Nerina Milletti, 2010. Genealogie lesbiche: le antenate delle ‘tribadi-prostitute-invertite’ descritte da Lombroso e le loro trasformazioni; relazione presentata al V Convegno della SIS, Napoli, 28-30 gennaio 2010. Versione ridotta.
Quando nel 1893 esce La donna delinquente di Guglielmo Ferrero e Cesare Lombroso, opera destinata ad una vasta e duratura notorietà[1], la lesbica non è ancora ben costituita come figura autonoma: le due sottocategorie in cui vengono distinte le tribadi (le occasionali e le nate col marchio dell’atavismo e per questo motivo facilmente riconoscibili per le loro caratteristiche maschili) sono infatti incluse in quella generale della prostituta[2]. Oggi associare lesbismo a prostituzione può sorprendere e apparire arbitrario; la nostra idea di «lesbica», formatasi dopo la nascita del movimento omosessuale e di quello femminista, è infatti quella di una donna che ama le donne e che a loro dà le proprie energie, emotive e sessuali. Un concetto congruente con l’accezione odierna di sessualità, considerata come relazione ed espressione di sè più che meccanica risposta ad un’esigenza fisiologica; non si tratta di un mero comportamento o di uno specifico atto sessuale ma di una scelta etica, oltre che erotica, difficilmente conciliabile con l’oggettificazione del corpo implicita nella vendita di prestazioni sessuali.
Apparentemente depurata da ogni traccia di mascolinità, trasgressione o immoralità, la lesbica di oggi è certamente una «specie» molto diversa da quella di un secolo fa; in passato però il suo rapporto con figure della devianza ora separate, come la meretrice o la donna-uomo, l’ottentotta, l’onanista, ma anche con la folle o la ninfomane, è stato così stretto da farle spesso coincidere in una sola categoria. E quella che noi oggi chiamiamo identità lesbica – amalgama costituito in proporzioni varibili dalla percezione soggettiva e dalle caratteristiche attribuite dalla società – trascina necessariamente con sè la stratificazione delle concezioni passate. Tanto più le definizioni sono ampie o vaghe e lasciano spazio all’interpretazione, tanto più possono essere «adattate» al sentire di un particolare momento storico, che ne evidenzia alcuni caratteri mettendone in ombra altri, che non scompaiono del tutto ma continuano ad esistere come elementi di quel materiale di base da cui – consapevolmente o meno – può attingere il nostro immaginario e venire all’occorrenza ripescati per avvalorare nuovi atteggiamenti (e modalità di controllo) rispetto alla sessualità femminile.
Gli scienziati di fine Ottocento, con un procedimento ricorsivo e circolare di rimandi e citazioni che di scientifico ha ben poco, hanno costruito la loro verità dell’amore tra donne utilizzando frammenti e traduzioni di testi letterari latini e greci scelti, riassemblati e usati come dati di fatto. Ai nostri fini quindi non ha importanza stabilire ciò che davvero intendessero gli autori classici, ma vedere l’interpretazione e l’uso che delle loro parole è stato fatto.
La donna che ama le donne è “ab origine” virile (nel corpo o nell’animo) e, quasi sempre, anche meretrice. Questi i principi che con alterne fortune informeranno di sè la rappresentazione delle lesbiche: le invertite, le virago, le iperclitoridee o le saffiste descritte dai positivisti hanno lì le loro radici e a loro volta entreranno nella odierna categoria di omosessuale, ad esempio attraverso la psicanalisi, che le vuole bloccate, non diversamente da Lombroso, ad uno stadio infantile (clitorideo).
Il più primo mito che narra l’origine dell’omosessualità risale a Platone (428-348 a.C.) che nel suo Symposium fa raccontare da Aristofane che gli eterosessuali derivano dalla divisione in due metà di precedenti esseri ermafroditi, mentre chi ama il proprio sesso da quella di precedenti esseri solo maschi o solo femmine; tutte queste creature dimezzate hanno nostalgia dell’unità e vogliono ricongiungersi con la parte perduta. Vi sono qui alcune caratteristiche presenti nella concezione attuale dell’omosessualità: si tratta di un medesimo fenomeno comune a uomini e donne[3]; di relazioni tra pari, senza diseguaglianze di età, di status, ecc.; è qualcosa che è già scritto e che caratterizza un ben preciso gruppo di individui.
A prima vista sembrerebbe che le meretrici o le donne virili non c’entrino per niente, ma Platone chiama hetairistriai le metà femminili in cerca della loro altra metà femminile, una parola che non compare in nessun altro testo greco di età classica e che potrebbe essere il sinonimo attico di tribade o derivare da hetairos (compagno, coniuge). La maggior parte degli studiosi però ritiene che sia associata ad hetaira, cortigiana; che cioè le donne non interessate agli uomini, derivate da una potente doppia femmina e che perciò ne tradiscono la natura forte e dominatrice, si rivolgano alle prostitute o che lo siano esse stesse.
Cinque secoli più tardi, Luciano (120-192 d.C.) nel quinto dei suoi Hetairikoi Dialogoi, (Dialoghi delle cortigiane) utilizza la stessa parola, hetairistriai, per riferirsi alle due protagoniste che sono appunto prostitute. Sul personaggio di Megilla (e non su “sua moglie” Demonassa, né sull’accondiscendente Leena) inscrive la mascolinità, facendole dichiarare: «il desiderio e tutto il resto in me è d’uomo […] non sono da meno dei maschi: ho un altro strumento che fa lo stesso giuoco». E’ questo il brano che verrà sempre citato a proposito del lesbismo e che servirà da base per costruire l’immagine della tribade come prostituta e come donna mascolina, in grado di dare piacere alle donne tramite uno speciale “strumento” (desiderio, oggetto o parte del corpo). Un’immagine che attraverserà i secoli, facilmente colorabile con altre caratteristiche quali l’essere lontana nel tempo e nello spazio: straniera, estranea agli usi e ai costumi correnti, totalmente “altra”.
Il secondo mito che spiega la nascita di esseri omosessuali si trova in una favola raccontata da Fedro (15 a.C.-50 d.C.): Prometeo, ubriaco, sbaglia nell’attaccare i relativi organi sessuali ai corpi che aveva precedentemente plasmato nell’argilla. Queste creature male assemblate sono i molles mares, maschi effeminati e le tribadi, femmine con membri maschili. Anche in questo caso omosessuali maschi e femmine nascono insieme, ma in modo diverso dagli eterosessuali e la loro specificità non è la ricerca di un simile in cui rispecchiarsi bensì l’errata costituzione. L’autore latino più utilizzato dagli studiosi di fine XIX però non è Fedro ma Marziale (40-104 d.C.), che in paio di epigrammi se la prende con «la più tribade delle tribadi», Filene, usurpatrice dei peggiori privilegi fallici, e con Bassa. A lei – dimostrazione vivente che le matrone romane possono commettere adulterio, tradendo mariti e ordine sociale, anche senza uomini – si rivolge, scrivendo che «inter se geminos audes committere cunnos / Mentiturque virum prodigiosa Venus».
Inumerevoli versioni, più o meno caste, sono emerse dagli «abissi di perplessità in cui gli amori di Bassa hanno gettato generazioni di traduttori»[4], ma a partire dalla metà del 1500 – quando venne “riscoperta” la clitoride, organo del quale si erano perse le tracce durante il Medioevo – la tribade non è (più) la donna che si procura il piacere senza l’uomo (secondo l’etimo greco, con lo sfregamento dei genitali) ma quella che lo ha come un uomo, penetrando un’altra donna grazie ad una clitoride eccezionalmente grande. E non ci saranno più dubbi: la «prodigiosa Venus» di Bassa non può essere altro che un (piccolo) pene, non un amore inconsueto o sorprendente[5]; allo stesso modo, non come un dito o un olisbo, viene interpretato lo “speciale strumento” di Megilla.
La tribade è dunque un essere deforme e mostruoso, molto differente dal sodomita o dal pederasta; e poichè possedeva contemporaneamente due organi diversi (come donna poteva essere penetrate e a sua volta penetrare) venne associate alla nozione – già di per sè poco chiara – di ermafrodita. Di «ermafroditi amori» parlava già lo Pseudo-Luciano del IV secolo ma Nicolas Venette, 1686, in quello che viene considerato il primo trattato di sessuologia, considera le tribadi come fisicamente ermafrodite. Cesare Taruffi, anatomo-patologo che si occupò anche dell’ermafroditismo “clinico”, nel 1902 scriveva:
Clitoride. E’ meraviglioso come questo organo, dal volgo ignorato, possa avere tanta influenza in certe donne: donne, almeno credute ed indicate tali, nello stato civile[6]
In mancanza di visibili caratteristiche maschili, secondo questo autore, l”invirilismo” può però essere desunto dalle azioni, fisiche e morali, commesse da una donna quando essa «s’immagina d’esser maschio e cade nei diversi gradi di omo‑sessualità[7]». I termini di comprensione del desiderio omoerotico femminile si strutturano insomma con continui spostamenti da segno a referente e viceversa (se non c’è il pene c’è il comportamento che esso significa; se c’è il comportamento c’è anche il pene).
Nel XIX secolo l’ermafroditismo era tornato in auge con Richard von Krafft-Ebing, autore della Psychopathia sexualis (1886). Il suo “ermafroditismo psichico” è però una sorta dell’odierna bisessualità, dovuto alla coesistenza di caratteri psichici maschili e femminili, ed è meno grave della vera e propria “inversione”, il concetto codificato dallo psichiatra Carl Westphal (1870) che manteneva intatto il binarismo dei generi minacciato dall’omosessualità.
La classificazione di Krafft-Ebing fu accettata anche dal suo concittadino Sigmund Freud, che in uno dei suoi Tre saggi sulla teoria sessuale (1905) definisce “invertiti anfìgeni” o “ermafroditi psicosessuali” coloro che possono avere come oggetto del desiderio entrambi i sessi, mentre l’”inversione assoluta” si ha quando non è sbagliato l’oggetto ma il soggetto, la cui psiche è invertita. Quest’ultima evenienza, dice, riguarderebbe solo le donne poichè gli uomini possono amare giovinetti e tuttavia rimanere virili.
Declinava intanto la popolarità di un’altra corrente di pensiero, quella dell’onanismo; a sostenerla, il fatto che la sessualità lesbica non è riproduttiva. Iniziata nel 1813 da Fournier che aveva inventato una nuova malattia, il “clitorismo” (penetrazione tramite la clitoride), «equivalente alla masturbazione negli uomini» (NB: non alla sodomia); Garnier (1883) derubricava tutti i rapporti tra donne sotto la voce “masturbazione reciproca”. Copiando quasi verbatim da quest’ultimo, l’italiano Moraglia nel 1885 spiega ai suoi colleghi che l’iperclitoride si può acquisire con l’(ab)uso[8] e che va eliminata chirurgicamente. In precedenza l’ipertrofia era solo congenita, perciò «l’uso libidinoso che fanno certe donne della clitoride che hanno voluminosa»[9] era limitato a poche. Anche per l’antropologo Paolo Mantegazza (1885) si tratta di una forma di masturbazione, possibile quando «una femmina fornita di un clitoride eccezionalmente lungo può simulare l’amplesso con altra femmina […] Anche io ho conosciuto due amiche che si adoravano e che si possedevano a vicenda, ed una di esse aveva un clitoride lungo forse cinque o sei centimetri[10]».
La «specie» omosessuale nasce quasi contemporaneamente all’Italia unita: Karl Maria Kertbeny coniò il termine omossessuale nel 1869 ma questa parola inizialmente non ebbe molto successo, diversamente dalla “sessualità contraria o invertita” di Westphal, strettamente associata al ruolo di genere. L’omosessuale moderno era quindi (anche) una/un invertito; Michael Foucault (1976) ne sintetizza così la nascita:
La categoria psicologica, psichiatrica e medica dell’omosessualità si è costituita il giorno in cui […] è stata caratterizzata attraverso una certa qualità della sensibilità sessuale, una certa maniera d’invertire in se stessi l’elemento maschile e quello femminile, piuttosto che attraverso un tipo di relazioni sessuali. L’omosessualità è apparsa come una delle figure della sessualità quando è stata ricondotta dalla pratica della sodomia ad una specie di androginia interiore, un ermafroditismo dell’anima[11].
La separazione tra sfera affettiva e sfera sessuale, tipicamente maschile, permette quella riduzione a pure “pratiche” che è ancora un ottimo metodo per non dare dignità all’amore omosessuale. Poichè vengono presi in considerazione sogli atti e non i sentimenti, Lombroso (1893) è incapace di collegare l’amicizia tra donne alle deviazioni di cui parla diffusamente più avanti; Ottolenghi (1902) non si accorge che la sindrome descritta è un innamoramento: «ogni volta che la signora F. passava per la strada abitata dalla malata, [ella] provava come un colpo violento nella regione precordiale, sensazione seguita subito da un accesso isterico[12]».
Lombroso aveva sicuramente letto Krafft-Ebing[13] prima di scrivere la Donna delinquente; l’ambiguità e la sovrapposizione di nuove e vecchie formulazioni è però tale che il concetto di ermafroditismo assume per lui un significato diverso da quello dell’autore tedesco: non è la compresenza di due diversi desideri (verso le donne e verso gli uomini) ma di un corpo femminile e di una psiche maschile, quando «con organi essenzialmente femminili si hanno tendenze congenite del maschio[14]» ed è quindi una inclinazione esclusiva, non una bipotenzialità. Inoltre, il tribadismo per Lombroso è una fase tipicamente femminile dello sviluppo, raggiunta attraverso una peculiare sequenza di partenze, salite e discese sulla scala evolutiva e quindi la tribade/invertita non è l’analogo del pederasta.
L’eventuale punto di contatto con gli omosessuali maschi al massimo lo si può trovare nella lontanissima origine della specie umana, quando uomini e donne non erano ancora diversificati. La confusione tra i sessi perciò è indice di una degenerazione che mette a rischio la specie umana tutta, oltre che un segno di criminalità e tutto ciò che in un maschio ha valore (intelligenza, intraprendenza, coraggio, forza, ecc.) a una donna viene restituito sotto forma di residuo atavico e primitivo, contrario alle leggi di natura.
La presunta ipertrofia dei genitali esterni delle prostitute, che appunto «ravvicina e confonde i due sessi» per la «tendenza al ritorno atavistico verso l’ermafroditismo» viene da Lombroso collegata alla deformazione delle piccole labbra nota come “grembiule delle Ottentotte” e quindi agli scimpanzé, in una triangolazione di atavismi che al suo vertice ha la razza:
E’ probabile, non però certo, che anche la frequenza dell’ipertrofia delle piccole labbra, sì grande nelle prostitute, sia un avanzo dell’epoca del grembiule delle Ottentotte che noi vedemmo connettersi con analoghe anomalie nelle scimpanzè[15].
Era infatti noto che tra le Nama-Ottentotte «le ragazze hanno il costume della masturbazione reciproca, di cui parlano liberamente nei loro racconti e anche nelle loro canzoni» ed è «così comune che si può chiamare vizio naturale[16]».
Se ipotizziamo che interessarsi al lesbismo sia una reazione a mutamenti della posizione delle donne nella società – quali ad esempio, per la fine Ottocento, la nascita del primo movimento femminista – possiamo aspettarci che quando l’omoerotismo e i legami tra donne vengono percepiti come una minaccia all’ordine sociale e ai privilegi della classe dominante, la pericolosa ed immorale tribade possa riapparire senza troppe difficoltà in una forma storicamente diversa di determinismo biologico, ad esempio affermando che un comportamento complesso come l’omosessualità risieda in una qualche parte del corpo, in un’anormale struttura del cervello, in uno squilibrio ormonale o in un gene sballato.
Anche se è difficile interpretare chiaramente il presente, possiamo esercitarci a vedere gli elementi della tribade per differenza guardando al suo contrario, cioè alla donna “normale” e alle prescrizioni e proscrizioni, mediche, culturali, sociali che le sono imposte attraverso rigidi canoni di “femminilità obbligatoria” che differenziano, anche visibilmente, i sessi. Mantenere la memoria di questi complicati intrecci potrebbe avere anche il non secondario effetto di rendere più permeabili le barriere attualmente esistenti tra categorie quali le amiche affezionate e le lesbiche praticanti, le prostitute e le donne mascoline, i gay e le intellettuali femministe o le italiane e le immigrate, perché guardando indietro nel tempo risulta chiaro che nessuna di loro ha l’esclusiva di una specificità completamente separata dalla altre e si può, almeno nel passato, ritrovare quella comunanza adesso smarrita.
[1] Guglielmo Ferrero e Cesare Lombroso, La donna delinquente la prostituta e la donna normale, Torino, L. Roux, 1893. Il libro, che ebbe cinque edizioni e moltissime ristampe, fu tradotto in diverse lingue ed è stato recentemente (2009) ripubblicato; anche se non esplicitamente dichiarato la parte sulla donna “normale” è di Ferrero e quella sulla donna “delinquente” di Lombroso.
[2] Per una trattazione dettagliata di ciò che scrivevano i positivisti italiani sul lesbismo vedi Nerina Milletti, Analoghe sconcezze. Tribadi, saffiste, invertite e omosessuali: categorie e sistemi sesso/genere nella rivista di antropologia criminale fondata da Cesare Lombroso (1880-1949) in “DWF. Donna, Woman, Femme”, vol. 4, 1994, n. 24, pp. 50-122.
[3] Va notato però che qualche pagina prima Pausania considerava degni della specie d’amore più elevata, l’eros celeste o uraniano, solo i rapporti tra uomini.
[4] Marie-Jo Bonnet, Les relations amoureuses entre les femmes, n.e., Paris, Odile Jacob, 1995, p. 57.
[5] Come ad esempio lo traduce Daniela Danna in Amiche, compagne, amanti. Storia dell’amore tra donne, edizione integrale con aggiornamenti, Trento, Uniservice, 2003, p. 47: «stringi e avvinghi / come un sol uomo due sorelle Fica / e questo amore innaturale / imita l’uomo».
[6] Cesare Taruffi, Sull’ordinamento della teratologia. Memoria III (fine). Bologna, Gamberini e Parmeggiani, 1902, p. 16.
[7] Cesare Taruffi, Sull’ordinamento della teratologia. Memoria III (parte II). Bologna, Gamberini e Parmeggiani, 1901, p. 39.
[8] G. B. Moraglia, Tribadismo, saffismo, pervertimenti sessuali, in “Archivio di psichiatria, scienze penali ed antropologia criminale”, n. 30, 1895, pp. 379-427.
[9] Angelo Poma, Dizionario anatomico-medico-legale compilato sulle tracce dei migliori autori, Padova, Minerva, 1834, p. 85
[10] Paolo Mantegazza, Gli amori degli uomini. Saggio di una etnologia dell’amore, vol.2, Milano, Paolo Mantegazza Editore, 1886, p. 136-137.
[11] Michael Foucault, La volontà di sapere. Storia della sessualità 1, Milano, Feltrinelli, 2004, pp. 42-43.
[12] S[alvatore] Ottolenghi, 1902. Fascinazione e telestesia, in “Archivio di psichiatria, scienze penali ed antropologia criminale, ser. II”, n. 23, 1902, pp. 244-246.
[13] La sua Psychopathia Sexualis fu tradotta in italiano nel 1889.
[14] Ferrero e Lombroso, La donna delinquente, cit., p. 428.
[15] Ibidem, p. 362..
[16] Cesare Taruffi, Sull’ordinamento della teratologia. Memoria III (parte II), cit., p. 51; Mantegazza, Gli amori degli uomini, cit., p. 138.