2005, Rosanna Fiocchetto – La voce ritrovata

La voce ritrovata. Recensione di Rosanna Fiocchetto del libro “Movimento a più voci” di Maria Schiavo.

Pubblicata sul sito fuoricampo.net presumibilmente nel 2005 ed ancora reperibile allo
https://web.archive.org/web/20060512023318/http://fuoricampo.net/recensioni_schiavo.html

Il libro di Maria Schiavo Movimento a più voci – Il femminismo degli anni Settanta attraverso il racconto di una protagonista (Angeli, Milano 2002) parte da una sfida: ripensare quel movimento alla luce del “sapere acquisito negli ultimi decenni”. Il contributo dell’autrice sta nel consegnare alla lettura la propria esperienza, una storia “vissuta in quegli anni in cui ‘personale’ e ‘politico’ si legarono così strettamente tra loro”, e che quindi oltrepassa i confini del privato. Sullo sfondo, la sinistra dell’epoca, l’intenso coinvolgimento di una intera generazione, il fervore intellettuale, la contestazione degli schemi familiari, sociali, sessuali, culturali.

Maria si vede come una “spadaccina” che cerca “di rimanere incolume” in questo trascinante e caotico processo di sperimentazione, di rapida mutazione, di battaglie radicali. Insegnante e scrittrice, nata a Palermo nel 1940, si è trasferita a Torino “per amore di una donna, che però viveva a Parigi”, per esserle il più possibile vicina. Nella città operaia che è il laboratorio della lotta di classe e della “futura rivoluzione”, incontra un’amica eterosessuale, Adriana, con la quale condivide autocoscienza, letture, ricerche e tentativi. Personalità coraggiosa, estrema, impulsiva e contraddittoria, è lei che la incoraggia a prendere contatto con il Fuori! (Fronte unitario omosessuale italiano), fondato nel 1971; è lei che la esorta ad uscire dal ruolo di “eterna mal-aimée” e che infine, a sorpresa, si dichiara lesbica mettendo in piedi una “comune” mista di donne e omosessuali. Maria comincia a frequentare anche i primi gruppi femministi torinesi e milanesi, trovando gli stimoli più interessanti nel Demau e in Rivolta, soprattutto nelle figure di Lia Cigarini e di Carla Lonzi. In questo periodo si sente alienata sia rispetto al fallocentrismo e alla frequente misoginia dei gay, sia rispetto all'”imperialismo dell’eterosessualità” e alle “sue spinte onnivore, che mi disturbavano”.

Il suicidio di Adriana segna un “violento spartiacque” nel percorso di Maria: rompe i legami con il Fuori! e si “innamora” del gruppo francese Psychanalyse et Politique, dominato dal carisma di Antoinette Fouque. Ne diventa la “mediatrice” e la traduttrice nell’incontro con le italiane e, in un primo momento, ne condivide la teoria dell'”omosessualità politica”, che pure era rivendicata solo a livello simbolico ed escludeva la pratica lesbica. Spera infatti che questa teoria possa indirettamente contribuire a spazzar via “il marchio storico che si portava dietro il lesbismo, la sofferenza che spesso l’accompagnava per la difficoltà di viverlo socialmente”, anche se “mi rendevo conto confusamente che l’omosessualità di cui parlava Psychanalyse et Politique non aveva molto a che fare con la mia”. Spiega Maria: “Quel che mi sedusse anche, nel gruppo francese, fu che finalmente gli uomini non erano più il centro del discorso femminile, come era stato spesso nell’autocoscienza, e che le donne, la vita fra donne, i rapporti fra loro, diventavano il principale soggetto”. Perciò chiude gli occhi sulle sue incongruenze, sul razzismo più o meno velato che esso esprimeva nei confronti delle lesbiche visibili, sulla dipendenza dalla psicoanalisi, sul divismo di Antoinette. Abita per due anni in una comune di sole donne, allaccia numerose amicizie, cerca di esorcizzare il fantasma di Adriana, partecipa al Collettivo Femminista Torinese di via Lombroso.

Il ritratto che Maria Schiavo fa di questo contesto, composto da femministe radicali, emancipazioniste di sinistra e “doppio militanti” extraparlamentari, ha molte analogie con l’Autoritratto di gruppo (Giunti, Firenze 1988) di Luisa Passerini, e ne complementa la testimonianza da un punto di vista diverso: la soggettività lesbica, con le sue particolari fragilità, i suoi bisogni o, semplicemente, i suoi sogni. E a partire da questa soggettività riflette anche la disillusione del rapporto con un femminismo che, pur incitando all’identificazione, nega l’eros tra donne, “rifiutando sin dall’inizio qualsiasi legame con il lesbismo, concedendogli solo una possibilità di occulta protezione, di ambiguo mimetismo fra le sue pieghe”. Il movimento lesbico degli anni Ottanta-Novanta si svilupperà proprio per superare questo limite, ma esso non è oggetto della rievocazione di Maria Schiavo, circoscritta a quegli anni Settanta in cui il rafforzamento delle donne come gruppo sociale imponeva il sacrificio delle differenze. Di questo sacrificio Maria esprime a tratti il disagio e le ferite (così disinvoltamente sottovalutati o ignorati dalle “sorelle”), come “perdita di un’immagine di me libera”, o come “la sensazione imbarazzante di un che di segreto e fuorilegge di cui mi vergognavo di fronte a loro”.

Nell’esperienza di “pratica dell’inconscio” e di “analisi selvaggia”, il disagio diventa esplicita contraddizione. Maria se ne assume la corresponsabilità, a posteriori, in una incalzante, autocritica sequenza di domande su “dove collocare” la sessualità lesbica: “Nell’espressione letteraria? Nell’esperienza umana politicamente indicibile? Era inesistente, oppure veniva solo nascostamente, come nottetempo, di soppiatto introdotta nella cosiddetta omosessualità politica? Eppure era nata molto, moltissimo tempo prima e al di fuori di ogni movimento (…) Che cos’era? Non ce lo dicemmo. Non ci interrogammo. Quello avrebbe potuto essere anche all’interno dell’analisi un momento politico molto importante, un momento di ricerca della verità, al di là dell’ideologia. Non diceva così il nostro progetto iniziale? Avrebbe potuto essere uno dei modi più eversivi di mettere in discussione quanto sul lesbismo aveva teorizzato la psicoanalisi; o se non sul lesbismo in particolare, sulla sessualità femminile in generale, poichè esso ne faceva parte. Invece quella domanda si impantanò nel non detto, anche per colpa mia. Io non ebbi la forza, il coraggio, la chiarezza mentale, di affrontare a quel punto un discorso del genere”. A distanza di tempo, Maria riconosce che questa autocensura ha rappresentato la frattura “dello stretto rapporto materiale fra personale e politico, del tessuto emotivo, passionale, che aveva caratterizzato quegli anni. In questo senso, io credo, c’è stata una grossa perdita, anche se il guadagno nel simbolico è stato grande, forse troppo grande, se ha occultato le esperienze materiali che lo hanno reso possibile. E’ come se ciò avesse in parte fatto ricadere il pensiero della differenza negli stessi errori che avevamo tanto criticati in quello maschile (…) E ciò costituì, in un certo senso, una sconfitta politica, perchè fu come se non avessimo potuto attraversare politicamente l’amore”.

La fondazione della Libreria delle Donne di Torino, nel 1977, segna per Maria, e non solo per lei, il passaggio alla “pratica del fare”. Anna Rita Calabrò e Laura Grasso, analizzando lo spostamento dalle manifestazioni di piazza (ormai impraticabile, negli “anni di piombo”), dai gruppi di autocoscienza e dai collettivi di “self-help”, ad altre strategie di lotta, coordinate in parecchi convegni, hanno parlato di una svolta “dal movimento femminista al femminismo diffuso”. L’obbiettivo di molte, in quella fase, diventò infatti la creazione di una rete di spazi e progetti associazionistici permanenti, in funzione di servizio, supporto culturale o trasmissione politica. “C’era per certi versi una sorta di sollievo in quell’attività pratica, rispetto alle complicazioni della parola, si aveva in quel modo la sensazione di ‘essere’, di trasformare la realtà, di far nascere un nuovo mondo di relazioni femminili. In questo senso, la pratica del ‘fare’ aveva un effetto benefico sui dubbi, sulle personali malinconie, sulla solitudine. Ma per altri versi era infida: aveva un effetto distraente. Non poteva da sola risolvere le differenze tra noi, che (…) non avrebbero tardato a farsi sentire”.

Infatti, nel 1980, il gruppo fondatore della Libreria torinese si scinde, dopo uno scontro lacerante sulla legge contro la violenza sessuale. Chiuso questo luogo, disgregatasi la comune abitativa, finita la situazione di “intensa coralità” in cui era riuscita ad esprimersi pubblicamente, Maria diventa afasica, non riesce più a parlare. “Quello che era stato un movimento (di donne) cominciava a fissarsi, tramite affermazioni dogmaticamente ideologiche, in qualcosa che lo destinava a trasformarsi in un’istituzione, dove la politica ridiventava un elemento predominante, non più in stretto contatto con la voce personale di ogni donna che vi partecipava ed era in grado di verificarla in relazione alla propria soggettività, ma dove anzi quest’ultima veniva ridimensionata come insignificante rispetto al momento politico che, in un modo che in passato avevo conosciuto e istintivamente disapprovato, era di nuovo l’unico capace di produrre senso”. L’esaurimento della prospettiva rivoluzionaria la deprime fino al silenzio, al ritiro. Incapace di accettare il “nuovo realismo politoc” degli anni Ottanta, l’adattamento ad una situazione di “restaurazione” e di conflitti, è fortemente polemica nei confronti della “linea milanese”, che accusa di allinearsi ad “una logica di mercato” e di rinchiudersi nella “mirabile fortezza” della teoria dell’affidamento e della “Madre simbolica”. Si descrive così: “Me ne stavo sempre più isolata, come sul cocuzzolo di una triste montagna (…) Ricominciavo dolorosamente da zero, ma senza rinnegare nulla di ciò che avevo fatto”. Persa la voce, si rivolge alla scrittura.

Dopo Macellum, storia violenta di donne e di mercato (La Tartaruga, 1979), Maria Schiavo ha pubblicato Margarethe von Trotta, ovvero l’onore ritrovato (Aiace, 1981),”Discorso eretico alla Fatalità (Giunti, 1990; Actes Sud, 1995), Amata dalla luce, ritratto di Marilyn (Quaderni di via Dogana, 1996; Tre Lune, 1999), articoli e racconti, fra cui il bellissimo “Due fedeli di religione ancora oscura” (in AA.VV, Racconta, La Tartaruga 1989); ha curato la raccolta di lettere di Madame de Sévigné Alla figlia lontana (Editori Riuniti, 1993). E adesso la voce ritorna in questa “lettura d’archivio” che è anche un romanzo-verità, nato dalla speranza che la sconfitta sia “non definitiva”, ma anche dalla “consapevolezza lacerante che tantissimo tempo era passato, e che continuare a tacere su quelle cose che avevo direttamente vissute (…) era da parte mia un modo di contribuire ad affossare quanto mi era stato più caro”. Così “quel passato, che avevo così a lungo creduto di proteggere col silenzio”, si rimette in movimento nella memoria, trova nuova comprensione e “il respiro del significato”.

Recensendo Movimento a più voci sulla rivista Leggendaria (“Storia e autodafé”, n.37, febbraio 2003), Paola Di Cori si chiede in via preliminare “come mettere in piedi un lavoro di ricerca e di interpretazione che sia in grado di restituire oltre alla sequenza degli eventi, un insieme di pratiche profondamente radicate nell’oralità, nella gestualità, nel corpo, nelle relazioni interpersonali, nell’affettività, nella sessualità”. E prosegue: “Tentare di ricostruire la storia del neo-femminismo (…) è infatti impresa ardua. Per fare questa storia occorre qualcosa che in genere è estraneo alla ricerca tradizionale: dar conto anche dei processi di interazione, scambio, proiezione e identificazione tra protagoniste che agiscono all’interno di piccoli gruppi. A tutt’oggi le versioni dove l’accuratezza della ricostruzione sia accompagnata da una riflessione approfondita sulle dinamiche personali sono praticamente inesistenti. Il libro di Maria Schiavo costituisce un’importante eccezione”. Concordo con Paola Di Cori sul fatto che non è possibile “fornire una storia unica” di un movimento tanto variegato e dalle caratteristiche così “speciali”. E che questa impossibilità, scaturita dai fatti, è una “immensa conquista” in campo storico; perchè chiama alla parola e all’interpretazione un soggetto plurale, restituendo legittimazione alla molteplicità delle storie, più che all’omologazione della storia. Inoltre, Di Cori manifesta anche la capacità solidale di cogliere e di riconoscere la dimensione di coraggio del testo di Maria Schiavo come ricostruzione di comportamenti, modelli e “momenti cruciali della cultura lesbica italiana”.

Quest’ultimo tema viene ripreso da Ferdinanda Vigliani in un’altra recensione (Leggere Donna n. 102, gennaio-febbraio 2003), ma con un taglio critico: “Se l’omosessualità fosse sufficiente a sottrarre simbolicamente la donna al dominio patriarcale, tutto sarebbe troppo facile. (…) E se per una volta noi fossimo capaci di scambiare amicizia, comprensione, conforto ? Niente di troppo passionale. Roba tranquilla, che lascia il cervello libero di fare il suo lavoro. Perchè noi di questo abbiamo bisogno, mi sembra: di poter lavorare in santa pace. Senza troppe passioni a farci patire “. Il coraggio è contagioso, ma evidentemente non per tutte. Per Ferdinanda certamente no. Eppure, come affrontare senza un grande coraggio personale, senza passione, senza amore di sè e delle altre, i nuovi e giganteschi problemi di cui parla Maria Schiavo nell’introduzione al suo libro, dal dilagante commercio delle donne e delle bambine “di tutti quei paesi colpiti dalle guerre e dalla miseria” al biosfruttamento e all’ingegneria genetica? Come affrontarli senza unità? E come praticare l’unità senza comprendere, rispettare, rendere comunicabili e comunicanti le nostre individualità e le nostre differenze, scegliendo il libero confronto e la coesistenza invece dell’antagonismo e della negazione? Il bilancio che Maria traccia del suo rapporto con Adriana è amaro: “Eterosessualità ed omosessualità, vuote parole, ma anche marchi patriarcali sui nostri corpi, non facilmente cancellabili, ancora una volta ci avevano divise”. Ma la strada-che-non-divide non è certo quella dell’olocausto di identità lesbica.

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Maria Schiavo
Nata a Palermo nel 1940. Ha fondato con altre nel 1977 la Libreria delle donne di Torino. Oltre ad articoli e racconti, ha pubblicato: Macellum, storia violenta di donne e di mercato (La Tartaruga, 1979); Margarethe von Trotta, ovvero l’onore ritrovato (Aiace, 1981 Discorso eretico alla Fatalità (Giunti, 1990, Actes Sud, 1995). Nel 1993 ha curato una raccolta di lettere di Madame de Sévigné, Alla fìglia lontana. Lettere 1671-1690 (Editori Riuniti, 1993). Nel 1996, nei Quaderni di via Dogana, è apparso Amata dalla luce, ritratto di Marilyn, ristampato nel 1999 dalla casa editrice
Tre Lune.

Rosanna Fiocchetto
Nata a Roma nel 1948, è stata una delle più importanti attiviste per la formazione del movimento lesbico separatista romano, nel 1980 ha fondato con altre lesbiche il gruppo Identità Lesbica, ha contribuito ad organizzare il secondo convegno lesbico a Roma nel dicembre del 1981, e poi successivamente la Prima Settimana Lesbica a Bologna. E’ stata una delle fondatrici del C.L.I. (Collegamento Lesbiche Romane) pubblicando un Bollettino mensile, del Centro Femminista Separatista e degli Archivi Lesbici Italiani struttura che raccoglie documenti, pubblicazioni e altri materiali italiani e stranieri sul lesbismo. E’ stata una delle fondatrici della libreria delle donne Al Tempo Ritrovato a Roma. Dal 1985 al 1993 ha co-gestito con Liana Borghi la casa editrice lesbica Estro. Ha pubblicato articoli in numerose riviste italiane e straniere, recensioni e articoli su varie riviste on-line. Saggi, Come eravamo, Savelli 1976; L’amante celeste, Estro Editrice 1987; Italien der Frauen, Frauenoffensive 1988; poesie Poeresia, CLI 1987; Scritture, scrittrici, Longanesi 1988, racconti nella rivista Effe, in Cosmopolis Urban Stories by Women,
Cleis Press 1990 e in Principesse azzurre 1, 2 e 3, Mondadori 2003-5.