Cristina Gramolini: il grande sogno lesbico
Intervista di Michela Pagarini, dicembre 2010.
Insegnante, militante, pasionaria: dal Laboratorio di Critica Lesbica ad Arcilesbica nazionale, vent’anni di attivismo – teoria e pratica – all’inseguimento di un grande sogno, quello di un mondo migliore a misura di lesbica
Chi eri prima di diventare “Cristina Gramolini, Lesbica nazionale”?
Sono nata nel 1963 a Fano, oggi ho 47 anni e sono quindi una lesbica di provincia. Sono arrivata al movimento abbastanza tardi, nell’89, avevo 26 anni e mi sentivo già strutturata: avevo fatto parte dei movimenti studenteschi, mi ero interessata alla politica, studiavo, frequentavo gli ambienti della sinistra locale, sapevo di essere lesbica ma la ritenevo una questione privata. Non avevo messo in conto di poter fare parte del movimento, nemmeno sapevo che esistesse: certo avevo sentito parlare del movimento gay, ma non mi era mai passato per la mente che potesse essere un luogo in cui io avrei potuto militare, né che ci fosse un corrispettivo lesbico. La scoperta è stata abbastanza casuale: la donna con cui stavo aveva letto su una pagina del Paese delle Donne che il CLI organizzava una vacanza all’isola d’Elba e mi aveva proposto di andarci. Io per la verità ero abbastanza riluttante, mi chiedevo chi fossero queste lesbiche e che bisogno ci fosse di incontrarle, ma alla fine, seppur recalcitrante, ci sono andata.
Come è stata quella vacanza?
Quando sono arrivata, vedendo tutte quelle donne di ogni età e ascoltando i loro discorsi al mare e a tavola, ho capito che non era una semplice vacanza. Si sentiva che avevano un vissuto politico, chec’era un tessuto di collettivi e attività, parlavano degli ultimi convegni a cui avevano partecipato e mi rendevo conto che c’era un altro mondo di cui ignoravo tutto. Ho sentito subito che mi interessava, che volevo capire. Come lesbica fino a quel momento avevo vissuto abbastanza tranquillamente: dal primo innamoramento, ricambiato, non ho mai tentato di essere eterosessuale, ma avevo capito che avrei dovuto rimanere nascosta e questo implicava vivere le mie relazioni con una certa sofferenza, perché questi amori partivano con i migliori auspici ma poi sorgeva sempre qualche complicazione che toglieva serenità. Nel tempo ho cominciato a interpretare questa dinamica ricorrente come causata dal fatto che il lesbismo era vietato, era una condizione che screditava chi lo viveva, per la quale si veniva additate. Credo che il mio orientamento sessuale fosse facile da indovinare, ma la differenza fra saperlo immaginato e dichiararlo è grande: io mi ero abituata a non parlare di questo argomento, a essere sempre un po’ sorvegliata e pensavo che quello fosse un modo di vivere accettabile.
Quando ho visto tutte quelle donne all’Elba ho cominciato a farmi molte domande e proprio lì ho iniziato un cammino: non è stato un percorso lento, è stata una specie di impennata. Mi sono guardata indietro e ho visto che vivevo all’insegna di compromessi, non parlavo con i miei genitori, neanche con i compagni dell’epoca, era il gioco del “sapere senza dire”. In quel periodo avevo un amore, per me molto importante, che era sofferente perchè guastato dalla sua clandestinità e mi sono resa conto che quello che danneggiava il nostro rapporto non dipendeva solo da noi, ma dalla morale pubblica. Quando ho conosciuto la realtà dei collettivi lesbici ero pronta a fare questo semplice collegamento, mi sono chiesta se quello che avevo era davvero accettabile e mi sono risposta che no, non lo era.
A settembre sono tornata a Fano e già in dicembre ero in Sicilia perchè avevo saputo che lì c’era un convegno. La mia compagna non è voluta venire, ma io a quel punto ero già partita, avevo trovato il passaggio nell’altra dimensione.
Chi c’era in quel periodo sulla scena lesbica pubblica?
La vacanza all’Elba era stata organizzata dal CLI, un gruppo molto importante per il movimento, che pubblicava un bollettino e faceva da collegamento fra tutte le lesbiche italiane. L’appuntamento in Sicilia invece era stato organizzato da un intergruppo, le Amanti, gruppo di riflessione che faceva capo a Sandra de Perini, e poi c’erano alcune donne di Firenze e altre di Bologna, città che ho poi frequentato perché lì mi sono trasferita (affittando una stanza da una delle donne conosciute all’Elba) per scrivere la tesi.
Nel 1990 si è avviata la preparazione della Prima Settimana Lesbica che si è poi celebrata nel 1991: pensa a come è cambiata la mia vita che da Fano mi sono ritrovata in una città dove si organizzava una festa lesbica al mese e dove c’erano gli eventi del Cassero, le riunioni preparatorie della Prima Settimana, i vari appuntamenti a Roma e in Sicilia. E poi c’erano le donne: questo arcipelago di attiviste che scrivevano articoli e libri – a quel tempo c’era la Estro, la casa editrice lesbica -, un’intera rete che prima non era stata accessibile per me, per quanto mi interessassi di politica. Insomma dopo quella vacanza mi sono buttata a capofitto, e mi chiedevo spesso cosa avrei fatto se non fossi andata a quella vacanza, quanto ci avrei messo a rendermi conto dell’esistenza di tutto ciò.
Come erano i convegni di quel periodo?
Qualche volta ci andavo, la mia compagna che però non condivideva il mio stato d’animo, non vedeva quello che avevo visto io e non ci trovava niente di così esaltante, così spesso ci andavo da sola. All’epoca ricordo che il movimento era piuttosto impegnato in questioni teoriche, anche durante la Prima Settimana ci sono stati parecchi incontri su questioni che riguardavano il senso del lesbismo, il rapporto con le donne eterosessuali, il nostro sentirci parte o meno del mondo delle donne; erano questioni culturali, non c’era ancora nessuna proiezione esterna della visibilità. La parola cominciava a circolare, ma ancora non aveva l’importanza che ha preso più tardi. La mia impressione era quella di essere stata assorbita da una comunità invisibile, che prima nemmeno io conoscevo e poi avevo visto e nella quale ero entrata ma questo non significava che altre vedessero noi.
E quando sei passata dalla platea al palco?
Alla Prima Settimana, insieme ad altre due giovani universitarie, abbiamo fatto una lettura commentata di un saggio di Monique Wittig, The straight mind che già allora era un po’ datato (1978, ma pubblicato in Italia nel 1990 n.d.r.) ma che ci aveva tanto catturate con la famosa dichiarazione per molte così scioccante “le lesbiche non sono donne”. Quell’articolo di fatto delineava un’identità lesbica diversa da quella delle altre donne, avevamo passato i mesi precedenti a leggerlo e commentarlo e durante la Settimana abbiamo provato ad articolare un discorso passando attraverso le parole di questa lesbica più grande che tanto ci avevano catturate. Quelli erano gli anni in cui imperava il pensiero della differenza sessuale, che pur non avendo molto gradimento nel movimento lesbico, faceva parte del linguaggio comune del femminismo, e infatti anche nelle Amanti ci si misurava con questa filosofia. Noi invece avevamo voluto orientarci su un’affermazione del soggetto lesbica che non emanasse dal soggetto donna. Erano i primi tentativi di dire qualcosa di noi stesse, spero quindi nella comprensione di chi legge oggi le nostre parole di allora!
Com’è stato prendere la parola a trent’anni in quel contesto?
L’emozione c’era, ma ci eravamo preparate per mesi, e poi eravamo tre coetanee e ci davamo supporto reciproco. Dopo la Settimana sono stati pubblicati gli Atti e ricordo che la curatrice ci chiese se volevamo che il nostro nome venisse riportato per intero oppure no, e in due abbiamo risposto di sì, perché già sentivamo che si doveva assumere la responsabilità del dire. Io non ero molto coraggiosa, avevo paura ma pensavo: “pazienza, bisogna metterlo, che senso ha proclamare che le lesbiche non sono donne e poi nascondere chi lo dice?”
Pensavo che Monique Wittig non ci avrebbe approvate.
Questo mio sentire si è ripetuto spesso, non è che io sia sempre stata gioiosa di fare coming out: lo facevo perchè lo ritenevo necessario, subito dopo ero soddisfatta e certo mi ha resa più libera, ma ogni volta che arrivava il momento di uscire dall’ombra per andare in piena luce bisognava raccogliere le forze, o almeno per me è sempre stato necessario fare prima un bel respiro. Non è mai stata una passeggiata, né in famiglia né al lavoro.
Coming out da insegnante: com’è andata?
Era il 1994, mi ero trasferita a Milano e facevo ancora la supplente e l’otto febbraio il Parlamento europeo si è pronunciato raccomandando agli stati membri di legiferare per equiparare la posizione dei cittadini omosessuali a quella degli eterosessuali: non era il primo atto di questo tipo, ma in quel caso la notizia è arrivata all’attenzione di pubblico e media. Come tutti l’avevo sentita la sera prima in tv e la mattina dopo, quando sono entrata in classe, ho trovato i miei studenti che si accapigliavano su questo argomento. Ho cominciato a firmare il registro augurandomi che finissero presto il dibattito, invece a un certo punto è arrivata la temuta domanda: “lei prof cosa ne pensa?”. Ho avuto qualche secondo di esitazione, poi ho pensato “com’è possibile che io il pomeriggio e la sera alle riunioni dica certe cose, ai convegni sottoscriva determinate posizioni politiche e poi al momento della verifica faccia finta di essere un’insegnante alternativa sì, ma eterosessuale?”. E così, di nuovo, ho fatto un bel respiro e ho risposto che ero d’accordo perché la cosa mi riguardava personalmente.
L’ansia non è durata soltanto il tempo di dirlo: i miei studenti erano liceali minorenni e io ero una precaria senza una rete di supporto. Tornando a casa ero preoccupatissima e mi immaginavo che il giorno dopo sarei stata convocata dal preside, la sera mi sono preparata ad affrontare il colloquio e una folla di genitori inferociti, ma il mattino dopo nessuno mi aspettava e nemmeno i successivi.
Essendo una supplente, non è stato un coming out fatto una volta per tutte e in ogni scuola in cui sono stata prima o poi la questione si è riproposta. Certo esiste la possibilità di rispondere con una certa vaghezza, ma l’idea è: se nessuno ci mette mai concretamente la propria persona, gli omosessuali sembreranno sempre dei fantasmi.
E in famiglia?
Quando ho detto a mia madre di essere lesbica non si è mostrata sorpresa, ma certo si è molto afflitta perché la mia verbalizzazione rendeva la questione irrimediabile. Mi viene da ridere se penso che la sua risposta è stata: “va bene Cristina, basta che non lo vai a dire ai quattro venti”… considerando quello che ho fatto dopo!
Tutta questa visibilità non era nei miei piani. Prima di arrivare al movimento mi ero sentita molto vulnerabile per il mio lesbismo, quando ero una studentessa temevo che un mio intervento prima o poi avrebbe scatenato una replica che mi avrebbe colpita proprio su quel punto, temevo di essere attaccata o screditata in quanto lesbica, perciò davvero non avevo messo in conto di farne pubblica professione. Poi però ho anche capito che se non lo dici diventi ricattabile e dichiararsi diventa un modo per sottrarsi al ricatto; per non parlare del fatto che se vuoi fare politica devi sciogliere questo nodo per forza, perchè diventa sempre più una questione pubblica. Nel tempo la paura è passata e oggi sono contenta, nonostante non mi senta invulnerabile -se qualcuno ti vuole danneggiare può sempre cercare di colpirti anche su questo- dirlo mi ha dato una vita molto più libera e mi ha permesso di esprimere quello che avevo da dire con tranquillità.
Come è proseguita la tua vita politica dopo quel primo intervento?
Per avere una Seconda Settimana Lesbica abbiamo dovuto aspettare il 1996. La tradizione dei convegni degli anni Ottanta, ai quali non ho avuto la fortuna di partecipare ma di cui ho letto gli atti, si era interrotta e la formula della settimana lesbica non è stata immediatamente reiterata, per cui per qualche anno ognuna è rimasta nella propria città.
Allora vivevo ancora a Bologna e con le ragazze con cui avevamo tenuto il seminario sulla Wittig abbiamo creato un gruppo che si chiamava “Laboratorio di critica lesbica”. Venendo da studi di filosofia ci piaceva leggere e “scervellarci”, quindi l’idea era di organizzare momenti periodici di riflessione su testi che avessero il lesbismo come focus; questo desiderio non era però condiviso da molte altre, quindi per certi versi non è stato un periodo particolarmente gratificante, ma per me è stato un passaggio molto importante, che mi ha dato una visione più ampia di ciò che ero.
Nel frattempo si cercava di fare il possibile perchè ci fosse un’altra Settimana Lesbica, perchè quella era la nostra pietra di paragone e il nostro desiderio. Nel ‘94 Berlusconi ha vinto le elezioni e questo ci ha molto angosciate, come angosciata era tutta la società italiana democratica, e ci siamo adoperate per incontrarci con altri collettivi lesbici. L’appuntamento, proprio sull’avvento delle destre, si è tenuto a Terra di lei e così abbiamo ripreso i contatti con le lesbiche delle altre città e abbiamo sentito che la voglia di un evento nazionale apparteneva un po’ a tutte.
Parallelamente, anche fra le fila di Arcigay le lesbiche si stavano organizzando: per noi che venivamo dal lesbofemminismo loro erano le non separatiste, quelle che si definivano gay, insomma le pensavamo un po’ come delle giovani con poca consapevolezza di sé, e invece proprio fra loro cresceva una leva di lesbiche agguerrita, che a Bologna, Firenze, Padova organizzava punti di incontro e momenti di confronto. I temi che loro proponevano non mi entusiasmavano molto, mi sembravano un po’ mimetiche perché si occupavano di questioni come il sesso sicuro che a me parevano simmetriche alla politica maschile, però avevano una marcia in più sulla visibilità, e questo gliel’ho riconosciuto sempre e da subito. Queste ragazze infatti, appena di qualche anno più giovani di me, sulla scia di Graziella Bertozzo che oggi è nell’area antagonista ma allora era la vice di Grillini e si era esposta uscendo su giornali di tiratura nazionale, conducevano una politica a viso aperto, fuori dal circuito lesbico protetto.
E proprio durante la Seconda Settimana si è verificata l’intersezione: le separatiste da una parte (dove mi trovavo anch’io) e le non separatiste dall’altra, che nel frattempo avevano cambiato nome diventando Arcilesbica. Questo incontro fra il lesbismo “colto” femminista, radicale (e secondo me appartato) e il lesbismo meno colto, magari meno raffinato, ma pronto ad uscire allo scoperto, non è stato per niente conflittuale, ma anzi molto amorevole. Non so perchè, a volte succede ma è cosa rara; c’era stata spesso competizione fra questi due lesbismi, ma in quel momento no, è stato proprio una specie di abbraccio.
A quel punto io sentivo già che la visibilità era lo scoglio che volevo superare personalmente e politicamente, pensavo fosse una questione urgente anche sul piano generale. Mi piaceva molto la cultura lesbofemminista, la trovavo una cultura di livello molto alto e non accettavo che queste sue buone carte non venissero giocate sulla scena pubblica. Perchè noi non soltanto non andavamo nelle piazze, ma non andavamo nemmeno nei contesti femministi se e quando c’erano, perchè il femminismo era eterosessuale e quindi non ci interessava. Ecco, io avevo la sensazione negativa che la nostra ricchezza non potesse circolare che al nostro interno, e perdipiù eravamo irraggiungibili anche per le lesbiche come ero stata io quando ero a Fano, in provincia e sola. La visibilità di queste giovani mi ha molto attratta, quello che avrei voluto io era che il lesbismo radicale con la sua cultura potesse uscire allo scoperto e arrivare dappertutto. Sai quando si dice l’orgoglio gay? Ecco, io grazie al lesbofemminismo ho scoperto che era molto bello essere lesbica, magari orgoglio non è una gran parola, però quello che prima mi era sembrato un peso che altre non dovevano portare, ora mi sembrava un valore aggiunto. Bisognava dirlo alle altre lesbiche che dovevamo essere contente di quello che siamo, e come si faceva a farlo senza andare fuori? Così ho cominciato a sentirmi con un piede di qua e uno di là.
E come sei arrivata in Arcilesbica?
Io avrei voluto che le due correnti si unissero ma non è stato possibile; quando Arcilesbica si è staccata da Arcigay, ho pensato che fosse un’occasione meravigliosa. Pensavo: abbiamo appena fatto la Seconda Settimana e ci vogliamo tutte molto bene, questa diventa un’associazione solo femminile, possiamo collaborare, loro ci mettono la marcia in più per andare fuori, è il momento! Ho aderito ad Arcilesbica subito e con entusiasmo, però molte dell’ambiente separatista non hanno fatto la stessa scelta, anzi, e quell’idillio di cui parlavo prima è durato poco.
Io però ho fatto quella scelta senza rimpianti e sono contenta, la rifarei ancora. Poi ci ho provato lo stesso a mettere insieme la visibilità con la cultura lesbofemminista, ma certo se fossero venute tutte sarebbe stato meglio.
L’inizio è stata una stagione avvincente, sotto molti punti di vista: quando vuoi provare a comunicare un’esperienza secondo un’ottica lesbofemminista fuori dai soliti giri devi tarare il linguaggio, è completamente diverso parlare in un ambito protetto, e magari stratificare un certo percorso, dal parlare fuori da quell’ambiente; tante volte mi sono trovata a dovermi fermare a pensare a come dovevo dire una certa cosa per farmi capire. I primi anni andavamo nei circoli ex Arcigay a parlare con le donne: la separazione era stata decisa a livello centrale, ma a livello locale non c’erano automatismi, molte donne non volevano separarsi dai gay e molti gay non volevano lasciar andare le donne. Noi facevamo questi pellegrinaggi per spiegare perchè valeva la pena farlo, e ogni volta bisognava trovare un registro per comunicare con chi aveva vissuti completamente diversi e non aveva letto gli stessi testi o dibattuto fino a quel momento come avevamo fatto noi.
E’ stato bello e importante, o almeno lo è stato per me, perché nella mia scala di priorità la comunicabilità a livello massivo viene prima di qualunque anticipazione o avanguardia culturale.
Anche oggi quello che mi preme più di tutto è il cambiamento capillare, non la fuga in avanti di poche. Servono anche quelle che vanno avanti, così magari ci ossigeniamo il cervello leggendole, ma la mia passione non è lì, sta nelle strade, come per i Pride, con la gente che discute, guarda dalle finestre, dai bar, vede, finalmente. A quello di Bari per esempio, nel 2003, il circolo Arcilesbica era appena nato e le donne si sono ritrovate nell’arco di pochi mesi nella città designata per il Pride nazionale. E le stesse che a dicembre dicevano “io però non vengo o al massimo arrivo ma con la parrucca” per mesi hanno lavorato all’organizzazione, e a giugno erano nel corteo senza parrucca, che ballavano sui tetti delle macchine con la faccia al sole. Ecco a me piace questo, che ci posso fare?
15 anni in Arcilesbica: tema libero
In questi 15 anni credo di poter dire che ci siamo mosse parallelamente su due piani: da un lato il militantismo per i diritti e la visibilità, e dall’altro abbiamo cercato di mantenere aperta la riflessione culturale, riproponendo argomenti della nostra formazione e che nel frattempo erano stati sviluppati dagli ambienti più radicali del movimento lgbt.
Alcuni incontri hanno avuto la formula della tre giorni di convegno, a Milano ne abbiamo fatti due, entrambi sulla sessualità, perché all’epoca non tutte lo sanno ma c’è stata una specie di sex war! Anni fa alcune questioni erano meno assodate, e altre molto dibattute, come la presenza delle transessuali m to f negli ambienti solo per donne; nelle Settimane non si era riuscite ad affrontarle fino in fondo e quindi abbiamo voluto riparlare con loro della differenza femminile contesa: loro si rivendicavano come donne, noi avevamo appena finito di dire che non lo eravamo, c’erano implicazioni emotive e politiche notevoli. Poi sono arrivati anche gli F to M, insomma abbiamo provato a mantenere aperta la riflessione sull’identità. C’è stato un periodo in cui erano arrivate da noi alcune mode straniere, come il bondage e l’s/m, ma non intendo nella versione commerciale come possono esserlo ora, era una specie di trasgressione che muoveva dall’interno del mondo lesbico verso l’etica femminista. Si riguardavano i rapporti di sottomissione, dominio eccetera e volevamo parlare di queste correnti. Una cosa che per esempio avevo mal sopportato nell’ambiente lesbofemminista è che si ospitassero solo gli interventi che confermavano il proprio posizionamento, invece in Arcilesbica ci siamo mosse altrimenti, vogliamo sentire cosa dicono gli altri o le altre e discutere. Anche con il femminismo della differenza alla fine ci siamo confrontate, senza peraltro divenire a nessun accordo, però Luisa Muraro è venuta a un convegno Arcilesbica a Bologna. Magari qualcuno storcerà il naso, ma noi ci siamo confrontate e ognuna delle due realtà ha preso atto dell’esistenza dell’altra. E poi alla fine la negazione non mi sembra nemmeno tanto culturale.
Naturalmente abbiamo fatto anche convegni su altre tematiche, e per un po’ abbiamo avuto una rivista, Towanda!, che per una serie è stata di fatto collegata ad Arcilesbica. Siccome uscivano dei numeri monografici, contemporaneamente alla pubblicazione organizzavamo incontri a tema nelle città, e poi Soggettiva che è nata a Bologna, insomma nemmeno mi ricordo tutto quello che abbiamo fatto, ma la storia è raccolta in un saggio che riassume un po’ tutta la vita e l’attività dell’associazione e che sta all’interno di “Il movimento delle lesbiche in Italia” (2008).
L’altro terreno è stato quello della lotta dei diritti, che noi abbiamo fatto anche da sole, i primi anni senza Arcigay, all’inizio sulla maternità indipendente che allora era un’idea, oggi ampiamente superata dalla realtà dei fatti; dopo il World Pride i diritti civili e il riconoscimento delle coppie sono stati una questione che si è imposta e noi ne abbiamo preso atto. Non si può decidere qual è la battaglia reale, tranne nel caso in cui ci si voglia autoemarginare: la società italiana discute di una cosa e tu ti collochi in quella e lì discuti, questo è il mio principio di realtà. L’associazione di cui faccio parte vista dall’esterno è forse un’associazione che non appare molto radicale, eppure io trovo molto radicale avere un contatto con la realtà e all’interno di questa voler produrre un cambiamento, lo trovo più ambizioso che negare i fatti e fantasticare altri cambiamenti. Ma forse questi sono massimi sistemi.
La passione della realtà mi è rimasta da quando ero giovane, non mi interessa vagheggiare un altro mondo, vorrei che cambiasse questo, possibilmente non solo in piccole isole ma nella dimensione più grande possibile. E’ stata e continua a essere una battaglia molto bella.
Con chi lavori?
A Milano siamo una decina fisse più altre che collaborano meno stabilmente; nella segreteria nazionale su singoli progetti posso lavorare anche solo con altre due o tre donne, ma non faccio mai niente da sola. Mi sono immaginata sempre un impegno nel lesbismo che non fosse soltanto mio, mi piace proprio il concetto e la pratica di patto politico fra lesbiche, che si scelgono e mettono insieme le risorse che hanno per produrre qualcosa, senza mediazioni maschili o senza dover rimanere per forza in ambito neutro.
Nei gruppi lesbici il piano progettuale si fonde spesso – se non sempre – con quello più relazionale, nel cosiddetto “eros lesbico”. Che cosa, secondo la tua esperienza, fa reggere un progetto e un gruppo di donne su un obiettivo?
Un domandone… non so se quello che vale per me possa valere anche per le altre, di sicuro le relazioni sono molto importanti. Per credere possibile un obiettivo tu devi credere oltre che in te stessa anche nelle altre con cui lo stai perseguendo, altrimenti finisci per cedere. L’appartenenza a questo movimento oggi per me è questo: una generazione, già la seconda, di donne che si muovono insieme per liberarsi e cambiare le cose.
Per me è stato molto importante scoprire che un gruppo di donne insieme poteva assumersi la responsabilità di un’organizzazione, non ne ero sicura, perché in quasi tutte c’è uno spirito di delega potentissimo. L’idea di mettere in piedi non un progetto o un evento, ma un’organizzazione vuol dire che ti sei messa in testa qualcosa di grande: addirittura edifichi una struttura e vedi se può reggere, per quanto tempo e se ha senso. E il fatto che questa esperienza sia proseguita è stata motivo di gioia, io non ne ero certa. Ci sono state delle donne importanti, senza le quali forse non saremmo partite, tipo Titti de Simone, perché all’inizio è un rischio, nessuna vuol fare brutte figure, tu ti esponi e poi non è che in capo a poco puoi dire “scusate, non era vero”. Ci sono dei soggetti che a volte hanno una funzione trainante e lei l’ha avuta di sicuro. Poi può capitare che le persone cambiano, però a un certo punto arriva la percezione di stare in qualcosa che è un patrimonio, un bene comune, che non dipende da una singola ma è cosa di tutte e che è uno strumento dal quale possiamo dire la nostra da una matrice specificatamente femminile. Non so se per le altre sia lo stesso, ma per me questo è veramente tanto.
Quando ero ragazza le donne non mi piacevano molto, mi innamoravo certo, però pensavo che erano sempre incapaci di tutto, avevo questa percezione -misogina o realistica dillo tu-, di una categoria che lascia fare agli altri, che non è mai a suo agio, che non sa “prendersi”. Perciò penso che il femminismo sia così importante, perché è una possibilità che le donne si sono date di credere in se stesse e mi piace l’idea di un movimento lesbico autonomo (non parlo solo di Arcilesbica ma quella è la parte che ho scelto io), così dimostriamo che abbiamo a cuore la nostra esistenza e che ci incarichiamo di trovare le risposte, non stare solo a vedere cosa succede. Mi sembra che un investimento in questo senso presupponga una buona percezione di te stessa, che dimostri di credere che puoi reggere un’impresa simile e che hai delle compagne in grado di condividerla con te, e il progetto va pure avanti. Quanta grazia!
In questo tuo raccontarti si sente molto l’entusiasmo per il percorso che hai scelto. E in tutto questo, quanta fatica c’è, se c’è?
C’è la fatica dell’insuccesso, per esempio sul piano dei diritti, il fatto di non aver ottenuto niente un po’ pesa; tanti anni, tante persone, tante energie e ti scontri sempre con questo muro di gomma, con i politici che abbiamo non si capisce come cambiare le cose e questo è certamente un po’ frustrante.
Alcuni risultati comunque ci sono, essere lesbica oggi non è come vent’anni fa, o peggio prima del femminismo, però guardando fuori dall’Italia le conquiste degli altri noi non le abbiamo ottenute. Magari abbiamo cambiato la possibilità di viversi o l’opinione pubblica ma il fatto simbolico di aver conquistato la cittadella ancora ci manca.
Poi è molto faticosa la conflittualità, le rotture tra donne. Io non mi riferisco a quelle esterne all’associazione, che pure capitano. A volte ci sono degli abbandoni, a me è capitato di deludere delle persone con le quali lavoravo e quindi di non avere più la loro fiducia e questo è pesante, soprattutto se ciò viene messo in contrapposizione con la continuità di quello che stai facendo. Non è capitato una volta sola, così come è successo che fossero altre a deludere me, insomma quando si interrompe la condivisione di un ragionamento può arrivare la solitudine, E’ vero che le persone cambiano e qualcuna c’è sempre, ma il fatto che il cammino non sia più condiviso con certe persone è faticoso.
E poi c’è il piano delle relazioni: noi non stiamo insieme per soldi, lavoriamo sul progetto, su una scommessa comune. Quindi quando la scommessa si spezza lascia morte e ferite, e così come ti può esaltare ti può stroncare, perchè le persone non sono intercambiabili e ci si perde in tante. E’ anche vero che io non sono un personaggio molto adatto al contenimento, in situazioni di divergenza acuta sono una che si irrigidisce e quindi magari questo potrebbe essere un lamento di coccodrillo, ma ognuna nei movimenti ci sta con il suo carattere e, facendo politica lo impari, alla fine abbiamo tutte le nostre modalità.
Cosa ti piacerebbe lasciare al movimento?
E’ vero che ho quasi cinquant’anni, ma in politica non sono molti, non sono prossima ad andarmene! Quello che mi piacerà non so, ma oggi mi piacerebbe che questo movimento -che non può unificarsi, né sotto Arcilesbica né sotto altri e quindi rimarrà un movimento frastagliato- si prendesse la responsabilità di creare un momento periodico di confronto, come accade all’estero. Vorrei che riuscissimo a darci appuntamento ad esempio per un seminario dove misurarci con l’attualità e le diverse culture lesbiche, frequentabile da tutte, anche dalle nuove che arrivano e non sanno niente di ciò che esiste già. Ci vorrebbero occasioni non divulgative, perché oggi credo che non si possa trasmettere il pensiero col bigino. Certo il rischio è che il piano diventi accademico, ma tanto vale correre il rischio e poi correggerci cammin facendo: non vorrei una situazione da queer studies, ma un ponte fra e chi studia e chi fa attivismo. Non so se è questo che voglio dalla vita, ma è quello che voglio adesso.
Sei contenta oggi?
No, non sono ancora contenta. Perciò non voglio raccontare le mie memorie, non è ancora giunto per me il momento.
Intervista di Michela Pagarini – dicembre 2010
http:/www.leswiki.it/repository/testi/whos/cristina-gramolini-per-leswiki.doc
Note biografiche riviste da Maria Cristina Gramolini nel giugno 2006.
A cura di “mt”
Maria Cristina Gramolini è nata a Fano (Pesaro) nel 1963 e vive a Milano. Il suo lavoro è l’insegnamento della storia e della filosofia nella scuola superiore. Attiva nel Movimento Lesbico fin dal 1990, è stata tra le promotrici delle tre Settimane Lesbiche Italiane negli anni ’91-‘96-’98. Ha fatto parte del “Laboratorio di Critica Lesbica”, col quale ha pubblicato, nel 1995, Il Quaderno Viola n.4: “E l’ultima chiuda la porta. L’importanza di chiamarsi lesbiche”, per le Nuove Edizioni Internazionali. Nel 1996 ha partecipato alla fondazione dell’Associazione Nazionale ArciLesbica e ne é stata la Presidente dal 2002 al 2005. Nel 1998, nell’ambito del Primo Convegno milanese sull’Erotismo Lesbico, è stata curatrice della Giornata dedicata ai temi della Transessualità. Dal 1998 è iscritta alla rete Aletheia, il Coordinamento nazionale degli insegnanti omosessuali. Nel 2000 ha pubblicato un saggio sul Movimento Lesbico in Italia nell’appendice a Independence gay di Massimo Consoli, Ed. Massari. Dal 2001 fa parte della redazione della rivista lesbica Towanda!. Nel 2002 ha pubblicato, con Eva Mamini, l’articolo “Movimento Lesbico: tecniche di sopravvivenza e forme di resistenza”, su Donne in movimento, Ed.BFS; ed è stata relatrice italiana alla Conferenza Lgbt del Social Forum Europeo di Firenze. Nel 2003 ha partecipato, sotto il coordinamento della dott.ssa Margherita Graglia e nell’ambito del Progetto Europeo Triangle, alla somministrazione di un Questionario sull’omosessualità a scuola, rivolto ai docenti della scuola superiore. Nel 2004 ha pubblicato un commento su Genesis (rivista della Società Italiana delle Storiche ), riguardante il libro “Omosessuali moderni” di Bargagli e Colombo e il libro “Diversi da chi?” di Saraceno. Nel 2005 ha collaborato all’organizzazione del Convegno “Istituzioni, generi, sessualità”, che si è tenuto all’Università Bicocca di Milano. Nel 2006 è stata nell’organizzazione del Convegno “Biografia di un Movimento. Trent’anni di Lesbismo politico a Milano”. Attualmente [NB: 2006] è componente della Segreteria Nazionale di ArciLesbica.
Link:
- Maria Cristina Gramolini, 1995. “Roma-Stasburgo andata e ritorno“, 1995. I Quaderni Viola. E l’ultima chiuda la porta. L’importanza di chiamarsi lesbiche, 4: 66-67. Milano: Coop. Nuove Edizioni Internazionali.
- “Una, due, tre discussioni… tanto per cominciare”, 1995. I Quaderni Viola. E l’ultima chiuda la porta. L’importanza di chiamarsi lesbiche, 4: 18-32 [Discussione sull’eterosessualità obbligatoria tra Lidia, Cristina, Rosa, Nadia, Marilena, Antonia, Giulia, Teresa, Eva, Silvia, Francesca]. pp. 18-24; 25-28; 29-32.
Nel LesWiki puoi trovare altri materiali relativi a Maria Cristina Gramolini