Ambarabà ciccì coccò

Ambarabà ciccì coccò. Filastrocca italiana

Secondo il linguista italiano Vermondo Brugnatelli (2003) in base alla fonetica storica dell’italiano il primo verso potrebbe risalire ad epoca latina come “HANC PARA AB HAC QUIDQUID QUODQUOD”. Trattandosi di una “conta”, il senso doveva essere, a un dipresso, “ripara questa (mano) da quest’altra (che fa la conta)” [da Wikipedia].

Molti hanno cercato di sciogliere l’enigma e di trovarne il significato. Ma è così semplice, no? Recentemente si è tentato di ribaltarne il senso, facendo circolare che nella filastrocca originale le civette facevano “timore” alla figlia del dottore.

«Ambarabà ciccì coccò
tre civette sul comò
che facevano l’amore
con la figlia del dottore;
il dottore si ammalò
ambarabà ciccì coccò!»


Umberto Eco, in Secondo diario minimo, 1992 scrive un divertente falso saggio sulla variante con “ma la mamma le chiamò”

Ambarabà cicci coccò,
tre civette sul comò
che facevano l’amore
con la figlia del dottore.
Ma la mamma le chiamò…
Ambarabà ciccì coccò

[…] Tornando al testo italiano originale, il problema che ha travagliato la critica è certamente quello della sua datazione. Benché le allitterazioni del primo e dell’ultimo verso abbiano tempo fa inclinato il Vossler a citare riverberi della letteratura protolatina, massime il Carmen Fratrum Arvalium, è certo che la sestina non può essere datata prima della fondazione dell’università di Bologna, dato che non si vedrebbe come la ragazza potrebbe essere altrimenti designata come figlia di dottore.

E pur vero che nel suo splendido studio sulle varianti del carme il Contini ha messo in luce che in un manoscritto più antico il terzo verso non dice “che facevano l’amore” bensì “che facevano l’errore”, dove – se la connotazione sessuale del crimen non viene per nulla attutita, e anzi è rinforzata dall’allusione sottilmente moralistica – non è chi non veda come solo nella versione successiva, sostituendo amore a errore, l’Anonimo abbia realizzato la mirabile paronomasia con il chiamo del quinto verso, creando un’antitesi metaplastica (feconda di esiti metasememici, anche a livello di strutture attanziali) tra l’amore ansioso e protettivo della madre e l’amore possessivo e sconsiderato delle civette.

Delle civette o della fanciulla, come notava il Fornari, dappoiché non è chiaro di chi sia la madre che chiama. Sarebbe ovvio che fosse la madre preoccupata della fanciulla, ma allora perché mai, come nota acutamente l’Agosti, costei dovrebbe chiamare le civette e non la figlia propria, a meno che tutti i legami familiari, nonché le stesse caratteristiche sessuali degli attori del dramma, non siano assai meno evidenti di quanto non appaia a una prima e distratta lettura.

In ogni caso, e per tornare al problema della datazione, il carme non pare anteriore all’undicesimo secolo dell’era volgare, e forse è ben più tardo se, come notava il Le Goff, “il comò fa il suo ingresso nella pratica e nella filosofia dell’arredamento con il declino di una economia fondiaria e con l’affermarsi di una classe contadina di piccoli proprietari, non ancora completamente affrancati, ma in ogni caso sottratti alle condizioni di vita dei servi della gleba. E verso il diciottesimo secolo, infine, che nelle Ardenne invalse l’uso di fare all’amore sul comò invece che sul pagliericcio, anche perché sul comò c’è di solito uno specchio”.

Che peraltro la scena quasi primaria dell’amplesso delle civette, come la definisce Marie Bonaparte, non possa svolgersi che in ambiente contadino è congettura elementare, dato che non si vede come un simile addensamento di civette potesse darsi in ambiente urbano.

[…]

In ogni caso, per una mirabile analisi strutturale della sestina, rimane insuperato il magistrale Les Chouettes di Jakobson e Lévi-Strauss, dove anzitutto si mette in luce come i primi due ottonari presentino esseri infraumani (le civette e il comò) mentre i due seguenti presentano esseri umani, e parimenti nel primo e nel terzo ottonario sono in scena dei soggetti, e nel secondo e nel quarto delle azioni. Questa portentosa simmetria semantica è rinforzata, con splendido parallelismo, da uno straordinario gioco di opposizioni fonologiche. Nella prima metà del quinario doppio l’allitterazione si svolge su di una occlusiva momentanea esplosiva bilabiale grave sonora, mentre nella seconda meta si ha una opposizione tra due coppie di dorsali sorde, dove la prima coppia allitterante è di affricate semiocclusive palatali stridule e la seconda di occlusive momentanee esplosive velari gravi compatte.

[…]

Richiamate in causa dagli anaforici/che/ (terzo verso) e/le/ (quinto verso), le civette dominano tuttavia il poema: uccelli di Minerva, essi sono indubbiamente un travestimento dei “savants austères” e al tempo stesso, in quanto soggetti di un amplesso, “les amoureux fervents” di Baudelaire: da cui l’identificazione della fanciulla amata con un gatto, “orgueil de la maison” in quanto esposto sul comò e “comme eux sédentaire… amie de la science (il dottore) et de la volupté (l’amore)”. Dall’analisi di Jakobson e di Lévi-Strauss è estranea (e non poteva essere altrimenti in quell’infausto periodo di osservanza paleostrutturalistica) la dialettica del desiderio. Essa s’instaura invece trionfalmente nella storia critica di questo carme col famosissimo Séminaire XXXV di Jacques Lacan.

Come è noto, all’inizio di quel seminario il dottor Lacan (di chi era la figlia sul comò?) aveva ritirato gli elefanti precedentemente distribuiti alla fine del Séminaire I e aveva consegnato ai partecipanti delle piccole civette, asserendo che fossero meglio allogabili sul comò che non gli elefanti. Quindi aveva notato come sopra il comò appaia di norma uno specchio: ma (e questo è certamente il colpo di genio di questo seminario), mentre i discepoli appuntavano la loro attenzione su questo abusatissimo parafernale, il dottor Lacan, con una chiara indicazione di metodo, riconosceva nel comò un tipico mobile a cassetti e inaugurava la sua nuova teoria dello stade du tiroir. Il cassetto è infatti il luogo del rimosso e il carme appariva a Lacan come l’allegoria stessa della Urverdrängung, mentre l’azione pulsionale delle civette, solo apparentemente ispirata dal desiderio, si rivelava come un travestimento, neppur troppo implicito, del Bemächtigungstrieb, ovvero, come chiariva lo stesso Lacan nel suo limpidissimo francese, di una Überwältigung della fanciulla oggetto.
[…]
I limiti di questo nostro saggio ci impediscono di prendere in considerazione altri e innumerevoli contributi critici all’appassionante problema delle civette. Basti terminare, per ora, col recente saggio di Emanuele Severino in cui, con lucido senso del Destino, e con ben maggiore pregnanza e profondità di quanto non accada nell’applicare gli stanchi metodi di ogni strutturalismo o formalismo, si indica nelle civette che esercitano la loro volontà di dominio sulla figlia del dottore l’essenza stessa e la vocazione dell’Occidente.

Solo l’arrivo della madre interrompe la volontà di potenza delle civette e si pone come negazione del nichilismo dell’essenza dell’Occidente, richiamo al “secondo corsiero” e alla “volontà del Destino”. Per accettare la quale le civette dovranno necessariamente capire che solo rinunciando al dominio del mondo esse potranno comprendere la falsità dell’asserto secondo cui non sia vero che non è vero che l’ente sia niente. Il voluto è impossibile e il senso della verità è eternamente ciò che la volontà non riesce e non potrà mai riuscire a essere. Così l’Ambarabà iniziale e l’Ambarabà finale sanciscono, scansione di un eterno ritorno, la nullità del divenire come irruzione dell’inaudito. E la madre non fa che rendere evidente quanto fosse prevedibile l’imprevedibile a chi avesse e nutrisse volontà di anticipare, ante-capere, pre-catturare le civette e la loro sconfitta. Per cui, come all’inizio, sempre e di nuovo Ambarabà. L’intero è immutabile.

Sia concesso, al cronista di questa avventura critica, là dove la cronaca non sia tautologia del fattuale, ma interrogazione e deriva, arrestarsi a questo punto; condizione suprema (l’arresto interrogativo) perché si possa andare oltre, e nell’andare ricongiungersi all’origine, e nel dire non dire, e nel non dire consistere e restare nell’identità del diverso. Là dove (le civette hanno parlato per noi, o noi per esse, e/o il linguaggio per entrambi, o il silenzio per la parola) nessuna voce potrà più tacersi nella piena effabilità del proprio vuoto. Questo, e non altro, chiede a noi la Poesia.