1240, Cielo d’Alcamo – Rosa fresca aulentissima

Cielo d’Alcamo,  tra il 1231 e il 1250 circa, «Rosa fresca aulentissima»

[div class=”doc” class2=”typo-icon”]La “rosa fresca aulentissima” è la Madonna a cui si rivolge l’Amante nel “contrasto”, ovvero in quella forma di composizione caratterizzata dal dialogo a botta e risposta fra due personaggi; in questo caso tra l’uomo che fa profferte d’amore e la ragazza che le rifiuta, fino al penultimo verso dei 160 del contrasto.

Il testo qui utilizzato è quello pubblicato da Gianfranco Contini (a cura di), Poeti del Duecento (vol. II de La letteratura italiana. Storia e testi), Milano-Napoli, Ricciardi, 1960, tomo I, pp. 173-185, traduzioni esplicative di Alessandro Santini; è  allo http://www.emt.it/uroboro/bcu/cielodal.html

Vedi anche Giuseppe Bonghi allo http://www.classicitaliani.it/index006.htm[/div]

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«Rosa fresca aulentis[s]ima ch’apari inver’ la state,
le donne ti disiano, pulzell’e maritate:
tràgemi d’este focora, se t’este a bolontate;
per te non ajo abento notte e dia,
penzando pur di voi, madonna mia».
[…]

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«Rosa fresca profumatissima che appari verso estate,
le donne ti desiderano, giovani e maritate:
traimi da questi fuochi, se è tua volontà.
Per te non ho pace notte e giorno,
pensando sempre a voi, mia Signora».

[…]

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[div class=”doc” class2=”typo-icon”]Qui sotto un estratto del saggio di Giovanni M. Riccci, «L’interpretazione rimossa. I primi due versi del “Contrasto” di Cielo d’Alcamo», pubblicato da Edizioni Gazebo, Firenze, 1999 e online sul sito Uroboro http://users.libero.it/emt/ricci.html[/div]

… resta ad ogni modo il fatto che nel testo di Bonagiunta sussiste, senza alcuna ombra di dubbio, un riferimento alla potenziale bisessualità femminile. Ci si può chiedere allora quanto queste immagini poetiche corrispondano ad una realtà esterna di quell’epoca: la documentazione storica non è di semplice acquisizione ed è soprattutto relativa alla situazione francese grazie agli importanti studi di Georges Duby e della sua scuola. Tuttavia, essendo le dinamiche socioculturali nel corso del Medioevo sostanzialmente analoghe in tutta Europa, quanto si sa dell’àmbito francese può in buona misura applicarsi a quello italiano. In particolare è utilissimo ai nostri fini uno studio di Duby pubblicato in Francia nel 1996 (Dames du XIIe siècle. Ève et les prêtres, Paris, Gallimard) e con meritoria rapidità tradotto in Italia col titolo I peccati delle donne nel Medioevo.62

Lo storico francese attesta che dell’esistenza di casi di bisessualità femminile nel Medioevo si trova testimonianza in alcuni trattati ecclesiastici, opere scritte ovviamente da uomini e generate in un’istituzione per la quale la donna era costitutivamente lussuriosa: ciò non toglie che i ‘peccati’ sessuali di cui quei trattati parlano è da pensare non siano frutto dell’immaginazione dei loro autori. Già poco oltre l’anno 1000, il giureconsulto e canonista tedesco Burcardo, vescovo di Worms, nelle fredde pagine del suo Decretum (1007-1012) – e in particolare nel capitolo XIX che, col titolo Corrector o Medicus, circolò più dell’insieme del trattato – affermava l’idea, comunque non nuova, d’una specifica vocazione femminile alla lussuria. D’altra parte, per Burcardo, la donna è quasi sempre passiva rispetto all’uomo nelle pratiche sessuali, per cui ella è fortemente peccatrice in quest’àmbito o nei rarissimi casi in cui prende l’iniziativa o quando s’impegna in atti illeciti ove l’uomo non è coinvolto: è il caso di quei piaceri che le donne “si prendono lontano dagli uomini, nel segreto della camera delle dame”,63 fra cui ovviamente i giochi erotici che esse possono fare tra loro.

È un’epoca in cui le donne si sposano giovanissime con un uomo scelto dalla famiglia cui devono obbedienza: si intravede così, nelle severe parole di Burcardo, l’esistenza d’una solidarietà femminile che certo può esprimersi anche in termini sessuali. Il Decretum – che, essendo una raccolta di canoni ecclesiastici, non si occupa ovviamente solo di sessualità – elenca, per ogni peccato, le pene pubbliche che l’autorità religiosa doveva infliggere e non è senza significato che, a parità di colpa, siano più pesanti le sanzioni per le donne di quelle per gli uomini: pochi giorni di penitenza per un uomo che ne abbia accarezzato un altro ma – come ricorda Duby – “da tre a cinque anni di lamentazioni pubbliche, di digiuni, di penosissime astinenze per riscattare il peccato delle lesbiche o di quelle scervellate che sognano di cavalcare nella notte in compagnia delle diavolesse”.64

Come ben rileva lo storico francese, “alle soglie del secondo millennio, all’epoca in cui lavorava Burcardo di Worms (…) la Chiesa decise di porre sotto il più stretto controllo la sessualità: essa era allora dominata dallo spirito monastico (…). La Chiesa divise (…) gli uomini in due gruppi. Ai servitori di Dio vietò l’uso del sesso, lo permise agli altri, alle condizioni draconiane che essa dettava. Rimanevano le donne, il pericolo, perché tutto ruotava intorno ad esse. La Chiesa decise di assoggettarle, e a questo scopo definì chiaramente i peccati dei quali le donne, per il loro temperamento, si rendevano colpevoli”.65 Il Decretum era dunque un’arma con cui il potere maschile si difendeva.

Nel secolo successivo, si diffonde però nell’alta società l’amore cortese che prevede l’attivarsi del desiderio anche nella donna, rivolto non al marito ma all’amante per il quale – al fine di incrementarne la passione e l’eccitazione – ella impara a curare di più il proprio aspetto fisico.66 Non sorprende dunque il divertimento con cui il vescovo Stefano di Fougères, nel suo lungo poema in latino, destinato all’ambiente di corte, Livre des manières (1174-1178), parla dei rapporti lesbici, il peccato “contro natura”, 67 il nuovo “gioco che hanno trovato le dame” 68 impegnandovisi assai volentieri. Si potrebbe sospettare che il vescovo, nel suo mixing fra reprimenda morale e godimento perverso, un po’ esageri ma, come osserva Duby, egli “molto ben introdotto nell’ambiente cortese (…) parla certamente di esperienze vissute “.69

Come ho detto, il celiare di Stefano di Fougères non muta l’atteggiamento dell’istituzione ecclesiastica verso la donna e le sue colpe: anche nel Livre des manières le donne sono rappresentate come sessualmente incontenibili e il lesbismo, nel sottrarle alle regole del microcosmo coniugale, è ovviamente giudicato il più grave fra i molti peccati che la lussuria femminile genera. Come il lettore avrà notato non ho usato fin qui il termine “omosessuale” (inteso in senso stretto): non lo sono, in genere, le donne di cui parlano i trattati ecclesiastici che sono sposate (né è ragionevole pensare che, pur non avendo spesso scelto il proprio sposo, in maggioranza odiassero le prestazioni coniugali) e magari hanno anche un amante, e che tuttavia – non dico tutte, non dico di sovente – non disdegnano giochi erotici con le loro amiche; non lo sono le fanciulle e le donne sposate che si sentono attratte da una donna in Cielo e in Bonagiunta: è la bellezza di lei che è complimentosamente giudicata tale da attrarre anche le altre donne.

È giunto infatti il momento di chiarire che quando parlo di potenziale bisessualità femminile cui alludono i testi di Cielo e di Bonagiunta, non mi riferisco a una sia pur minimale anticipazione della tradizionale e scientificamente discutibile teoria psicoanalitica della bisessualità, ma alla più semplice e lineare considerazione che – almeno secondo Cielo, Bonagiunta e molti altri e altre – una ragazza molto bella può attivare desideri anche in soggetti femminili usualmente eterosessuali. Certo Cielo o, più precisamente, il suo personaggio maschile (che tuttavia gioca alla parte del corteggiator cortese) e Bonagiunta sono assolutisti: a sentir loro qualunque altra donna è destinata a innamorarsi della loro amata (o almeno a desiderarla), 70 mentre nel mondo reale le cose non sono mai così automatiche neanche fra uomo e donna (o viceversa).

Naturalmente il prof. Gustav von Aschenbach aggiungerebbe che forse il meccanismo vale anche per gli uomini – almeno, a lui è capitato – quando vedano per esempio il suo Tadzio, certo non tutti gli uomini (e questa è già una delimitazione) ma quanti sappiano cogliere la Bellezza nel suo apparire fenomenico: la questione andrebbe posta al personaggio di Cielo (o direttamente a quest’ultimo) e a Bonagiunta che però, probabilmente, risponderebbero a male parole; io – pur con tutto il rispetto per l’esaltato e dolente professore ed esprimendo una posizione che non aspira al rango di necessaria norma comune – so di me stesso che, alla vista di Tadzio e della sua famiglia, mi sarei interessato alle sue “monacali”71 sorelle (intendo quelle cui allude, un po’ schifiltosamente, Mann e non certo la bambina, la bambinona e la bambinuccia del celeberrimo film di Visconti) o magari a sua madre se avesse avuto lo stesso aspetto della viscontiana Silvana Mangano. Ma torniamo ai testi medievali.

Giacomo di Vitry, alla fine della sua raccolta di sermoni pubblicata nel 1226, ha posto quelli rivolti agli sposi. La donna non deve rifiutarsi al marito ma – e questa è una novità – neppure deve “credere di essere tenuta a dissimulare il proprio desiderio”72; ed il marito non deve farle violenza “credendola sempre sottomessa al suo piacere”.73 Inoltre, sorprendentemente, Giacomo di Vitry, a proposito dei casi in cui una donna non riesce a contenere il proprio desiderio sessuale, scrive: “se la dama può liberarsi diversamente senza scandalizzare il marito, essa non deve dirglielo. Ci sono molte cose che i mariti non devono sapere – visto che hanno un’eccessiva tendenza a disprezzare le donne – e delle quali non si può parlare dal pulpito”.74 Duby osserva che “si nota qui il prete ben informato per mestiere e perché forse, dopo due secoli, sono arrivate fino a lui le parole del Medicus a proposito dei rimedi che le donne usano talvolta tra loro per calmarsi; non si sa se la sua sia indulgenza o disprezzo, in ogni caso il tono è discreto”. 75 A me pare si tratti d’indulgenza, come penso sia dimostrato dall’asserzione d’una liceità di non dire tutto al marito e dal giudizio negativo sul disprezzo degli uomini verso le donne. Il fatto è che fin dall’ultimo ventennio del dodicesimo secolo, la posizione delle donne “fu in parte rivalutata, (…) gli uomini si abituarono a trattarle come persone, a discutere con loro, ad allargare il campo delle loro libertà”.76 Questo spiega, credo, come anche qualche ecclesiastico possa essere stato un po’ più tollerante dei suoi predecessori, addirittura – è il caso di Giacomo di Vitry – non sanzionando, purché non diano scandalo al marito, certi comportamenti femminili sessualmente trasgressivi77.

Dunque, anche all’esame della macrocultura in cui sono stati prodotti, cioè quella europea del ‘200, i vv. 1-2 del Contrasto risultano congruenti con [l’ipotesi] H3. Essi e, ovviamente, i vv. 25-27 della ballata di Bonagiunta Orbicciani implicano insomma una ‘teoria’ della potenziale bisessualità femminile che molto piacerebbe, per citare un personaggio dell’odierna fiction letteraria (prima ancora che filmica), alla Emmanuelle (o ad altre meno note fanciulle) di Emmanuelle Arsan. O, per non debordare dai confini dell’epoca di Cielo e di Bonagiunta, alle bisessuali signorine e signore (Aélis, Isabelle, la Signora di Montpellier) dell’Escoufle (1200-1202) di Jean Renart.78

NOTE:
62) G. Duby, I peccati delle donne nel Medioevo, tr. it., Roma-Bari, Laterza, 1997.
63) Burcardo di Worms, Medicus, cit. in G. Duby, op. cit., p. 15.
64) G. Duby, op. cit., p. 27.
65) op. cit., pp. 28-29.
66) Cfr. op. cit., p. 30.
67) Stefano di Fougères, Livre des manières, cit. in G. Duby, op. cit., p. 9.
68) ibid.
69) G. Duby, op. cit., p. 10.
70) Quest’asserzione, insolita nella poesia dell’epoca, è tuttavia convenzionale per l’enfasi con cui si sottolinea la bellezza dell’oggetto amato.
71) La definizione ricorre più volte in Thomas Mann, naturalmente in Morte a Venezia.
72) Cit. in G. Duby, op. cit., p. 86.
73) ibid.
74) Cit. in op. cit., pp. 86-87.
75) G. Duby, ibid.
76) op. cit., p. 140.
77) Non sorprende pertanto che, nello Statuto sinodale della diocesi di Cambrai (1300-1310), l’omosessualità femminile fosse ritenuta un peccato “contro natura” come quella maschile ma di gravità inferiore: cfr. Jean-Louis Flandrin, Le sexe et l’occident, Paris, Seuil, 1981, pp. 114-115 (tr. it. Il sesso e l’occidente, Milano, Mondadori, 1983, p. 112). Su questa tematica, ma in relazione a un periodo anteriore a quello da me considerato, e cioè ai primi secoli dell’era cristiana, cfr. lo specifico e documentatissimo studio di Bernadette J. Brooten: Love Between Women. Early Christian Responses to Female Homoeroticism, Chicago-London, The University of Chicago Press, 1996.
78) Cfr. Jean Renart, L’Escoufle. Roman d’aventure, a cura di Franklin Sweetser, Droz, Genève, 1974. Delle tre opere attribuibili con quasi assoluta certezza a Renart – due romanzi (il Roman de la rose ou de Guillaume de Dole, 1228 ca., e appunto L’Escoufle [Il nibbio]) e un racconto lungo (Le lai de 1’ombre, 1217-1222, l’unico suo testo in cui sia menzionato, al v. 953, il nome dell’autore) – solo quest’ultimo è stato integralmente tradotto in italiano: J. Renart, L’immagine riflessa, a cura di Alberto Limentani, Einaudi, Torino, 1970. Nel 1912, in una collana di “testi romanzi per uso delle scuole”, diretta da Ernesto Monaci, era uscito un breve ma ben fatto e non pudibondo riassunto con brani scelti del Roman de la rose ou de Guillaume de Dole (a cura di Vincenzo De Angelis, Roma, Loescher).

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