/e. Poi si dice che l’omosessualità [p. 14] è un problema dei bianchi, anzi una malattia dei bianchi -spesso i militanti neri che combattono il razzismo scherniscono e disprezzano i gay. Tanto è vero che i commenti omofobici vengono tranquillamente ammessi in ambienti dove potrebbero buttar fuori chiunque usi la parola “negro”. Ma se tutti preferirebbero non sentire nemmeno parlare di omofobia, perché discuterne? Per il semplice motivo, conclude Barbara Smith, che il 10% dei nostri studenti, dei nostri colleghi, e delle nostre amiche sono gay. E se lavoriamo insieme contro ogni forma di discriminazione, scomparirà più in fretta, come il razzismo (aggiungo io).
Ritroviamo Barbara Smith in dialogo con sua sorella Beverly in un altro libro famoso, This Bridge Called My Back [Questo ponte chiamato la mia schiena], curato nel 1981 dalle chicane Gloria Anzaldua e Cherrie Moraga. Contiene saggi prodotti da una delle prime coalizioni di femministe di colore radicali negli USA, che trattano specificamente di omofobia e razzismo dentro e fuori dal movimento delle donne. Nelle loro analisi, le femministe provenienti dal “terzo mondo” prendono le distanze dal femminismo bianco e ne criticano le ripetute forme di egemonia razzista: il razzismo è un argomento discusso ma mai integrato nella teoria e nella pratica. Alcune autrici di questi saggi, Gloria Anzaldua, Cherrie Moraga e Norma Alarcón cominciano a formulare le caratteristiche di una nuova identità su cui è opportuno anche per noi riflettere: si definiscono soggetti politici nuovi, mestize/meticce.
La maternità di questo termine va in realtà attribuita a Gloria Anzaldua, che nel 1987 ritroviamo autrice di Borderlands = La frontera: The New Mestiza [Borderlands/Terre di confine], da poco tradotto in italiano. In questo libro tutto giocato sul tropo del passaggio – anche nel movimento tra poesia e prosa, analisi politica e narrativa – le terre di confine sono la frontiera geografica tra il Messico e il Texas. La frontiera esistenziale è quella che divide i ricchi dai poveri del mondo, chi sta dentro e chi sta fuori, gli eterosessuali e gli omosessuali. La frontiera separa la norma dalla differenza, ciò che è familiare da ciò che è alieno. La frontiera CREA separazione, differenza, opposizione. Ma se ci pensiamo, il confine non è soltanto il luogo del muro, della barriera che impedisce l’accesso, della separazione e del ricongiungimento: è anche il luogo dove la proibizione e la produzione coesistono, dell’indifferenziazione, il luogo dove le cose si mescolano.
La mestiza, protagonista del libro poetico di Anzaldua, è un’interfaccia, una figura ibrida e utopica che mostra la mescolanza di razze e di vissuti tipica dei movimenti dia-sporici. Chi parla – una figura di confine disprezzata, forza lavoro in viaggio verso industrie senza sindacati, pensioni, assistenza sanitaria, o diritti, corpo in vendita e pronto a sparire nel nulla del deserto come tanti altri, corpo che parla una lingua senza purezza, profusa di scuse dirette ai padroni americani, in traduzione – parla dal margine, dal fuori-centro.
Eppure, man mano che ascoltiamo, questo margine si sposta, ci invita a entrare, e presto ci accorgiamo che abbiamo negoziato un percorso dove le dicotomie non hanno senso perché si moltiplicano e confondono in continuazione. La meticcia è lesbica. Cosa vuol dire essere lesbica tra i reietti della terra? C’è una graduatoria, evidentemente. Lei è ancora più aliena, più sciagurata ancora, e deve custodire il segreto del suo marchio di infamia. La meticcia sta su un altro confine ancora, quello del genere, dell’etero-maschile e dell’etero-femminile: simile e insieme diversa. Solo nell’ibrido si riconosce, solo nel post-colonialismo dei chicani che portano scritto sul corpo, nel linguaggio, nella loro terra la memoria della conquista, la presenza del conflitto. Così come una lesbica porta scritta sul corpo la non risoluzione, l’indecidibilità e la violenza di una frontiera eterosessuale.
La denuncia del razzismo è anche il tema di un piccolo e famoso documento di Chela Sandoval, “Feminist theory under postmodem conditions: toward a theory of oppositional consciousness [La teoria femminista in condizioni postmoderne: verso una teoria della coscienza opposizionale]” (1991). A quella data Sandoval ha già pubblicato un saggio intitolato The struggle within: women respond to racism [La lotta dentro: le donne rispondono al razzismo, 1982] e nel 2000 pubblicherà Methodology of thè Oppressed [Metodologia degli oppressi] con una introduzione di Angela Davis, e ora ha in stampa Theory Uprising [Insurrezione di teoria]. Nella sua analisi Sandoval non denuncia solo il razzismo, ma teorizza strategie di resistenza. Spiega che l’ordine sociale crea posizioni del soggetto in cui i subordinati diventano funzionali, e che ciò nonostante queste coscienze subordinate possono e devono sviluppare forme di resistenza e costruire topografìe degli spazi di sinistra dove questa resistenza può agire.
“Le donne insieme sono una forza enorme; dimostrano che disobbedire si può e si deve, che permettersi di sentire permette anche di dis-sentire. E che la diversità è un bene che dobbiamo apprezzare e praticare, non solo a parole, per vivere meglio” [p. 15]
Dice Sandoval, “Tutte le categorie di identità, di comportamento e di azione politica del primo come del terzo mondo sono potenzialmente e ugualmente efficaci nel resistere.” Qui volevo arrivare: alla necessità di combattere razzismo e omofobia anche resistendo: tanto per cominciare resistendo alle nostre pulsioni e tentazioni razziste e omofobiche. Il rimedio, mi sembra, comincia qui. Sta nel nostro atteggiamento l’una verso l’altra, a partire da noi. È proprio necessario che la nostra identità sia basata sul razzismo e l’omofobia, sulla discriminazione? Che ci colonizziamo l’un l’altra, una che dice curatevi l’omofobia, l’altra che dice curatevi il razzismo. Curiamoci di ambedue, e cambiamo il sistema. L’identità si struttura con un processo di dis/identifìcazione seguendo mille suggestioni. Vero è che genere e razza sono due discorsi potenti che ci inchiodano in certi ruoli.
Ma anche il genere e la razza possono essere agiti e interagiti fino al loro sfinimento, messi in mostra come costruzioni discorsive, rivalutati, risignifìcati. Siamo qui perché abbiamo coscienza di essere soggetti politici complessi, tutte e tutti diversi ma non per questo meno titolari dei nostri spazi, anche quelli comuni, della nostra storia, singolare e collettiva, e dei nostri diritti umani. Le donne insieme sono una forza enorme; dimostrano che disobbedire si può e si deve, che permettersi di sentire permette anche di dis-sentire. E che la diversità è un bene che dobbiamo apprezzare e praticare, non solo a parole, per vivere meglio.
Mi sembra questo, lo spazio della diversità e della complessità, il luogo da cui partire insieme per progettare un mondo diverso.
http://www.leswiki.it/repository/testi/2003borghi-elogio-della-diversita.pdf