2013, Liana Borghi – Assemblaggi affettivi

Liana Borghi, 2013. “Assemblaggi affettivi: l’amore al tempo dei quanti”. Dattiloscritto datato novembre 2013, pp. 9.

Di questo testo esiste anche una versione più breve, dell’ottobre 2013, scritta per il Fuorisalone lesbico di Milano. Pubblicato successivamente con un titolo leggermente diverso (“Assemblaggi affettivi, l’amore al tempo del quantoqueer”) come postfazione in: Gaia Giuliani et al. (a cura di),  L’amore ai tempi dello Tsunami. Affetti, sessualità e modelli di genere in mutamento. Verona: Ombre Corte 2014, pp. 207-216.

Di seguito il dattiloscritto “Assemblaggi affettivi: l’amore al tempo dei quanti”. In fondo alla pagina, i link al file PDF, alla versione breve e al file pubblicato da Ombre Corte come “Assemblaggi affettivi, l’amore al tempo del quantoqueer”

Assemblaggi affettivi: l’amore al tempo dei quanti

Liana Borghi

Due alluvioni in due settimane qui in Maremma; oltre i pini, la spiaggia ridotta a una lingua di sabbia; su una rivista, la cartina dell’Italia erosa dal mare: tracce materiali dei nostri interventi sul/nel corpo del mondo, annuncio di maggiori biocatastrofi. I ghiacci che si sciolgono intramano anche la mia esistenza; anche la mia esistenza e la tua intramano i ghiacci che si sciolgono. Altrove questo si chiama entanglement. E nel groviglio dell’io e non-io, anche le micropolitiche del nostro divenire insieme partecipano al contempo elusivo dei quanti: tempo discontinuo delle emozioni e del sentire, del perdersi e del ritrovarsi; tempo del fare, tempo della crisi, tempo senza tempo. L’amore disgiunto è una macchina del tempo? Che tempo è? Come possiamo considerare la prospettiva non umana del tempo?

Il nostro tempo solo incidentalmente è il tempo dei ghiacci e del mare. In questo tempo di crisi mi servono narrative che alla soggettività intrecciano natura, ambiente, sviluppi tecnologici, rapporti socio-politici. Mi serve sentirmi parte del non-umano, ripensare il mondo intero come un soggetto agente in continuo mutuale divenire con me: mio referente primario senza il quale il mio divenire non può essere. Ma come possiamo esprimere adeguatamente e rispettosamente la nostra condivisione, la nostra “co-sostanzialità” del/nel mondo? Quale capacità di risposta abbiamo; di quale intra-attività, di quale messa in atto e performance siamo capaci; quale campo di forze creiamo?

Sentendomi fuori scala nell’universo, mi osservo per capire come mi hanno costruito le strutture del sapere e come mi sono costruita, e per cercare pieghe virtuali nell’esperienza. E dunque, come si materializza un corpo? Quale assetto, disposizione, collocazione assume, e perché? Come riesce a riconfigurare gli apparati di produzione corporea materiale e discorsiva? Quale affetto ci governa e ci relaziona? Quanto è valida l’interpretazione che diamo ai sentimenti – quella che ci governa la vita? Come esercitare dubbi e dissenso? Quali appigli in questo tempo di crisi?

Nuovi paradigmi tecno-scientifici come la termodinamica, le teorie del caos e della complessità, e la meccanica quantistica hanno cambiato radicalmente la nostra concezione della natura e quindi della soggettività. In ascolto di queste mutazioni e attratto da affetti, forze e movimenti, il neomaterialismo femminista cerca di collegare l’umano con il non umano, e di ripensare la materialità dei corpi prendendo le distanze dal logocentrismo poststrutturalista – considerando che il corpo si forma in necessaria relazione con il mondo, come assemblaggio di stimoli, risposte, affetti e pensieri, ancor prima di parlare. In transito da queste posizioni verso il postumano, la filosofa Rosi Braidotti vede emergere un progetto empirico per attualizzare “le possibilità virtuali di un sé espanso e relazionale che funziona in un continuo di natura- cultura mediato dalla tecnologia”.[1] Ma nonostante sia ovvia la nostra partecipata interdipendenza con il mondo materiale e le bio/ tecnologie, restiamo ancorati ai vecchi modelli di essere e identità – come il concetto di genere. Tra i molti spunti offerti dal neomaterialismo femminista per passare da una rappresentazione classica del mondo a un modo più nuovo di vedere e capire la sua materialità, ho trovato particolarmente interessante l’uso che Karen Barad fa della teoria dei quanti.

Nella teoria quantistica, i quanti sono particelle subatomiche infinitesimali, indivisibili entità di energia che costituiscono la materia del mondo, noi comprese. Non si può dire che esistono; si dice che hanno la tendenza a esistere, che la loro presenza spettrale resta alla cuspide del possibile e dell’impossibile. Sempre in trasformazione, sono altrove senza essere stati da nessuna parte, né qui né là, né ora né allora[2]. E perciò confondono la nostra concezione del tempo, della continuità, dell’identità, dell’essere. Per chi li ha studiati a scuola, non sono niente di nuovo: cento anni fa Niels Bohr si occupava della vecchia teoria dei quanti, e se ne occupava anche Albert Einstein nonostante lavorasse sui grandi sistemi dell’universo e non fosse molto convinto di quella nuova idea della realtà composta di strutture minuscole, di entità che comunicano istantaneamente e si influenzano reciprocamente a distanza, che ricordano la loro connessione e sopravvivono alla distruzione.

Da qualche anno Karen Barad, una scienziata e filosofa che insegna al dipartimento di storia della coscienza a Santa Cruz, il famoso dipartimento di Angela Davis, Teresa De Lauretis, Donna Haraway ha pensato un modello post-umano di performatività dove viene descritto il comportamento dei quanti riconoscendovi i parametri delle teorie queer.[3] Così facendo ci ha sospinte – ma forse non ce ne siamo ancora accorte – oltre il post-queer, nel trans-queer, o quanto-queer, a cercare di capire con lei perché i quanti ci aiutano a riconfigurare modelli esistenti di società e di politica, a riflettere sul groviglio di scambi infra-relazionali fra umano e non-umano, sulla diffrazione delle temporalità e l’entanglement di qui e là, ora e allora. E questo, ovviamente, richiede un ulteriore ripensamento dei processi di produzione affettiva e quindi dell’amore.

Affetto e amore sono due parole del mio titolo. Per affetto intendo quella ‘pulsione’ vitale che ci collega al mondo attraverso il corpo in ogni sua capacità, e che si traduce in sentimenti e affettività con espressione sociale e culturale. Alessia Acquistapace, attraverso una inchiesta su varie esperienze di vita, suggerisce “di ripensare la carnalità e la sessualità in tutte quelle relazioni, troppo genericamente dette ‘amicizie,’ che non includono il sesso genitale ma comportano una radicale intimità dei corpi.”[4] La parola Amore copre per me qui una gamma di sentimenti amorosi che include affetti casuali con proliferazioni non prevedibili e “relazioni affettive” forse nemmeno leggibili come tali perché resistono alle convenzioni della società dell’informazione e si aprono a un dis/ orientamento dell’immaginario sessuale. Luciana Parisi osserva che

le relazioni affettive non comportano semplicemente l’azione di un corpo su un’altra azione e viceversa, ma la loro mutuale partecipazione nelle capacità astratte dell’affetto, in una metafisica del non-ancora attualizzato che mentre precede ed eccede, accompagna direttamente ogni intra-azione attuale. In questo senso il corpo può solo essere definito nell’intervallo spazio-temporale tra qui e là, ora e prima, ancora e di nuovo. È la relazionalità astratta – o virtuale – che apre la questione di cosa possa fare un corpo-sesso. (2004, p. 6)

È quindi importante considerare anche le “attività astratte del relazionarsi” — le zone indistinte tra il pensare e il fare, tra il concetto filosofico e la funzione tecnoscientifica – perché se includiamo nell’esperienza materiale della sessualità anche le astratte attività di sessi “atomici”, ci troveremo a ripensare l’ontologia della sessualità queer e della differenza sessuale.

Ovviamente, nel quotidiano le reti affettive includono rapporti d’amore, magari fedeli e duraturi, praticati per auto-regolare e tutelare le nostre e reciproche libertà. L’Amore con l’a maiuscola è una grande performance codificata nei secoli e che da secoli ci costruisce, produttiva di un immaginario che cementa la struttura sociale, complice del capitalismo nel darci l’illusione di un rifugio in tempi bui. Purtroppo non riesco a credere che la famiglia ci salverà, nonostante le famiglie non eteronormate sembrino offrire maggiori speranze. Gli antifuturisti, tra cui il filosofo Lee Edelman, raccomandano di non investire nei bambini, nemmeno quelli che le donne si stanno facendo tra di loro, ma di investire piuttosto nel presente del mondo per rendere vivibile il suo futuro.

E quanto al matrimonio agognato come certezza di permanenza o forme più durature nel rapporto, oppure scelto come riparazione di discriminazioni sociali, non credo che lesbiche, gay e trans possano migliorare sposandosi questa istituzione di privilegio e discriminazione. Sarà l’istituzione stessa a cambiarci. E comunque come gli eterosessuali, abbiamo e avremo i nostri tradimenti, abbandoni, divorzi, liti sulle spartizioni dei beni, degli oggetti, dei figli, dei cani e dei gatti – assistite dalle nostre avvocate. Mi sembra che, abbandonato il desiderio di vivere in un mondo migliore, ci stiamo proprio provando a essere come tutti.

Penso a come rendiamo docili i nostri corpi per avere cittadinanza nella norma — per quanto la cittadinanza non sia mai permanente, ma sia sempre intermittente e aleatoria, condizionata alla nostra adesione a politiche securitarie che obbediscono alla logica del dentro/fuori — dove il confine tra dissidente, clandestino e integrato raramente è stabile e garantito. E penso a come vengono manipolati i nostri sentimenti – per esempio l’amore della nazione su cui lucra l’economia globale, propagandato secondo Jasbir Puar come ricompensa del nostro lavoro.[5] Siamo state recuperate, riabilitate all’uguaglianza neo-liberista, alla famiglia standard, persino all’esercito – mentre assistiamo alle perdite nel sociale, all’impoverimento dell’istruzione, al dileguarsi dei diritti e del lavoro nel nostro presente degradato dove continuano i pestaggi ma si autorizzano i raduni neofascisti, dove sfruttamento e precarietà sono la norma, mentre le donne continuano a essere ammazzate dai loro uomini nonostante si sia architettata una specie di legge per proteggerle, e i CIE non li chiude nessuno, anzi continuano a riempirli le carrette del mare, quelle che non affondano. Perciò penso sia opportuno cercare di capire quali nostri atteggiamenti ci normalizzano e ci portano ad accettare questa situazione, a rifugiarci nella piccola felicità individuale – che non è poco, certo, e di per sé è una gran fortuna, ma non basta a rendere buona una vita cattiva.

Quali sono i nostri spazi di dissenso? Un tempo la marginalità faceva male, ma ci fa meglio l’omologazione di ora? La nostra storia di donne e la nostra multipla differenza di lesbiche e queer dovrebbe averci allertato alla violenza e al cinismo che serpeggia anche tra di noi. Lo sappiamo che il lesbofemminismo non cancella le disuguaglianze. Credere che lo facesse è stata una nostra utopia. Il lesbismo è un soggetto collettivo basato su affinità che poggiano su un’intesa dei corpi. Individualmente siamo soggetti collegati a reti affettivo-politiche tra donne ma non solo. Non possiamo non chiederci quale corpo sentiamo, con quale corpo sperimentiamo, come diamo forma al desiderio, quali confini ci pongono le norme sociali e quali norme sessuali costituiscono l’intimità. Ma possiamo fare affidamento sulle affinità che ci legano e ci è permettono di stare attente l’una all’altra (che è altra) per attivarci ad aprire spazi di dissenso, a fare rete in un modo flessibile che ascolta altre reti, riconsidera i linguaggi, tiene conto della materialità dei nostri bisogni e delle nostre storie.

Il lesbismo ha sempre riflettuto sulla questione dell’identità, a cominciare dall’assunto che se fai la lesbica, sei lesbica anche se non sei lesbica. Già aH’inizio del movimento queer questo assunto è stato messo in discussione per il fatto che chiunque può fare la lesbica, non solo le donne. L’amore tra donne mette in scena condizioni di sopravvivenza e affermazione, mentre l’identità congela una performance che prende forma collettivamente; ne fa un marchio, un contrassegno pericoloso di per sé, nella sua fissità e non negoziabilità, per quanto sia potenzialmente efficace se collegato ad altri movimenti di democrazia radicale. Nel queer il soggetto resiste a presupposti di identità; aspira ad essere fluido, senza essenza e fondamento, lavora per la proliferazione del genere, lotta contro la normalizzazione assumendo “l’abiezione come categoria politica”. Va ricordato che questa posizione anti- identitaria contrasta con la specificità identitaria dei queer di colore e si intreccia a sua volta sia con l’omonazionalismo (cioè la normalizzazione GLTIQ traghettata dai razzismi di stato) sia con il nazifascismo di gay e lesbiche nel 900.[6]

Anche in questi come in altri casi il queer è uno strumento di lettura, è un verbo da coniugare e utilizzare in questo tempo di crisi. Ironico e dissacrante, può non essere asociale come Lee Edelman sembra intenderlo: apre uno spazio di flessibilità dei corpi – flessibilità intesa positivamente come libertà identitaria o negativamente come limitazione di cittadinanza, di impiego, di sicurezza e quindi di maggiore vulnerabilità a forme di sfruttamento, in quanto merce.[7] Ma per quanto cosciente dei meccanismi di complicità e resistenza che ci danno significato collegandoci al binomio normatività e trasgressione all’intemo di regimi regolatori, anche il soggetto queer è inevitabilmente sempre assoggettato.

In questo contesto diventa utile un collegamento con il concetto di “assemblaggio” identitario discusso da Jasbir Puar in un suo saggio. Il termine traduce liberamente il francese agencement che ha una nobile storia filosofica[8]. Puar usa il concetto analizzando l’intersezionalità che costituisce le nostre identità – nel senso che siamo composte/i individualmente di una quantità di elementi disparati che si intersecano e aggrovigliano in ciascuna di noi, formando e indicando le relazioni e connessioni molteplici e instabili della nostra vita. L’intreccio di situazioni ci sta addosso come una disposizione difficilmente etichettabile e omologabile che l’identità costringe in gabbie socialmente definite. Pensarla invece come un assemblato consente maggiore libertà; può essere vissuta come una installazione temporanea e modificabile a ogni istante mentre inter-agiamo e intra-agiamo con persone, idee, testi, immagini, oggetti, cose: cioè con la materialità del mondo, in un continuo scambio alla cui totalità di solito non diamo dovuto riconoscimento.

Chi si riconosce in uno dei movimenti GLTQI si trova in un posizionamento relazionale in contrapposizione all’eteronormatività, binomio che inchioda in un posizionamento difficile da evitare: se sei omo, il tuo referente primario è l’etero. Sarebbe opportuno uscire da questa situazione; ma se proprio dobbiamo restare dentro questo costrittivo assetto dicotomico, ci sono altre assi di differenza oltre ai paradigmi tradizionali femminile e maschile, genere e sesso. Proviamo per esempio con l’umano e nonumano che potrebbero fornire nuove prospettive, nel caso serva alla nostra libertà sociale dimostrare che i corpi performano la sessualità in modi diversi[9].

Prendiamo per esempio, proprio perché l’argomento è scontato, la questione della natura di cui tanto si parla. Ci dicono e sostengono che la norma eterosessuale è naturale perché finalizzata alla riproduzione, mentre l’omosessualità pare di no. Ma cosa conta come natura? E ripensando alle riflessioni di Judith Butler, quali vite contano? E quanto vale la mia vita di donna/lesbica? Da decenni e prima ancora, noi cosiddetti “anormali” abbiamo sostenuto che il “normale” e l’associazione “naturale-normale” sono costruzioni politico-culturali, dispositivi di potere che si possono e si devono decostruire. È proprio vero che l’eterosessualità è una norma “naturale”? In realtà molti e vari studi ci assicurano che se il non umano conta come natura, in natura l’eterosessualità non è affatto la norma. Il dubbio era già venuto a metà Ottocento a Charles Darwin, un tipo meticoloso che passò più di 8 anni a studiare la sessualità dei cirripedi, crostacei marini quasi tutti ermafroditi. In seguito e più di recente, la bioioga transgender Joan Roughgarden, nel suo studio sull’evoluzione arcobaleno, informa che è una “anomalia sostenere il mito dell’eterosessualità naturale”. Nel mondo animale il comportamento sessuale è estremamente variabie — omo, bi e trans; e contrariamente a quanto sosteneva Darwin, la norma non è la ferocia aggressiva finalizzata alla sopravvivenza della specie: ci sono tantissimi esempi di pacifica collaborazione e comunità. In un altro saggio recente, una raccolta sul nonumano, si dice poi che la norma nel mondo animale è la transessualità.[10]

Indubbiamente si tratta di specie diverse dalla nostra, ma siamo comunque imparentate o compagne in grande intimità (basta pensare al rapporto con i nostri animali domestici, specie compagne che si sono evolute insieme a noi[11]). Il nostro corpo lascia tracce di DNA ovunque. Non solo mangiamo verdure, frutta, galline, uccelli, pesci e molluschi; viviamo con altri corpi dentro di noi, come microbi e batteri,[12] e siamo aggrovigliati biofisicamente e socialmente a forze, energie, affetti, informazioni: siamo sempre in contatto esplorativo con corpi di ogni tipo e genere da cui dipendiamo in radicale asimmetria: ma siamo un insieme, noi umani e il nonumano, tecnologie incluse.[13]

Nel quantoqueer genere e sessualità sono eventi, azioni, incontri tra corpi. I corpi sono una performance, non sono una cosa e non sono permanenti.[14] L’energia liberata al contatto con la cosa desiderata si esprime diversamente da un individuo all’altro. La sessualità mette in scena percezioni che ci compongono e a loro volta ci ri-compongono. I corpi sono del mondo (insiste Karen Barad), dalle loro intra-azioni emerge la nostra soggettività, la nostra agentività, la capacità di agire. I corpi sono assemblaggi formati da connessioni ricorrenti, necessarie per comporli e scomporli, performarli. Sono “carne sociale” che vive in relazione mediata e organica con l’ambiente.

Da un punto di vista sociologico e politico, il lesbismo contemporaneo è un soggetto collettivo e la “cosa lesbica” si compone di quel potenziale di interazione tra noi che genera affetti accessibili a un sapere corporale, traducendosi in risposte e in atteggiamenti. Tutti i rapporti affettivi (sosteneva già Baruch Spinoza), ogni modo di incontrarsi tra corpi è vettore di affetto, cioè di quella potenzialità di produrre il cambiamento inatteso in quei corpi come descritto da Parisi.

Ma non si tratta di interazione, quanto di una intra-azione che ci tiene collegati non soltanto tra noi, ma al mondo; una intra-azione che ci cambia, scambia, e cambia tutto quello con cui siamo in contatto, anche le amanti. La materia, il corpo, e il significato che diamo alle cose si costituiscono a vicenda. I corpi e le cose si creano e ricreano in un groviglio di azioni e reazioni. La materia, organica e inorganica, è in costante trasformazione attiva: performa, cambia, diventa con noi, come noi.[15]

E se siamo del mondo e non solo nel mondo, quali responsabilità abbiamo? Come ci sentiamo impegnate nel mantenimento e nel benessere del mondo? Quali impegni ci assumiamo per rendere buona la vita? Quale giustizia-a-venire immaginiamo? Karen Barad suggerisce di ripensare la nostra responsabilità cominciando dal nostro aggrovigliamento intra-attivo nel mondo.[16]

In quest’ottica quantizzata l’identità è un incontro, un evento, un avvenimento, un incidente, un fatto, un momento del divenire di corpi in movimento. È una performance che si afferma attraverso la ripetizione, tanto quanto fa il genere. Ma non siamo soltanto noi a fare la performance, è il mondo intero che si performa, secondo per secondo, istante per istante, nella sua dinamica di differenziazioni che creano la materia, la nostra sostanza – con tempi e spazi multipli diversi dai nostri. Lo dimostrano i quanti – che in un altro tempospazio, sospesi nell’indeterminatezza dell’essere-non essere, restano connessi e comunicano istantaneamente. La nostra rappresentazione dello spaziotempo è una convenzione umana arbitraria, funzionale al sistema di vita che abbiamo organizzato e situazioni diverse hanno temporalità diverse.

Ad esempio per Jack Halberstam chi vive fuori dall’eteronormatività ha una diversa consapevolezza del tempo. Il tempo eterosessuale che scandisce biologicamente e genealogicamente passato, presente e futuro non corrisponde alla temporalità queer di chi vive facendo un uso diverso del proprio corpo, tempo, e spazio, di chi non investe nel futuro e coltiva invece l’arte del fallimento. E anche le contingenze storiche e culturali rivelano i buchi del reale e si traducono in percezioni e sensazioni diverse dalla scansione comune, in modalità di conoscenza alternative che rendono possibile altri immaginari politici. Il tempo queer produce, nei termini di Sara Ahmed, un ri-orientamento verso il mondo, verso i suoi oggetti, e verso altre intimità.

Per Carla Freccero il tempo queer “è infestato (haunted) dal persistere dell’affetto e di imperativi etici” con una spettralità che si fa tropo e figura.[17] Freccero chiama queer le temporalità mescolate e multiple che possiamo notare leggendo o raccontando una storia: dove presente/passato/futuro non sono allineati, e il tempo si annoda, frammenta e sovrappone, ogni scena un groviglio di temporalità.

Fa spettralità inquieta la temporalità intrecciando affetto e memoria: non siamo mai liberi dai fantasmi del passato né dagli effetti materiali del desiderio e dell’immaginazione. Il nostro corpo produce forme di “empatia nel tempo”[18] quando la memoria si apre al ricordo delle esperienze nostre e altrui. Se da un lato siamo consapevoli della spettralità del corpo in un tempospazio indecidibile, dall’altro sentiamo la strana, inquietante simultaneità della presenza spettrale (haunting), latente e costante, di un presente-assente fatto di tracce che ci accompagnano. F’indeterminatezza complessa del tempo contraddice la “storiografia fantasmatica” delle nostre vite, la stratificazione delle storie e dei contatti, la selettività, la cancellazione (ghosting) selettiva di persone, eventi, luoghi di cui è piena anche la nostra storia.

Karen Barad ripropone il tema della spettralità ricordandoci che passato presente e futuro coesistono così come avviene nel non-tempo dei quanti, perché lo scambio incessante e l’aggrovigliamento dei fenomeni lasciano una traccia che è già futuro. Fa loro spettralità “perturba la dicotomia tra continuità e discontinuità”; è queer perché dis/fa l’identità, sta alla cuspide di una trans/formazione im/possibile, im/passibile”.[19]

Non ho risposte per tutte le domande poste all’inizio, né applicazioni esistenziali per questo groviglio quantoqueer. Continuerò a chiedermi a cosa può portare questa decostruzione critica dell’ontologia classica; questa rifigurazione della materialità, della virtualità, della temporalità, dell’indeterminatezza, in ascolto etico con contesti non umani della soggettività. Cosa cambia se ci sentiamo davvero coinvolti nella materialità dei corpi e tra corpi? Qualche APP già collega materialismo, agentività, sostenibilità, intimità, relazionalità, responsabilità, trans/formazione. E forse tiene anche conto dei movimenti instabili di continuo dis/facimento, della liminalità dei corpi, della precarietà dell’esistenza e degli affetti. Ma nella scena dell’incontro e del coinvolgimento spettrale con la forma dell’Altro[20], Karen Barad apre il suo testo teorico a una illimitata relazione di causalità davvero molto queer, ancora da indagare.

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NOTE

[1]    Braidotti, The Posthuman, p. 61. Vedi anche Rick Dolphijn & Iris van der Tuin insieme ad altri testi di tendenza citati in bibliografia. Le traduzioni dall’inglese sono mie.

[2] Barad,”Quantum”, pp. 248-249.

[3] Nell’introduzione a Queering the Non/Human, Giffney & Hird, curatrici del volume che include Haraway, Barad, Parisi e altre, scrivono: “Il queer funziona come un gesto di interpellazione che chiama a resistere, reclamare, inventare, opporre, sfidare, contestare, aprire, arricchire, facilitare, disturbare, produrre, minare, denunciare, svelare, criticare, rivelare, oltrepassare, trasgredire, sovvertire, disturbare, impugnare, celebrare, interrogare, controbattere, provocare e ribellarsi; […] ha come caratteristiche fluidità, uber-inclusività, indeterminatezza, indefinibilità, inconoscibilità, assurdità, impossibilità, impensabilità, inintelligibilità, insignificanza, e l’irrappresentabile come tentativo di disfare grovigli normativi e modellare alternative immaginarie (p. 3)

Vedi Alessia Acquistapace, “Relazioni senza nome. Reti di affetto, solidarietà, intimità e cura oltre la coppia eterosessuale obbligatoria”, licenza creative commons CC BY-NC-ND 3.0 IT presso http:/ / smaschieramenti.noblogs.org /?p=537

[5] Puar 2007, p. 27.

[6] Per una discussione intrecciata su questi temi vedi le voci di Monica Pietrangeli, di Barbara De Vivo e Suzanne Dufour, Vincenza Perilli e Liliana Ellena, e del Laboratorio Smaschieramenti in Marchetti et al., Femministe a parole. Per la questione del fascismo dal 900 in poi vedi Halberstam e Puar (2007).

[7] Per una discussione su Edelman e la tradizione antisociale gay e queer, vedi Lorenzo Bernini.

[8] L’agencement, tradotto in inglese da Puar con assemblage (mettere insieme anche in modo non sistematico), viene ritradotto da me come assemblaggio, piuttosto che come istallazione, organizzazione, assetto.

[9] Per un ampliamento del discorso in ambito religioso, rimando a Robert Mills, “Qiieering thè Un/godly” in Giffney&Hird, p. 131.

[10] In “Animai Trans”, Myra Hird spiega che “una molteplicità di maschi (a volte migliaia), vivono in singole femmine dei cirripedi. Così essi possono essere intersessuati ma anche altro – qualcosa di cui ancora non abbiamo un termine. … ‘queste femmine e ermafroditi con molti mariti non sono soltanto stadi intermediari nell’evoluzione dei cirripedi; sono anche l’evidenza della diversità somatica che la natura produce’ morfologie e comportamenti di molti organismi viventi che sono queer in quanto mettono in questione l’eteronormatività”. Giffney&Hird, p. 229. Non intendo con questo usare la transessualità come un “topos postumano dominante” e rimando quindi alle pagine di Rosi Braidotti sul “post-antropocentrismo” e “la vita oltre le specie”, in particolare pp. 106-101 di The Posthuman.

[11] Vedi “Companion Species, Mis-Recognition, and Queer Worlding” di Donna Haraway in Giffney&Hird.

[12] Vedi Myra Hird, “Indifferent Globality: Gaia, Symbiosis and ‘Other Worldliness’,” Theory, Culture and Society 21 (2010): 54-72.

[13]   Blackman, p. 16.

[14] Barad, “Queer Causation and the Ethics of Mattering”, in Giffney&Hird, p. 326.

[15] Coole, p.10.

[16]   Barad in Tuin, 66 e 68.

[17]   Queer/Early/Modern, p. 5 e p. 86. Non esiste in italiano un’adeguata traduzione per queste due figure della spettralità.

[18] Butler 2013, p.13.

[19] Barad 2010, p. 247.

[20]  Vedi S. Grassi sulle etiche della responsabilità, pp. 130-133.


La prima versione breve, datata Milano, ottobre 2013:

http://www.leswiki.it/repository/testi/2013borghi-assemblaggi-affettivi-corto.doc


In formato PDF “Assemblaggi affettivi, l’amore al tempo del quantoqueer”, datato novembre 2013

http://www.leswiki.it/repository/testi/2014borghi-assemblaggi-affettivi-ombrecorte.pdf


Come postfazione (Ombrecorte, 2014), qui:

http://www.leswiki.it/repository/testi/2014borghi-assemblaggi-affettivi-amore-tempo-quantoqueer.pdf