2014, Liana Borghi – Prospettive libertarie e strategie queer

Liana Borghi, 2014. “Prospettive libertarie e strategie queer in una scuola estiva”, A/rivista anarchica, (dicembre 2013 – gennaio 2014), anno 43, n. 385.  

E’ la relazione presentata al Convegno “Educare alla libertà”, maggio 2013, La Spezia. Pubblicato online allo http://www.arivista.org/?nr=385&pag=103.htm


Prospettive libertarie e strategie queer in una scuola estiva

Parlerò di una scuola estiva dove si pratica l’“intercultura di genere”(1), ma poiché ho uno spazio di parola limitato darò per scontato che tutte le persone presenti – femmine, maschi, o altro che si definiscano – sappiano cos’è il genere, e che in genere per intercultura si intende l’incrocio tra forme culturali diverse. Cosa poi si intende per intercultura di genere diventerà chiaro, spero, durante il mio intervento dove userò il passato per evidenziare lo scarto tra le prime edizioni della nostra scuola estiva e quelle più recenti. Raccontare i cambiamenti avvenuti negli anni occuperebbe troppo tempo; spesso però userò anche il presente per rendervi partecipi della continuità riscontrabile nelle varie edizioni della scuola.
Dall’inizio del 2000 e prima ancora, ho organizzato uno spazio sperimentale dove praticare intercultura di genere insieme a un gruppo di studiose di letteratura. Il progetto è nato dalla frustrazione di non poter insegnare ufficialmente i women’s studies/gli studi delle donne che per altro, e non sono certo la sola, ho comunque sempre inserito trasversalmente nei miei corsi di anglo-americanista, incrociando studi di genere, studi culturali, studi queer, studi sul post-coloniale e la subalternità, e quant’altro mi sembrasse e ci sembrasse utile per trasmettere e condividere quella che abbiamo chiamato, appunto, intercultura di genere.
A dire proprio la verità, il mio primo progetto della scuola era stato una proposta di studi queer, presentata e fatta circolare al World Gay Pride di Roma nel 2000, ma senza successo. La proposta di una settimana estiva dedicata alla letteratura di genere piacque invece a Clotilde Barbarulli dell’Associazione Il Giardino dei Ciliegi di Firenze. Fu quindi accettata dalla Società Italiana delle Letterate della quale ambedue eravamo e siamo socie, e nacque così nel 2001 il Laboratorio Raccontar/si, che si rivolgeva a donne native e migranti insieme. Come tutte le nostre iniziative congiunte, il Laboratorio portava l’impronta del femminismo storico di Clotilde e del mio altrettanto storico attivismo lesbo-femminista, ormai più interessato agli studi queer. Aggiungo che già a quel tempo ero la referente dell’università di Firenze per la rete tematica europea di studi di genere, Athena, all’interno della quale ho continuato a studiare, insegnare e pubblicare insieme a un piccolo gruppo internazionale – e ne trovate tracce in internet.

Stare, pensare fare in relazione
Questo aggancio nazionale e internazionale non deve farvi supporre che il progetto avesse o abbia un finanziamento adeguato. La scuola è autofinanziata grazie alla generosità di tutte le persone che hanno partecipato a spese proprie, ai piccoli doni ricevuti per le borse di studio, a qualche minuscola sovvenzione, e all’amministrazione economa di Clotilde e mia, abituate alla scarsità del femminismo diffuso. Chiedere un contributo per la partecipazione era cruciale all’inizio, quando cercavamo di far partecipare molte immigrate che andavano assolutamente sovvenzionate, e purtroppo lo è altrettanto ora, in tempi di precariato selvaggio. Inoltre, il laboratorio e poi la scuola hanno sempre cercato di avere un ampio numero di docenti – anche se ciascuna di loro rimane pochi giorni – circa 30 docenti su 40 iscritte, perché l’impianto si basa sullo scambio: insegnare imparando, imparare insegnando: dalla teoria alla pratica e viceversa, condividendo affetto e saperi. Quindi è di un impegno collettivo che vi parlo, e non soltanto per gli anni del Laboratorio e per i convegni e seminari, ma fino alle edizioni di Duino nel 2011 e 2012, e ora il mese prossimo a Livorno.
Raccontar/si era intesa come una comunità di pratica dell’intercultura di cui ci facevamo portatrici; un luogo dove incrociare discipline con testimonianze e letture, prestando attenzione al modo in cui lo stare, pensare, fare in relazione, ci cambiava, perché questo succedeva. All’inizio dei laboratori era previsto uno spazio di orientamento per chiarire quanto fosse necessario collaborare a creare insieme una condizione di benessere e di apertura. Per questo ci sembrava importante rispettare e apprezzare le differenze, riconoscere e accogliere le somiglianze, dare valore, dare spazio anche nel parlarsi, fare autocritica, osservare le dinamiche interpersonali, domandarsi, “da dove parlo, con chi e perché, chi parla per me e attraverso di me, dove mi colloco” (ecco un prodotto degli studi subalterni). Senza dirlo esplicitamente, stavamo chiedendo ogni volta di contribuire a realizzare una piccola utopia effimera, contingente – costruita nell’immediato praticando una socialità amorevole, costruttiva, trasformativa, creando “legami fatti di interrelazione, di reciprocità, di partecipazione… e vicinanza”. E davvero la scuola finiva per diventare un soggetto collettivo, una rete per esprimere desideri e necessità.
Avevamo cominciato con la premessa femminista di essere situate in corpi di “donne” – un termine tra virgolette, perché donne non si nasce, ma si può diventare – però con il passare del tempo il discorso sul genere ha assunto connotati decisamente postgender e queer, specie in relazione all’identità e alla sessualità. A lungo abbiamo usato l’“intersezionalità” come metodo per leggere contesti “material-semiotici”, incrociando genere, razza, classe, sessualità, abilità, lingue, storie, culture – per poi ridefinire il concetto in termini di “complessità” nell’anno in cui abbiamo lavorato su frattali e soggetti frattalici per discutere meglio di differenze nella somiglianza, di interconnessioni rizomatiche nei processi democratici diffusi (Jamie Heckert).
Dal nostro punto di vista di attiviste e studiose, ci importava molto interrogare l’incrocio di teoria e pratica, ma tenendo ben presente sia la disomogenea situazione socio-culturale delle partecipanti, sia le necessità individuali di parlare di situazioni concrete, di raccontarsi, chiedere ascolto. E doveva esserci spazio di solidarietà per le passioni tristi. Quindi erano e sono previsti incontri e discussioni per piccoli gruppi che poi confluiscono nelle sessioni allargate. Allo stesso tempo era necessario creare l’atmosfera per pensare insieme anche teoricamente e politicamente. Si cercava di farlo contaminando lettura e letteratura, storia, tecnoscienza, geografia, arte – prestando bene attenzione ai processi di trasmissione e apprendimento – un presupposto derivato non tanto dalla pedagogia critica, quanto dai decenni di buone pratiche femministe.
E si prometteva di dare importanza al corpo, chiedendo a tutte di esserne coscienti nel comunicare. Il laboratorio ne avrebbe evidenziato la costruzione normativa e storica, perché – nelle nostre esercitazioni su trasversalità, glocalizzazione, globalizzazione, immigrazione, muri, guerre e non-violenza, oppressione ed emarginazione, il lavoro frantumato e la precarietà, l’assistenza sanitaria che scompare, la scienza che avanza, i beni comuni e il debito pubblico – le biopolitiche dei corpi ci sono sempre, ma è poi compito individuale riflettere sui processi di identificazione, la creazione delle identità, i percorsi di autodeterminazione, autonomia e libertà.
Ogni laboratorio, ogni nostro incontro e ogni edizione della scuola era/è ovviamente impostato su un tema specifico: individualità, agentività ed empowerment, complessità, diversità, figur/azioni, il post-coloniale, teorie dell’affetto, archivi dei sentimenti, studi sulle cose e gli oggetti, e finalmente quest’anno, l’utopia della politica e la politica dell’utopia.

Dissenso e resistenza
Prevedibilmente abbiamo sempre lavorato sull’analisi e decostruzione di dicotomie – specie con Donna Haraway e la sua definizione di natur-cultura, il suo manifesto cyborg, gli umani e non umani delle sue specie-compagne – e con Teresa De Lauretis e Judith Butler per la ricerca dell’altro che è in noi. Ma a ripensarci, mi sembra ci sia stato un mutamento di paradigma quando abbiamo cominciato a occuparci delle teorie dell’affetto, avevamo incontrato nella pedagogia queer di Eve Sedgwick, in particolare nel suo libro sul toccare e sentire. In seguito abbiamo lavorato sull’affetto come impulso vitale, come processo produttivo dei corpi; come sentimento, affettività, passione; come attrattore; come effetto che si/ci crea, che investe e condiziona; che rende desiderabili oggetti e merci; che produce soggetti e relazioni, investimento nelle forme di potere, movimenti positivi o negativi verso l’altro/a: allineamenti, identificazioni, appropriazioni.
Abbiamo quindi continuato a lavorare, seguendo Ann Cvetkovich, sull’archiviazione dei sentimenti nelle culture pubbliche, cercando tracce di alternative nelle storie di solitudine e abbandono; cercando archivi di risposte culturali e politiche di dissenso e resistenza, come per esempio le scritture sul trauma causato da discriminazioni e violenze omofobiche, xenofobe, razziste; nelle narrazioni di migranti, e nei documenti delle diaspore dei neri o degli ebrei.
Questo tema confinava con le nostre proiezioni affettive sugli oggetti e su come gli oggetti costruiscono i soggetti, e poco per volta ci ha condotto prima verso le teorie della non-rappresentazione di Nigel Thrift, poi attraverso Bruno Latour – e tramite Sara Ahmed, Elizabeth Grosz, Karen Barad, Rosi Braidotti e altre – ci sta riportando sul sentiero del postumano e del “più che umano”, verso le agentività aggrovigliate di umano e materia degli studi neo-materialisti; verso un esame degli elementi della temporalità nel cambiamento; verso la queerness del quanto che ci mostra la dis/continuità e il dis/farsi dell’identità nella sua im/possibile trans/formazione; verso il rifiuto dell’antropocentrismo e il riconoscimento di quella che Grosz ha definito “l’interdipendenza reciproca di forze materiali, bioculturali e simboliche nel produrre pratiche socio-politiche” (Grosz).
La nostra scuola estiva si occupa di cultura delle donne ma non è mai stata riservata solo alla donne. Qualche giovane uomo ha partecipato, e molti di più hanno partecipato agli eventi collaterali etichettati come studi queer. Tra questi, Samuele Grassi ha in stampa un saggio sull’anarchismo queer, e seguendo il suo lavoro mi sono resa conto di quanto il nostro Laboratorio dovesse al pensiero libertario di cui anch’io mi ero occupata, senza però aver valutato quanto gli studi lesbofemministi e queer ne fossero partecipi.
In una intervista in rete, la filosofa americana Judith Butler, intervistata dallo studioso post-anarchico Jamie Heckert, dice che l’anarchismo non è una identità, ma un posizionamento, e un movimento discontinuo: una dichiarazione del tutto consona con i principi del queer di cui Butler stessa è stata una maggiore teorica. Mi conforta questo suggerimento di latenza, mi aiuta a pensare ai nostri incontri dove si fa contro-in-formazione, dove anche il corpo diventa strumento di resistenza, e dove si parla di quello che c’è, e di quello che non c’è.

La critica queer alle istituzioni
In questa ultima sezione voglio mostrarvi brevemente dove il nostro queer incontri il pensiero libertario, in particolare il post-anarchismo, ma lo faccio parlando del queer e lasciando a voi possibili connessioni.
Queer, che come sapete in inglese vuol dire strano, fuori luogo, perturbante, è un aggettivo che negli anni ’80 è diventato il termine per designare una corrente dissenziente rispetto al movimento gay e lesbico – e questo prima in ambito anglofono e poi dappertutto. Nelle versioni correnti della sua affermazione negli Stati Uniti, viene di solito cancellato un particolare fondamentale, e cioè che sono state donne chicane e afroamericane ad articolare per prime con questo termine il dissenso rispetto a un movimento “bianco” che le ignorava e discriminava.
Nonostante il movimento queer (nella veste allora dell’associazione internazionale Act Up), abbia lottato duramente contro la discriminante e criminale incuria statale durante l’epidemia di Aids, e nonostante abbia impegnato ogni risorsa disponibile per dare assistenza ai malati, gli studi queer sono stati ripetutamente accusati di fare teoria senza curarsi delle possibili applicazioni politiche, mentre il movimento glt (gay, lesbico, trans), fortemente identitario, combatte invece forme di esclusione omofobiche, e chiede riconoscimento socio-culturale e diritti politici, matrimonio incluso.
Ma sta proprio in questo una fondamentale differenza del queer che è un movimento di opinione rivolto anche a chi si definisce eterosessuale: un movimento impegnato a riorganizzare le soggettività contro e fuori dal processo storico della costruzione delle identità eteronormative che ci governa, riducendo desideri e rapporti complessi all’appartenenza a solo due generi, a categorie identitarie che controllano, limitano e costringono la vita; e dissente quindi da forme di garantismo statale. L’eteronormatività di stato è un dispositivo corredato di apparato ideologico; assegna e impone parametri di genere e sessualità che coprono rapporti sessuali, coabitazione, procreazione, matrimonio, monogamia, distribuzione dei beni e una quantità di altre cose correlate, tra cui l’assegnazione del genere alla nascita e il controllo dell’educazione pubblica e privata.
Dunque la critica queer alle istituzioni e alla rappresentanza politica è estesa e pervasiva, e include azioni anti-identitarie poiché ha lo scopo di cambiare la visione che abbiamo del mondo e di portare a ripensare creativamente la vita – cominciando da noi stessi – senza ricadere in un progressivismo positivo. Un secolo fa Emma Goldman diceva che la vera emancipazione inizia nell’animo. Judith Butler mi sembra dica che possiamo cominciare assumendo una posizione libertaria. Il queer è un posizionamento antagonista su molti piani intrecciati di dissenso e resistenza, perché il gesto, l’operazione del queering (che qui è un verbo) è di decostruire i rapporti di dominio (“la servitù volontaria” di Gustav Landauer) in modo che possiamo dis-impararli. Se vedete scritto che un evento è queer, vi consiglio però di indagare, perché nel libero mercato anche questo termine si può comprare.
Da anni il queer di cui ho parlato non è più soltanto un campo di studi, ci sono reti, associazioni, gruppi, collegamenti che praticano autonomia, solidarietà, mutualismo. L’etica è anti-assimilazionista, ma si coltivano affinità e intersezioni con altre realtà ecologiste, anticapitaliste, anticoloniali, libertarie, pacifiste. Nel post-anarchismo queer di Judith Halberstam dedicato alla maschilità femminile, la resistenza al neoliberismo messa in pratica attraverso la discontinuità e il fallimento è diventata un modello generativo e un’arte, mentre la contro-politica anti-capitalista di “oggetti stupidi” come i personaggi anarchici dei cartoni animati, Shreck, Babe, Nemo, ci indirizza verso immagini alternative positive.

Liana Borghi

 

Una società, uno spazio propriamente umano o piuttosto umanizzato; una creazione che è parte della creazione propriamente umana, che prima ancora che in opere d’arte e di pensiero, consiste in una società dove tali opere possono nascere e vivere. Uno spazio dunque, diremmo, poetico,
Maria Zambrano,
“Per l’amore e per la libertà”
(a proposito dell’aula scolastica)

1 Notizie relative alla scuola in questione si possono trovare sul sito interculturadigenere.eu

 


http://www.leswiki.it/repository/testi/2014borghi-prospettive-libertarie-queer-scuola-estiva.pdf